I viscerali e i post-neo-avanguardisti

Da Antonio Moresco a Marosi a Castaldi, i narratori più sofisticati manifestano negli ultimi tempi un’irresistibile attrazione per la rappresentazione del sé corporeo, con uno scandaglio impietoso e non privo di morbosità su corpi offesi, di cui si esaspera la fragilità, la finitudine, la malattia. Di contro le rappresentazioni caleidoscopiche e stranianti offerte dai prosatori come Balestrini o Grazioli coniugano invece la sperimentazione linguistica con le istanze politico-sociali. Ma in entrambi i casi, la parola letteraria non sembra giungere a un vero momento di restituzione di senso.
 
«Ho saltato il fosso, ho scavalcato il tempo. Ho accettato la sfida, l’ho provocata. Attraverserò cruentemente il campo nemico facendogli credere chissà cosa per poi trascinarli tutti quanti fin dove ci porterà questo sogno non ancora sognato, questo agguato». La Parte seconda dei Canti del caos non lascia il minimo dubbio circa l’intento di Antonio Moresco di collocarsi al livello espressivo più alto. L’incipit promette contenuti d’eccezione; lo stile punta immediatamente al sublime; la prosopopea dell’autore delinea un’immagine di eroismo prometeico. Lo stesso schema della clausola binaria non implica correzione (correctio), quanto una sorta di bilanciamento in alto, di levitante autoriflessività. Completa l’esordio un’invocazione solenne: «Dammi, o Musa, le forze cieche, indistinte, per andare avanti in questa poltiglia increata, spalanca di fronte a me i tuoi specchi, accoglimi nel tuo sbrego oceanico cieco, nella tua polpa molle piena di bagliori!». E subito viene introdotto – o meglio, confermato – il terreno d’elezione di questa coturnata letteratura: il corpo, la corporeità, le viscere, dominanti già nella prima parte dei Canti del caos (così come, possiamo presumere, nell’ultima dell’annunciata trilogia).
Un’insistenza ossessiva sulla fisicità carnale contraddistingue altresì Dava fine alla tremenda notte di Marosia Castaldi. Tutte le vicende narrate ruotano intorno ai temi della morte e del corpo, e in particolare del corpo femminile. Molto diverso, per il vero, è lo spirito del romanzo: all’aggressività feroce di Moresco, al gusto quasi sadico per la violenza penetrante e dilacerante, subentra la percezione dolente e tormentosa di una femminilità che si direbbe votata a una sorta di immolazione sacrificale. Spicca, nelle varie sequenze delle quali il libro è composto, la figura della pittrice spagnola soprannominata Spina di ferro (al cui confronto Frida Kahlo si sarebbe potuta dire una donna sana e fortunata): unica superstite di due gemelle nate senz’ossa, ella sopravvive solo grazie a un chirurgo che periodicamente integra e riassesta il suo scheletro artificiale. Comuni tuttavia a Moresco e alla Castaldi le fantasie di smembramento, le assillanti immagini di violazione e stupro, e (cosa ancora più rilevante) il larghissimo ricorso a iperboli e figure di accumulazione: una sorta di retorica dell’eccesso, che sembra voglia sfidare la sensibilità del lettore. A chi si trovi in piccioletta barca, così immani orrori sconvengono.
Non da oggi, una delle strade che battono più volentieri i narratori desiderosi di porre le proprie creazioni al di sopra di una produzione narrativa media, magari anche spregiudicata nella rappresentazione della vita dei sensi ma pur sempre (lato sensu) realistica, consiste nel concentrarsi sulla matericità dell’essere umano, esasperandone l’aspetto carnale e creaturale. L’individuo, inteso come unità biopsichica o come organismo complesso, perde rilievo a vantaggio delle parti, e segnatamente delle aperture, naturali o no, letterali o figurate. Quello che più conta sono gli orifizi, le ferite, le mutilazioni, ovvero le mutazioni e le metamorfosi, còlte in un regime di accensione fantastica che non di rado assume connotati di fissazione visionaria. Del resto, è sintomatico che a breve distanza di tempo Einaudi abbia pubblicato almeno tre volumi nei quali l’autore indugia a descrivere il proprio corpo, a interrogarlo, a ragionarci su. Corpo (appunto) di Tiziano Scarpa è una raccolta di autodefinizioni, una divertita e compiaciuta fisiologia dell’io in forma sentenziosa. Sul versante patologico si muovono invece Svenimenti di Edoardo Albinati e Nel condominio di carne di Valerio Magrelli. Mentre Albinati passa in rassegna una variegata casistica di stati residuali della coscienza – sonni, mancamenti, deliqui, anestesie, crisi epilettiche, ipnosi, trance – parlando quindi di molti altri, oltre che di sé, Magrelli si concentra sul proprio organismo, raffigurandolo come assemblaggio precario di componenti vulnerabili (da «calcinato Lego osseo»), come cieco apparato di automatismi, ovvero come deiezione, escremento, putredine. Una rivelazione scocca quando il chirurgo mostra all’autore la testa del femore che gli ha appena sostituito con una protesi metallica: «Sono trasalito, l’ho scrutata con cura, e poi ho capito che il sussulto non veniva da lì, non dall’immagine di quelle povere macerie. […] La fitta è arrivata, inattesa, da un’altra parte: dall’ago dell’odore. Bistecca cruda. Sapeva di bistecca. Sapevo di bistecca. So sempre di bistecca, dunque, dentro – e solo la mia molle pelle-cellophane trattiene quell’atroce alitare di macelleria, quel vento di sangue che spira dalle cantine, freddo, da un seminterrato di vene». Nell’insieme prevale l’impressione di un latente ma dilagante caos, appena temperato dall’ironia del discorso. Il disfacimento incombe; lo smantellamento di questa non troppo ben riuscita macchina corporea, solo che lo si voglia osservare (eventualmente avvalendosi delle innovazioni della tecnologia medica), più che in agguato, è già in atto.
Oltre alla linea della prosa viscerale e tomografica, che attraversa i confini tra fiction e non-fiction, tra letteratura di ricerca e letteratura istituzionale, prosegue una tradizione post-neo-avanguardistica volta a coniugare istanze politico-sociali e sperimentazione sul linguaggio. Pausa caffè di Giorgio Falco è costruito per giustapposizione o affastellamento di brani, ciascuno dei quali inscena la voce di un personaggio intento a parlare di sé (quasi un Woobinda al quadrato). Notevoli sia la mimesi di eloqui mediobassi, che include la stilizzazione di linguaggi massmediatici, sia l’attenzione alla dimensione del lavoro, che afferra ed esibisce pezzi della viva realtà di oggi. Ma il libro accusa la mancanza di una misura interna: potrebbe essere lungo il doppio, il triplo o la metà, e la dispersività attenua l’efficacia della rappresentazione. In Sandokan. Storia di camorra Nanni Balestrini delinea un quadro impressionante della malavita nel casertano. Più ancora della narrazione di efferati delitti, colpiscono le pagine dedicate alla vita quotidiana, al funzionamento ordinario delle cose in una zona d’Italia dove il controllo capillare del territorio rimane appannaggio delle organizzazioni criminali (si veda per esempio il bellissimo capitolo sul macero, che illustra come avvengono la distruzione dei prodotti agricoli in eccedenza e la relativa distribuzione degli indennizzi).
Nessuna novità sostanziale, tuttavia, rispetto ai precedenti romanzi-documento di Balestrini; anzi, a volte si ha la sensazione che l’assenza di segni d’interpunzione sottolinei, anziché contrastare, un andamento del discorso che tende al prosaico-giornalistico (effetto del tutto estraneo alla raffinata Storia di Matilde di Giovanni Mariotti, romanzo pure senza punteggiatura e per di più composto da un’unica interminabile frase, ma dotato di un suo ritmo caratteristico, seducente e evocativo).
Del resto, il Novecento ha legato al nuovo secolo una copiosa eredità di procedimenti formali straniami, che smorzano l’impulso a immedesimarsi con i personaggi. Lampi orizzontali di Luigi Grazioli punta per esempio sulla mobilità dell’inquadratura e sul fitto ricorso alle anacronie. Un narratore onnisciente presenta una serie di figure piuttosto banali che s’incontrano o s’incrociano in una piazza, presso l’ingresso dei giardini pubblici. Il focus della narrazione si disloca senza posa, in una sorta di deriva prospettica; il realismo minuto riecheggia i modi del modernismo primonovecentesco; le frequenti anticipazioni configurano quasi dei microromanzi, sciorinati in un tono divagante e colloquiale, a volte perfino un po’ petulante (come nelle sparse note, cavillosamente metanarrative). Ma nessuna epifania illumina il racconto.
Due osservazioni, in calce a questi appunti di lettura. Che tante «rivelazioni» proposte dalla letteratura recente abbiano a che vedere con la corporeità (conseguenza o sintomo del post-human che caratterizzerebbe la società attuale) non mi sembra positivo: il rischio del ripiegamento, della velleità, della gratuità è assai forte a tacere del fatto che nel mondo di fuori troppe cose sconvolgono e spaventano davvero perché ci possano impressionare più di tanto le perlustrazioni della vecchia veste di Adamo (comunque dissezionata, ipostatizzata o vilipesa). Di contro, gli sforzi di rappresentazione della realtà esterna la reduplicano, più che interpretarla: o la stilizzano in trame troppo sottili. O non sottili abbastanza, forse, da inciderne la superficie.