Luoghi originari e lingua delle origini

Non sembra esserci scampo: o scenari apocalittici, o nostalgie dell’inizio. E queste ultime concentrate nei territori del romanzo medio, come in Ballo ad Agropinto di Giuseppe Lupo, Il dolore perfetto di Ugo Riccarelli e L’interprete di Diego Marani. Un cantare picaresco il primo, venato di cristianesimo paganeggiante e utilitario; un complesso affresco plurigenerazionale il secondo, ricco di episodi fantasiosamente struggenti da situare tra La Storia della Morante e Cent’anni di solitudine. Quindi lo scatenato e discontinuo racconto di Marani, che offre pagine di singolare efficacia inventiva.
 
L’ormai parossistico ricombinarsi di generi e sottogeneri, retorica neoregionale e Weltliteratur, ha certo segnato anche l’annata romanzesca appena trascorsa. Accanto ai fenomeni di ibridismo postmoderno, tuttavia, occorre considerare una crescente specializzazione o meglio polarizzazione in termini tematici e di gusto. Da un lato la narrativa d’intrattenimento thriller, avventura, racconto gotico e fantastorico – con il suo prevalente inclinare al motivo della catastrofe, dell’ultima rovina, secondo un modulo di pretta ascendenza statunitense; dall’altro lato le opere di livello medio e istituzionale, che sempre più spesso indulgono al culto delle origini e a un dolente utopismo d’antan, magari screziato di abissalità metafisica.
Non è chi non avverta il tormento ansioso che sta alla base di una simile dicotomia: nella loro estremistica corrispondenza, miti aurei dell’inizio e profezie in nero sono le forme meglio predisposte a sollecitare emotivamente quel nesso di inquietudini, ripulse, vagheggiamenti retroattivi in cui pare compendiarsi l’intero immaginario contemporaneo. Difficile d’altronde stabilire dove stia la quota maggiore di manierismo schematico, se tra coloro che tinteggiano affreschi edenici o tra gli autori che dall’orrendo presente traggono auspici per una scrittura terroristicamente confortevole. Sul piano del romanzo medio, in ogni caso, opere sorprendenti non ne abbiamo registrate; piuttosto titoli godibili, estrosi, come Ballo ad Agropinto di Giuseppe Lupo, Il dolore perfetto di Ugo Riccarelli e anche Id interprete, di quel singolare narratore fantalinguistico che risponde al nome di Diego Marani.
Il primo, Lupo, ci conduce in una baraccopoli dell’Appennino meridionale, «un anomalo groviglio di rose rampicanti, con recinti per orti e uccelliere, con pergolati, scalinate di legno e soppalchi dove nidificavano colombi e cornacchie». Eventi di ampia portata non se ne incontrano: a dare ritmo alla vicenda, meglio, alla leggenda, sono nascite e ricorrenze religiose, estemporaneità poetiche, invenzioni fortunose di macchine «spulagrano» e manicotti per il freddo imbottiti di capelli umani. La pagina è indubbiamente percorsa da fremiti politici (l’occupazione delle terre, le elezioni del 1948): tuttavia siamo distantissimi dal resoconto impegnato. E se anche la piccola comunità semiproletaria di Agropinto denuncia talvolta le fattezze di una Brescello guareschiana, non è all’utopismo strapaesano che mira l’autore: in una forma strana, a suo modo memorabile, ciò che prevale è anzi un’arguzia picaresca in luogo perimetrato, un cantare seriocomico oltretutto venato di cristianesimo paganeggiante e utilitario. Le minime avventure di Vituccio Tarzàn, di Tano Ucciallì, di Iano Bardotto e dei loro conterranei trovano espressione in uno stile cronistico e divagante, tutto fatti, briciole di quotidianità datata eppure senza tempo. Almeno finché l’astronomo locale, Bastiano dei Miracoli, non individua in cielo una nuova stella, Assodidenari; sotto il segno della quale inizia l’esodo verso le città del Nord, e il misero sito appenninico, già distrutto e ricostituito tra i vagoni in un vecchio casello ferroviario, può assurgere nella memoria a patria perduta, a un celeste e zingaresco paradiso.
Al confronto, assai più ampia e ambiziosa è la tela predisposta da Riccarelli. Anche qui abbiamo un luogo travagliosamente edenico, il borgo toscano di Colle, ai cui margini svetta la casa amorosa della vedova Bartoli e del Maestro. L’idea è quella della saga storica, che dall’epopea risorgimentale approda alla metà del secolo seguente intrecciando i destini di quattro generazioni. A fungere da spartiacque, tra un tempo mitico, fermo, e un’epoca di luttuosità crescente, è il primo conflitto mondiale; perché qui il pervertimento dei valori statuiti assume una dimensione dianzi ignota: «così atroci furono le parole di quelli che partirono ragazzi e tornarono uomini fatti e sconciati che la fantasia narrativa di tutto il paese si arrese di fronte all’immensità di quell’orrore, e per la prima volta nessuno, dal Colle fino alla Piana, riuscì a raccontare quelle vicende diversamente da come in effetti erano state riferite, rinunciando all’innata capacità di narrare le cose della vita come piaceva a loro, e non alla vita».
Una sorta di animismo affabulatorio regge le campiture di Il dolore perfetto} una mistica verbale che si incarna nella levatrice del luogo, la veneranda Maddalena, capace di assistere la puerpera, sciogliendone i più oscuri nodi, al suono di nenie e fantasie solari. Le parole mettono al mondo, e una volta tramandate fissano destini poi chiamati a riprodursi in una trafila infinita: da Sole I a Sole II a Sole III, da Ideale I a Ideale II, da Natalia all’ucraina Natalija, da Annina a Ani’sa. Perché le cose «rotolano», si avvolgono, «e ritornano uguali e diverse, visto che il tempo ce le restituisce con il suo procedere a spirale». Sicché nella terzultima parte del romanzo, la più struggentemente icastica, all’alternanza di lutti e di nascite viene assommandosi la teoria dei ritorni e delle partenze. Il vecchio Sole I reduce dall’Oriente e destinato a spegnersi con il volto acceso da una giovinezza radiosa, Ideale II – già dato per disperso in Russia – che in punto di morte invia a Colle una lettera contenente una lettera mai aperta, Sole III, il nipote, che impetra ogni rigo di quella lettera per poi mettersi in viaggio sedotto da una giovane che ha lo stesso nome della nonna.
E evidente, due grandi lezioni romanzesche sta sforzandosi di mettere a frutto Riccarelli, riuscendovi, in certa misura: La Storia di Elsa Morante e Cent’anni di solitudine. Dalla prima discende il pessimismo radicale dei tempi; lo sconforto di chi al procedere degli evi e allo svolgersi delle civiltà assegna come unico compito la strage degli inermi, dei generosi, dei vocati all’amore. Da Garcia Màrquez il potere eternante del racconto, della parola che passa di bocca in bocca fino a curvare Chronos in una circolarità senza soluzione, dolorosamente fantastica.
Al fantastico, in fondo, si appella anche Marani in L’interprete,un fantastico molto mosso, nutrito di psicologismi e stacchi avventurosi, accenni di noir e interni borghesi. Le pagine più convincenti, più consone alle virtù estrose dell’autore, risultano fuor di dubbio quelle riferite alla clinica del dottor Barnung, dove il protagonista Felix Bellamy tenta di guarire da una misteriosa dissociazione che lo porta a emettere suoni senza senso eppure stranamente espressivi. A valere è qui l’incrocio parodico di freudismo vulgato e discipline glottologiche, in cui l’appartenenza linguistica, romanticamente identitaria, diviene oggetto stesso della parodia. Cos’è il rumeno, spiega il sussiegoso terapeuta, se non una felice sintesi di «giubilo solare del Mediterraneo» che «si fonde con l’irrazionale passionalità slava, si scioglie nella struggente malinconia delle steppe»? E cos’è il tedesco, se non un surrogato dell’aspirina, buona per qualsiasi disturbo? Poi, va da sé, ci sono i casi gravi, al limite della schizofrenia linguistica. Per loro sarà uopo un buon bagno intensivo di lingue alienanti, sorta di elettrochoc psicolalici come per esempio il seroa, una parlata estinta dell’Africa australe, di carattere «avulsivo e molto arcaica, con tre diversi tipi di schiocco di lingua».
Certo lo stile di Marani è alquanto usurato, nell’aggettivazione, nelle scelte retoriche; e i personaggi paiono sbozzati alla brava: il miliardario filantropo, la prostituta-interprete, il perfido scienziato ex sovietico. Difficile dare credito allo stesso protagonista, «un pacifico cittadino svizzero» trasformatosi in terrore della Bucovina e dei Carpazi, quindi arenatosi tra gli squatters di Monaco e infine perso alla stregua di un povero giobbe nell’acquario di Tallinn, a conversare con i tursiopi, grandi mammiferi reperibili unicamente nel Mar del Giappone o al largo delle isole Kurili. V interprete è un testo ricco di idee narrative e insieme privo d’ordine, di ritmo, procede per accelerazioni e parentesi. Sembra obbedire a un codice spurio, sospeso tra avventurosità di genere, fantastico di latitudine medioborghese e scherzo intellettualistico. Eppure resta nella memoria, si distingue, non fosse altro che per la trovata centrale: la rincorsa attraverso città e nazioni sì da afferrare «una lingua segreta»; non quella della Tradizione o del mito prebabelico, ma «la primordiale lingua acquatica che abbiamo parlato tutti e che ancora si nasconde invisibile in ognuna delle nostre imperfette lingue terrestri! La lingua di quando eravamo pesci, scuri e squamosi abitatori del ventre degli oceani, e Dio non sapeva neppure di averci creati».