Manierismi alla prova

A fronte di una produzione iperintellettuale come quella degli Annali di Marco Berisso, coerente peraltro con un progetto già definito sin dagli anni novanta (che in Tommaso Lisa trova oggi uno dei tanti continuatori), Nanni Baie strini e Giancarlo Majorino sembrano interpretare il coté paradossalmente istituzionale dell’avanguardismo. Non senza qualche ridondanza e compiacimento, a ben vedere. Ma la voce nuova di Elisa Biagini, con la predilezione per una misura breve che non preclude la compattezza, scompagina un po’ lo schema – per fortuna.
 
Nel 2004, con la breve raccolta intitolata Black Hole esordisce il ventisettenne fiorentino Tommaso Lisa, in Poesia contemporanea: ottavo quaderno italiano a cura di Franco Buffoni per la Marcos y Marcos. La propensione per le forme rigorosamente chiuse (pur se non sempre impeccabili quanto a prosodia) e in particolare l’attenzione ai media elettronici – con uno sguardo privilegiato a tv e cinema – segnalano il debito contratto con l’opera di Gabriele Frasca, non a caso prefatore della selezione. Difficile, in effetti, cogliere scatti particolarmente originali in sonetti i quali, poniamo, possono chiudere una riflessione sull’ 11 settembre con versi che dicono di «un comico day after sul nero / dello schermo sotto attacco stavolta / prigionieri di una rete infinita / ipnotizzati intorno effetto vero». A ben vedere, comunque, una posizione di un certo interesse vi svolgono certi passaggi iperrealisti che trascrivono un erotismo hardcore («togliendo il lattice guarda da sotto / sul glande con la lingua schiaccia sprizza / succhia gentile il succo fiotto a fiotto») straniandolo mediante inattese clausole iperletterarie.
E, insomma, gli sforzi formalizzanti di Lisa indirettamente ci ricordano che l’opera di gran lunga più interessante ascrivibile al filone, come dire?, medieval-sperimentale, ovvero barocco-sperimentale, venuta alla luce negli ultimissimi anni, vale a dire Annali di Marco Berisso (uscita alla fine del 2002 per Oèdipus), ha avuto davvero troppo poche segnalazioni critiche. A dispetto della sua straordinaria capacità di imbrigliare un’instabile, volatile esperienza – esistenziale ma anche e forse soprattutto politica – entro i codici della lirica amorosa, delle antiche allegorie, dei bestiari duecenteschi. Vi si determina così una specie di doppia desublimazione: quella che trasforma le forme metriche e linguistiche tràdite in strumenti per ricercare un impossibile nuovo, e quella che, appunto, libera la banalità del privato (e dell’ideologia) dalle secche del «poetese», scoprendovi qualche suggerimento utopico. E dunque, come da programma: «nell’incalzare dei microframmenti / percepisci elisir da ogni storia, / a ciò riadeguo la mia forma mentis / e in pochi frames ne fisso la memoria»; quasi che la discontinuità del verso e la «fotogrammatica» del cinema possano confondersi. Ma la scommessa è proprio quella, cortocircuitare gli opposti, straniare l’ovvio, degradare l’aulico.
Sono problemi, a ogni modo, che solo tangenzialmente toccano le più recenti raccolte di due grandi vecchi della parola sperimentale, Nanni Balestrini e Giancarlo Majorino. Il primo, con Sfinimondo, del 2003, uscito per la napoletana Bibliopolis, non aggiunge molto di nuovo alle consuete forme di montaggio che da più di un quarantennio contraddistinguono la sua opera. Le rigorose strutture per l’occhio che segmentano i frantumi di una parola trouvée svolgono ormai un ruolo con ogni evidenza istituzionale. E le sequenze, che so, di quattro o di quattordici versi, le false quartine cioè o i falsi sonetti (questi ultimi, ora, disposti anche in gruppi eidetici «scalari»), suggeriscono connotazioni meno critiche che ludiche: finte forme, intese a motivare una comunicazione a spezzoni di sintagmi che – non troppo paradossalmente – si è stabilizzata, codificata. Non credo sia un appunto o un’offesa: ma è chiaro che dagli anni settanta della «signorina Richmond» l’avanguardia di Balestrini non solo conta su un pubblico di lettori – forse non così esiguo – divertito e partecipe, ma fa di tutto per soddisfarne le attese. Chi scrive, per esempio, in quanto parte di quella comunità, un po’ ha desiderato le chicche su cui la raccolta si conclude: vale a dire i due stupidari Alcune questioni sulla critica e Il corpo della poesia contemporanea, che fanno piazza pulita dell’insopportabile birignao con cui i critici esorcizzano il terror panico di non aver più nulla da dire sulla letteratura. Le ho desiderate, dico, e poi apprezzate, anche perché da critico – riconosco in non pochi versi incollati da Balestrini certa miseria del mio-nostro dire (poniamo: «coi detriti del presente si costruiscono così / attraverso montaggi e assemblaggi delle parabole / delle ipotesi figurative delle micro-profezie / la poesia si nutre di ciò che è altro da sé»).
Anche il secondo pater a cui mi riferivo, Majorino, sembra ribadire antiche certezze. L’autore, nel lontano 1959, del poemetto narrativo La capitale del nord, più di quarant’anni dopo ritorna con una struttura latamente romanzesca, dal titolo Prossimamente. Vero è che Majorino più che un’opera conclusa ci presenta un trailer, in senso propriamente cinematografico (un «prossimamente su questi teleschermi», dunque): l’assaggio di un’amplissima costruzione, cominciata addirittura nel 1969, che dovrebbe comporsi di nove libri, «un enorme abisso o montagna di fogli scritti» la definisce l’autore, «moto d’assieme […] formatosi nel tempo […] sulla forte spinta di ciò che (mi) stava accadendo». Il lettore, tuttavia, può forse sentirsi spaesato di fronte alle anticipazioni a lui offerte: se è vero che il testo si presenta come un piatto misto, estremamente frammentario e privo di vera continuità poematica, che non sia quella prodotta dall’inerzia accumulativa dei materiali giustapposti (non senza ambizioni di simmetria numerologica, data la sequenza di due parti, ognuna di 3 sezioni, composte rispettivamente di 13, 13, 13 / 10, 10, 13 componimenti per un totale di 72). E non è solo una questione di tempi diversi di composizione (più antiche le pagine in corsivo rispetto a quelle in tondo, scritte dopo il 1990), ma proprio di forme metriche e stilistiche molto divaricate. Se infatti prevale – ed è un fatto sintomatico – il ritmo-zero della prosa, spesso deputata a restituire esperienze in senso lato oniriche, le escursioni del metro oscillano dai versi lunghi agli endecasillabi, dalle misure brevi a quelle orizzontali segmentate con i «bianchi» entro la linea; e, quanto alla lingua, le sequenze discorsive convivono con l’addensarsi dei cortocircuiti lessicali (crasi di lessemi, voci viceversa spezzate, dialettismi e gergalismi bruti), mentre l’assenza di punteggiatura si affianca al suo uso ipertrofico. E così via. Difficile, a questo punto, capire che cosa ci aspetti nei volumi della narrazione vera e propria; vero è che Majorino espone fin troppo chiaramente il contrasto tra l’ambizione poematica e l’eccessiva eterogeneità dei materiali messi sul piatto. (Esattamente all’opposto di quanto ha fatto Giampiero Neri con il suo Armi e mestieri. Qui, l’estremizzazione di cui si può parlare è di indole minimalista, è la cancellazione ostinata di ogni appeal espressivo, di ogni torsione contrastiva, anche quella tra poesia e forma della poesia, cioè tra prosa e verso, che infatti ora sono resi indistinti: ma, come in Majorino, tale radicalizzarsi dei procedimenti costruttivi primari dalla parte di Neri «sottrattivo», mentre dall’altra parte è «accumulativo» — è indice di un’eccessiva fiducia nei propri mezzi, di una curiosa forma di manierismo.)
Se tutto ciò è vero, tanto più valido deve apparirci l’esordio presso un grande editore di una poetessa fra le più interessanti degli ultimi anni, la non molto più che trentenne Elisa Biagini, che sempre nel 2004 ha pubblicato per Einaudi L’ospite. In effetti, se Majorino manca la totalità pur alludendola e volendola nella struttura, Biagini la raggiunge, credo, pur facendo di tutto per eluderla. Le 124 brevi poesie di cui si compone il volume sono affiancate senza alcun «dispositivo» interno, partizione o suddivisione di sorta; compongono un’unica sequenza che non spreme alcun succo vivificante nemmeno dai titoli, quasi sempre assenti. Eppure, la misura breve (anche in senso metrico) praticata da Biagini produce un notevole effetto di compattezza. La fissazione su un numero circoscritto di temi (legati alla sfera domestica), il prevalere di un registro allocutivo, l’ossimorica spezzettatura «fluida» del discorso (quasi un parlato divagante, che pure genera profili relativamente stabili) producono quelle isotopie che appunto garantiscono la tenuta del tutto. Certo, in qualche caso il gioco può sembrare fin troppo leggero e ripetitivo e il versicolo con cui ci confrontiamo leggermente stucchevole, ungarettiano in senso parodico (si legga per esempio il concettoso: «mi sei più / vicina della / giugulare, / assorbente come / carta da parati: / mi specchio nel / tuo cuore di / zuppiera, ho / un calco del tuo / stomaco come / piatto da frutta»). Eppure, quanto produce un effetto liberatorio nel lettore è l’impressione che, almeno per un attimo (e in opposizione perfettamente frontale – si badi – alle due opere con cui era cominciata la presente rassegna), una voce forte del proprio puro esserci, del ritmo generato dal proprio discorso, possa bucare la pagina, restituendo qualche barlume di esperienza non mediata da troppa letterarietà. E che a farlo sia una giovane donna capace di pensare e scrivere anche in inglese, di riferirsi – come spesso è stato detto – ad altra poesia femminile non italiana, conferma che la voce di Biagini è davvero un po’ diversa da quelle a cui il solito sperimentalismo ci aveva abituato. Ma è difficile dire se su un’acquisizione così esile si possa costruire qualcosa di duraturo.