Rifiuti sperimentali

Da svariate opere in preparazione emerge la tendenza a ridurre il tasso di sperimentalismo linguistico e strutturale per un maggior impegno sul versante della definizione del soggetto (Walter Siti parla di «sperimentalità dell’io»), con significativi investimenti autobiografici. D’altro canto appare degno di nota che gli ultimi libri di Tommaso Pincio e Tiziano Scarpa, diversissimi tra loro, convergano nell’attribuire un’importanza cruciale al tema dell’immondizia, quasi un emblema della fine dei tempi e della dissoluzione di ogni speranza in un futuro migliore.
 
Alla rivista bolognese «Il Verri», fondata da Luciano Anceschi nell’ormai lontano 1956, spetta una posizione di rilievo nella storia della letteratura italiana: molte delle esperienze più innovative del Novecento, a cominciare da quello che sarebbe diventato il Gruppo 63, sono state annunciate dalle sue pagine. Un nome, insomma, una garanzia. Di qui l’interesse del numero di maggio 2005, dal titolo Il libro a venire, composto da sedici brani di altrettanti narratori, diversi per età, gusto e formazione, tratti dalle opere alle quali stanno attualmente lavorando, e corredati da autocommenti. Per il vero, alcuni di questi autocommenti sono così ingombranti e compiaciuti da togliere respiro al testo: parrebbero quasi frammenti di autobiografie o contributi in fieri alla critica di se stesso. Ora, richiedere al lettore l’attenzione e la fatica di prender la misura di due stili diversi mi pare indiscrezione, quando non iattanza. Quello che vale per i libri, vale anche per gli stralci di livres à venir, uno alla volta basta, quando non è di troppo.
Più significativo è il rilievo dell’elemento autobiografico o pseudoautobiografico interno ai testi, anche per la varietà delle soluzioni. Promemoria a Liarosa di Pagliarani, indirizzato alla figlia, si direbbe ispirato (come dice Andrea Cortellessa nell’introduzione) al Manoscritto per Teresa di Pietro Verri: ovvia la scelta per una scrittura piana e comunicativa. Anche Resurrezione di Marosia Castaldi è contraddistinto da un abbassamento stilistico rispetto all’uso dell’autrice, con esiti che, a questo assaggio, appaiono promettenti. Quanto a Walter Siti, che con Troppi paradisi sta per portare a compimento una trilogia, bisognerà un giorno riflettere sul moderno genere delle narrazioni in prima persona con un eroe la cui somiglianza con l’autore del libro mira non già a suggellare, ma a revocare in dubbio, se non proprio a scongiurare, implicazioni autobiografiche (lo stesso Siti parla di una «sperimentalità dell’io» volta a compensare il ridotto tasso di sperimentalismo linguistico e strutturale). Discorso simile varrebbe anche per Michele Mari, qui però presente solo per la riscrittura del romanzo d’esordio, Di bestia in bestia’, il che pone un’altra questione, la sempre più diffusa tendenza degli scrittori a ritornare sulle proprie opere per aggiornarne la fisionomia. A volte, come in questo caso, si percepisce la fiducia nella possibilità di un progressivo perfezionamento estetico; altre volte si direbbe agisca una sorta di interiorizzazione dell’imperativo all’update (e va da sé che il nome più emblematico sarebbe quello di Alberto Arbasino).
Per il resto, alcune conferme, alcune incognite, qualche promessa. Gli estimatori di Tommaso Ottonieri ritroveranno nel brano delle future Strade che portano al Fucino – pure imputate di compromissioni autobiografiche – il suo impervio impressionismo barocco: quello stile frondosamente analogico che procede per accumulazione di apposizioni e sinonimie, volute di similitudini, arricciati neologismi, e che non di rado sembra tradire una segreta allergia per le proposizioni reggenti. Anche i lettori di Ermanno Cavazzoni riconosceranno l’indiavolato brio dei suoi momenti migliori, il gusto della vertigine paradossale e umoristica (il protagonista della storia, lasciata senza titolo, è un tale che viene ingaggiato come extraterrestre). Altri frammenti sono più difficili da giudicare. A Laura Pugno va riconosciuto il merito di conciliare l’attitudine sperimentale con la capacità di raccontare una storia, commisurando la tensione della scrittura alle dimensioni del testo (Syberia è l’anticipazione di una raccolta di racconti), mentre Ugo Cornia punta su un monologo torrentizio e non di rado lutulento, che di per sé non ha molto di nuovo: tutto sta a vedere se ne sortirà un testo di sostanza, o no. E qualcosa del genere vale anche per Jazzrusalem di Giordano Meacci, che mostra comunque di avere un estro più vivace.
Considerazioni meno congetturali si possono fare su opere compiute. Un’uscita di rilievo è senz’altro La ragazza che non era lei di Tommaso Pincio. Evidente fin dal titolo il tema dello sdoppiamento o svuotamento dell’identità, a cui del resto l’autore fa risalire, al di là del plateale calco sul nome dell’americano Thomas Pynchon, il suo stesso pseudonimo: Tommaso in ebraico significa infatti «gemello», Pincio è variante d’una voce dialettale che sta per «uno qualunque», «un nessuno» (come nell’espressione «pinco pallino»). Particolarmente efficace la prima parte del romanzo, che riprende modi della fantascienza o della tradizione distopica. Una ragazza, che viene chiamata Laika Orbit, si ritrova in una città squallida e persa nella polvere, nel mezzo d’una pianura sterminata dove sorgono rumorosi, non meglio identificati escrementifici. Laika sa che il suo vero nome è un altro, ma non lo ricorda, e ignora come esattamente sia arrivata in quel luogo, salvo che a portarcela è stato un tipo bizzarro (un «alieno») che parla solo con le consonanti, dopo averla rimorchiata in un fast food. Cercando di sfuggirgli, Laika scopre che da quella città senza nome parte un pullman per Ghetto, da dove si può proseguire per Ghiaccia e Ghibli, e di lì per altre località che iniziano per «G»; tutt’intorno, il vuoto. Il resoconto delle sue disavventure è intercalato dalla voce di Little Big Om (altro nome allusivo, tra giaculatorie buddiste e miti western), che dai microfoni della «radio del karma» ammannisce considerazioni ironicamente desolate su quel regno della polvere – una polvere forse allucinogena, ma che sembra abbia gli occhi, e tenga ogni cosa sotto ferreo controllo per conto d’un potere anonimo e lontano. Tra la rassegnata e ipocrita umanità circostante vagano i cosiddetti giocatori di Runaway, vagabondi o fuggiaschi incasellati tuttavia nel sistema da cui hanno cercato di liberarsi. Dopodiché il racconto risale indietro nel tempo per rievocare la storia della famiglia dell’accompagnatore-rapitore di Laika. Un bisnonno che negli anni venti aveva costruito una macchina per crittografare; un nonno che durante la Seconda guerra mondiale aveva collaborato con il controspionaggio per la decifrazione dei messaggi in codice tedeschi; e soprattutto una madre sciroccata che ha condiviso la vita randagia e velleitaria di una comunità hippy, mettendo al mondo senza volerlo un bambino al quale fino al terzo anno di età nemmeno si cura di dare un nome. Il piccolo, chiuso in un ostinato silenzio di protesta contro il disordine che lo circonda, diventa un genio matematico: una sorta di beautiful mind, sia per la mostruosa capacità di calcolo, sia per la coazione alla marginalità sociale.
Il finale della Ragazza che non era lei ricuce i due piani della storia; ma nell’insieme si ha l’impressione che Pincio, narratore dalla tecnica scaltrita e lettore curioso e onnivoro – i suoi riferimenti culturali sono tutti puntuali e ben informati – abbia sfruttato solo in parte la trovata iniziale. Anziché approfondire il suo brave new world ispirato al paesaggio non solo geografico dell’America profonda (l’America che nel 2004 ha decretato la rielezione di George W. Bush), ha preferito ripiegare sulla raffigurazione di un’epoca trascorsa: quegli anni sessanta del secolo ventesimo che si direbbero aver dilapidato con futile incoscienza le speranze in un mondo migliore, anche a nome delle generazioni successive. All’attivo di Pincio resta tuttavia la capacità di parlare di smarrimenti esistenziali e di rapporti tra genitori e figli attraverso panorami visionari, personaggi insoliti, svelti dialoghi. Su tutto s’impone il tema dell’immondizia e della deiezione, che ingloba la sorte dei singoli e lo stato del mondo: «Il passato è un ammasso di scarti che seminate in giro senza posa. In questo siete uguali al vostro corpo. Non fate che cospargere l’ambiente di rifiuti. […] Macchie di parole indelebili, aloni di pensieri sporchi, grumi di dolori, lanicci di desideri, granelli di storie».
Diverso per ogni altro aspetto, incluso il ricorso a una versificazione (sia pur di stampo anti-lirico), anche l’ultimo libro di Tiziano Scarpa ruota intorno al tema dei rifiuti, con robusta presenza della componente fecale. A prendere la parola in Groppi d’amore nella scuraglia è un personaggio di nome Scatorchio, che in un colorito idioma centro-meridionale racconta come la moglie Sirocchia l’abbia lasciato per tale Cicerchio; causa dell’abbandono, il suo incauto appoggio all’idea del sindaco di consentire la costruzione di una grande discarica in cambio dell’installazione sul campanile del paese di un ripetitore televisivo. La triste storia di Scatorchio – narrata con piglio a tratti spassoso – è intercalata da descrizioni di animali (lu gattu gattaru, lu cane canaglio, lu bombu muscariu, lu scuiattulo, lu pepestrello), nonché da furiose invettive contro Gesù, che non ha avuto il coraggio di instaurare il proprio regno in questo mondo («tu ne sì pigliato spavento / de conquista l’imperio. / Te ne sì morto sciantoso, / ce n’abbi lassati tutti ne la munnezza putra»). La materia narrativa tiene alquanto della tradizione novellistica, sagacemente aggiornata: ma Scarpa la elabora in forma di litania medievaleggiante, quasi da mistero buffo, gremita di espressioni corpose e cadenze formulaiche.
Dalla letteratura del rifiuto alla letteratura dei rifiuti? Le vicende narrate da Pincio e Scarpa, malgrado i finali non tragici, sono accomunate da una medesima desolazione di fondo, dalla percezione di una radicale mancanza di prospettive: il primo la interpreta in chiave onirico-apocalittica, il secondo le dà veste di monologo scenico, bozzettistico e creaturale. Inoltre, ambedue operano una dislocazione contestuale e/o stilistica rispetto all’istituzione letteraria nazionale. La ragazza che non era lei è un racconto “americano”, sia per l’ambientazione – gli Stati Uniti degli anni del Vietnam, una futuribile orwelliana Bible-belt – sia per la scrittura, esemplata sulle spicce cadenze di certa narrativa d’oltreoceano («La vita può rivelarsi particolarmente difficile quando passi le tue giornate ad ascoltare le storie da matto di un genio dei numeri che si è bevuto il cervello»). Groppi d’amore nella scuraglia rinuncia all’italiano contemporaneo per attingere al giacimento dialettale di un abruzzese rustico, seppur non mimetico e forse parzialmente inventato, oltre che filtrato da modelli eroicomici colti (da Folengo a Fo). A conti fatti, e al netto del divario di registro, forse la distanza tra i due messaggi non è grande. E non c’è differenza sostanziale tra morire dilaniato da una bomba a mano nel Loop Restaurant di Cloaca Maxima (loop, per inciso, significa cappio), ovvero essere ammazzato da un folle armato di fucile che spara a casaccio in un fast food del Midwest, ed entrare di firifurfo dentro lo camio attrasporto de munnezza, addopo lu scaricu de la mucchia putra, e contemplare la crocetta di Gesù sulla collina, innante a lu fallamentu de lu munnu.