Elegie del declino

Luttuose derive della mente, fallimenti educativi, tracolli industriali: i territori del romanzo medio sembrano privilegiare il resoconto di esistenze in perdita. Alle cadenze tragiche di Il male è nelle cose di Maurizio Cucchi e Il sopravvissuto di Antonio Scurati, che indagano i grumi oscuri della psiche e i silenzi minacciosi dell’universo giovanile, si alterna la baldanza nostalgica di L’età dell’oro di Edoardo Nesi. Ma la più persuasiva elegia del declino, nutrita di sulfureo umorismo e soprattutto retta da uri instancabile voglia di raccontare, ci arriva da Il tramonto sulla pianura di Guido Conti, affresco a più voci sul secolo trascorso.
 
Una cosa è certa: nell’affollata varietà di proposte di quest’annata romanzesca, il panorama della narrativa istituzionale non sembra davvero voler indurre nel lettore sentimenti di fiducioso ottimismo. Lontani dalle suggestioni dei paradigmi di genere e dagli ibridismi contaminatori, eppure decisamente propensi a una comunicatività distesa, molti degli autori che scelgono la strada del romanzo tradizionale paiono accomunati dalla predilezione per atmosfere intristite, oscillando fra malinconie soffuse e referti di raggelata drammaticità.
Uno sguardo ai titoli di alcune opere recenti conferma l’impressione di un generale ricorso a toni crepuscolari, quando non apertamente apocalittici: Il tramonto sulla pianura di Guido Conti, Il male è nelle cose di Maurizio Cucchi, Il sopravvissuto di Antonio Scurati, esibiscono tutti, a partire dal paratesto, l’appartenenza delle storie narrate all’ambito retorico della mestizia elegiaca o del pessimismo più fosco. Vi si può accostare anche l’ultima opera di Edoardo Nesi, L’età dell’oro, un’epoca, s’intende, irrimediabilmente trascorsa, quella del successo economico di un piccolo imprenditore tessile pratese, a cui si guarda con intenerita nostalgia.
Diversi per scelte tematiche, strategie stilistiche e ordito compositivo, questi libri sono altresì accomunati da un’identica propensione a costruire la vicenda attorno agli assilli di un unico protagonista, il cui rilievo fisionomico assicura coesione e tenuta alla macchina romanzesca. L’esito narrativo tipico sarà l’illustrazione di una parabola discendente, una sorta di Bildung rovesciata dove il personaggio principale sembra progressivamente smarrire integrità identitaria e punti di riferimento. Difficile sostenere che si tratti di un segnale confortante, ma tant’è: per molti romanzieri italiani un terreno di prova prediletto continua a essere la cronaca amara di una sconfitta esistenziale. A variare è semmai l’intensità con cui si dà conto dello scacco subito, ovvero se a prevalere saranno le note della perplessità crucciata, intrisa di rassegnazione nostalgica, oppure quelle, oltranzisticamente più accese, di una tragicità senza scampo.
Senz’altro ascrivibili a quest’ultima opzione sono i romanzi di Cucchi e Scurati. Il primo è in realtà un testo scritto negli anni sessanta, e solo ora dato alle stampe in seguito a compiuta revisione. In una prosa tersa, ferocemente analitica eppure molto scorrevole, Il male è nelle cose narra dell’infernale deriva psichica del giovane protagonista Pietro, un trentenne sfaccendato progressivamente in balia dei propri inconsulti impulsi aggressivi. Cucchi non fa alcuna concessione a un immaginario cruento, la violenza del suo personaggio essendo tutta mentale: dapprima impercettibilmente, poi sempre più spesso, in un crescendo drammatico e necessitato, Pietro non sa trattenersi dal ferire chi gli sta attorno con parole e gesti sgradevoli, inopportuni e gratuitamente crudeli. Declinato sulle cadenze classiche del romanzo psicologico, dove l’ottica narrativa si affida esclusivamente alla turbata interiorità del protagonista, il racconto giunge senza scosse alla prevedibile conclusione luttuosa. Per quanto conti pagine efficaci e conturbanti, il dramma di questo abulico antieroe non riesce tuttavia a catturare fino in fondo il lettore, complice anche una sintassi romanzesca che tende ad avvilupparsi su se stessa. Alternando riflessioni esistenziali e minuziosi referti percettivi, la vicenda si snoda per sequenze iterate di arsi e tesi, dove l’implacabile messa a fuoco di frammenti di realtà si trasfigura puntualmente in allucinata vertigine.
Altrettanto cupo ma senz’altro più mosso è il quadro offerto da Scurati. Anche in questo caso, la narrazione sfrutta le risorse ipnotiche del soliloquio mentale facendo perno sull’unicità prospettica del protagonista; a differenza di quanto accade nel libro di Cucchi, interamente ritmato su private ossessioni, Il sopravvissuto adombra tuttavia un universo sociale ben riconoscibile. Il 18 giugno 2001, in procinto di sostenere l’orale di maturità, lo studente Vitaliano Caccia stermina a revolverate l’intera commissione d’esame: risparmia solo Andrea Marescalchi, il professore di storia e filosofia. Toccherà a quest’ultimo, nel corso di un’estate scandita dall’isteria dei media e dalle inchieste giudiziarie, cercare una spiegazione possibile della mattanza. Ancora una volta, ad accamparsi sulla scena è un’accorata meditazione sulla banalità del male, svolta nelle forme del processo di autocoscienza. Tramata da andirivieni memoriali, la ricerca del protagonista mira a sviscerare le zone d’ombra delle dinamiche educative e dei rapporti tra le generazioni, e lo fa con apocalittica veemenza: sullo sfondo, un paesaggio suburbano illividito, mentre la coincidenza dell’epilogo con la vigilia dell’undici settembre vale da ulteriore sigillo funereo alla vicenda.
Su ritmi assai più spavaldamente conversevoli punta Nesi in Lieta dell’oro, un’altra storia di fallimenti ed errori. Se Scurati indagava le falle dell’istituzione scolastica, qui le luci si appuntano sul declino industriale italiano, in particolare quello della piccola impresa travolta dalla concorrenza globale. Fallito e malato di cancro, Ivo Barocciai indugia con epica esuberanza sui bei tempi andati, quando il padroncino di provincia poteva versare sui tavoli del Crazy Horse intere bottiglie di Dom Perignon in sfida a un cameriere troppo altezzoso.
Il romanzo trova momenti di efficacia godibile proprio nell’autoritratto retrospettivo di questo personaggio, che alterna generosità e spacconeria, furbizia e candore in ossequio ai più noti tratti socioantropologici nazionali. Molto meno riuscite le sequenze collocate nel tempo di primo piano del racconto, un futuribile 2010 in cui il protagonista ormai allo sbando si affida a un’improbabile fanciulla nell’altrettanto improbabile tentativo di ricorrere alla fecondazione artificiale.
È del resto proprio lo squilibrio fra i due livelli temporali della vicenda a rendere L’età dell’oro un romanzo inconcluso, che promette al lettore più di quanto infine non mantenga: convincente nella resa dell’autoaffermazione vitale dell’eroe, la storia perde plausibilità e mordente quando si tratta di sceneggiare la curva discendente della parabola, in bilico fra invenzioni narrative sfilacciate e cadute patetiche.
Chi invece ha saputo sondare con invidiabile tenuta romanzesca ed esiti di struggente umorismo gli eterni temi della malattia, della vecchiaia e della morte è stato Guido Conti in Il tramonto sulla pianura. Quasi interamente ambientato in una casa di riposo nella campagna parmense, il libro si struttura sulle alterne affabulazioni degli anziani ospiti, che trascorrono il tempo fra arguti battibecchi, rievocazioni memoriali e malinconie agrodolci. Ora tragici, ora amaramente burleschi, gli episodi si cadenzano su una griglia paratestuale molto marcata e ricca di rimandi interni, dove ogni capitolo introduce un nuovo segmento narrativo attraverso sulfurei sottotitoli di impronta ironicamente sapienziale. Con un artificio non certo nuovo, ma di sicura efficacia, il dipanarsi di ogni storia prende le mosse dalla curiosità irriverente eppure profondamente empatica del protagonista Eugenio: tipicamente, il gioco è teso a suscitare nel lettore analogo interesse per le vicende narrate, e in questo caso può dirsi riuscito. Al meccanismo della divagazione affabulatoria fa del resto riscontro la coesione dell’impianto spaziotemporale, tramato di echi simbolici altrettanto compatti: mentre l’estate del 1989 lascia il posto all’inverno e mutano i colori della campagna, nella villa ospizio, eden di malinconica separatezza, giungono attutite le «notizie del mondo in subbuglio». Nel riverbero di suggestioni vespertine, il tramonto di un secolo e lo spegnersi della generazione che lo ha vissuto compongono un affresco morbidamente elegiaco e paradossalmente vitale, pur nei succhi mortuari di cui è intriso. Ed è proprio la fiducia nel potere ludico e immaginativo della fantasia romanzesca a smorzare con calibrata autoironia i rischi del compiacimento catastrofista: in fondo, «mai fidarsi di ciò che si sogna o si vede… e soprattutto si racconta».