Perché cantanti celebri e strapubblicati, che hanno a disposizione mezzi ben più moderni e potenti e che hanno spesso vantato come un titolo di merito la propria alterità rispetto alla tradizione scritta, sembrano vedere nel supporto-libro il veicolo più adatto a raggiungere la fama eterna, ma soprattutto un riconoscimento di pregio estraneo al “successo”? Tra cultura alta e cultura popolare, una riflessione sulle parole senza musica (ma con introduzioni critiche, discografie, biografie, bibliografie): la “poesia” di Francesco De Gregori e le canzoni-canzonette di Enzo Jannacci.
Nel corso di un’intervista rilasciata a «la Repubblica» (23 marzo 2005) in occasione dell’uscita del suo nuovo disco Pezzi, Francesco De Gregori lamentava, tra l’altro, lo scarso prestigio di cui la canzone d’autore godrebbe in Italia: «Da noi – protestava – c’è una specie di embargo da parte della cultura ufficiale, ed è una cosa che col passare del tempo trovo sempre più insopportabile. Il primo comicaccio che fa un libro da noi diventa un intellettuale, molto più di quelli come me che fanno canzoni».
La denuncia del “principe” mi ha messo di buon umore: alle tirate livorose dei poeti contro i cantautori sono abituato; non avevo mai pensato che anche i poveri cantautori hanno le loro bestie nere: i comici («comicacci»!), che gli rubano tutta la gloria. E i comici, chissà, avranno i calciatori, i calciatori le pornostar, e così via. Ma quello che mi ha dato più da pensare, nella dichiarazione appena riportata, è che essere considerato «un intellettuale» dalla «cultura ufficiale» venga visto ancora oggi da qualcuno come un traguardo.
La “cultura ufficiale”. E che sarà mai? Il «Corriere della Sera»? «la Repubblica»? Mondadori? Garzanti? Magari Einaudi? Proprio per i tipi della casa editrice torinese è uscito – poco prima di Pezzi – un cofanetto contenente un dvd e un volume in cui sono raccolte, col titolo Battere e levare, tutte le canzoni di Francesco De Gregori.
Vincenzo Mollica, giornalista televisivo e curatore dell’opera, scrive nella presentazione che i testi del cantautore vengono pubblicati «per la prima volta». Con questo non intende certo dire che Alice o Generale siano degli inediti. Ai suoi occhi, evidentemente, la loro vasta circolazione nei concerti o in tv, sulla busta del disco o sulle pagine di «Sorrisi e Canzoni tv», non ne faceva ancora dei testi “pubblicati” nel senso pieno del termine. Solo il libro, e in particolare quello garantito da un glorioso marchio editoriale, può rendere degnamente pubbliche queste composizioni che – ci informa Mollica – «hanno la forza e il dono dei classici, perché sono graziate dal tempo che non le usura». E interessante osservare come la canzone, che ha a disposizione mezzi ben più moderni e potenti, e che ha spesso vantato come un titolo di merito la propria estraneità alla tradizione scritta, finisca per vedere in un supporto tanto vetusto il veicolo più adatto a raggiungere la fama eterna. Dai cofanetti bianchi e gialli della Einaudi artisti strapubblicati e stracelebrati, da Guccini a Gaber, da Conte a Battiato, hanno ricevuto negli ultimi anni una speciale consacrazione, un riconoscimento di particolare pregio perché apparentemente estraneo alle volgarità del “successo”. Inutile cercare nella collana le opere complete di Gianni Bella o di Franco Califano, ma anche quelle di Cocciante: «Parole e canzoni» consegna al futuro solo i cantautori che meritano davvero di restare, le opere da rileggere, da studiare. Il paragone che viene spontaneo è con i «Meridiani» Mondadori: anche in Battere e levare il lettore trova introduzioni critiche (in quella di Cesare G. Romana, De Gregori viene accostato ai lirici greci, a Dante, a Puccini, a Mozart; quella di Vasco Rossi è meno erudita ma non meno partecipe), discografie, bibliografie, un’ampia e dettagliata biografia dell’autore, e infine una sistemazione della sua opera, compresi gli scritti in prosa. L’opera in prosa di De Gregori – finora malnota persino agli esperti – consta di: una divagazione “teorica” sbarazzina quanto basta; un intervento di dieci righe su Piero Ciampi; un’intervista-autocommento; un elzeviro per «Sorrisi e Canzoni»; otto articoli per «l’Unità» (ai tempi di Veltroni, precisa il curatore). Il resto è poesia.
La poesia di De Gregori. Sono trent’anni che se ne dibatte. Finalmente eccola qui tutta insieme, nero su bianco. Duecento pagine. Pagine vive, cantanti e sonanti, per chi sa a memoria le canzoni; io – lo confesso – conosco solo i pezzi più famosi; questo svantaggio comporta una lettura più fredda, ma forse anche meno distratta, di molti testi. La prima cosa che mi colpisce, sfogliando il volume, è la ricorrenza di certi schemi. Pasolini voleva dare alla sua opera in versi il titolo riassuntivo di Bestemmia, De Gregori potrebbe chiamare la sua Anafora. «Al di là dell’innocenza e al di là della pietà / al di là delle emozioni e al di là della realtà», comincia una canzone del 1973, Suonatori di flauto, sedici anni dopo, Cose inizia così: «E come il giorno che cammina, / come la notte che si avvicina / come due occhi che stanno a guardare…». Pesco ancora a caso. Raggio di sole, 1978: «Benvenuto raggio di sole / a questa terra di terra e sassi / a questi laghi bianchi / come la neve sotto i tuoi passi / a questo amore, a questa distrazione / a questo Carnevale…»; nel 1997, ecco Il suono delle campane: «Uomini senza terra / uomini senza città / uomini senza più cittadinanza / uomini senza umanità…». L’anafora è per il cantautore quello che la cazzuola è per il muratore. Se uno la sa maneggiare, ci può fabbricare dischi interi, riempire pagine e pagine. Certo, l’anafora da sola non fa poesia. E allora, che cosa fa poesia? Per esempio il circo, e in genere gli artisti di strada: acrobati, fachiri e simili. Anche gli aquiloni possono servire. L’infanzia è poetica. Poetici sono i pazzi, gli avventurieri, gli zingari. Bisogna stare attenti, poi, a non usare un linguaggio troppo diretto. Se si nomina Mussolini, per esempio, è più poetico dire «la mascella»: «la mascella al cortile parlava» (Le storie di ieri, 1975). Qua una sineddoche, là un ossimoro… Ma la poesia è ancora di più. E qualcosa di impalpabile, di inafferrabile. Prendiamo una frase come questa: «Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte avrei scelto l’America» (Bufalo Bill, 1976): quando uno si chiede che funzione abbia l’inserzione di una tale ipotesi in un racconto all’indicativo («A quel tempo io ero un ragazzo…»), in che senso l’America avrebbe potuto essere (ma fu, poi?) un’alternativa alla scelta tra vita e morte, e cosa c’entri tutto ciò con la biografia di Bufalo Bill, resta alquanto perplesso; ma se mette da parte le domande e si lascia prendere dall’arte, ha un’impressione di grande profondità, un brivido di poesia. Per provocarlo, quel brivido, è raccomandabile complicare un po’ le cose.
«Fàmolo strano», diceva il marito alla moglie in un film di Verdone. Molte canzoni di De Gregori, a rileggerle attentamente, sono canzonette d’amore “fatte strane”, smontate e ricomposte un pezzo qua, uno là, in stile “moderno”: «Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo / e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro / Ancora i tuoi quattro assi bada bene di un colore solo / li puoi nascondere o giocare con chi vuoi / o farli rimanere buoni amici come noi» (Rimmel, 1975). Da dove viene questa idea di poesia-sciarada, di poesia-puzzle? Ai suoi esordi, De Gregori veniva etichettato come “ermetico”. Proviamo a rileggere Cercando un altro Egitto (1974): «Era mattina presto e mi chiamano alla finestra / mi dicono: “Francesco, ti vogliono ammazzare” / io domando: “Chi?” Loro fanno “Cosa?” / Insomma prendo tutto e come San Giuseppe / mi trovo a rotolare per le scale / cercando un altro Egitto». Più che Luzi o Bigongiari, a me l’atmosfera di sogno, le domande a cui rispondono altre domande, il riferimento alla Bibbia, ricordano molto Bob Dylan, Ballad of a Thin Man, Highway 61 Revisited, ma oltre a Dylan (e a Léonard Cohen), dietro certi testi di De Gregori si indovinano modelli più caserecci, come il Mogol di Fiori rosa fiori di pesco o I giardini di Marzo, coi suoi racconti frammentari, a lampi. Anche i massacri in Vietnam o la strage di Ustica, in bocca al “principe”, perdono contorno, sfumano subito in poesia. Versi come «Vedo i ladri vantarsi / e gli innocenti tremare», che sembrano tratti da una ballata “di protesta” del 1965, arrivano solo più tardi, in piena maturità (1992), e restano comunque rari, galleggianti in un mare di allusioni, di gimcane semantiche, di «cuochi di Salò», di «celestini», di citazioni più o meno dotte.
Ermetico o no, dylaniano o mogoliano, De Gregori ha avuto un ruolo decisivo nella storia della musica italiana. La sua opera – che ora abbiamo modo di valutare nel suo insieme – riflette in modo esemplare i grandi sommovimenti del gusto negli anni settanta, con le loro implicazioni sociali, culturali, politiche: è a partire da dischi come Rimmel che trent’anni fa, rimuovendo le differenze gerarchiche tra cultura “alta” e cultura popolare, si è cominciato a discutere se la canzone possa essere considerata poesia a pieno diritto. La questione può apparire irrilevante solo a chi non vede il nesso tra la grande spinta dal basso che incoronò poeta De Gregori e la cultura che oggi considera «il primo comicaccio» un intellettuale.
E a proposito di “comicacci”, vorrei segnalare un’altra uscita importante nella stessa collana «Parole e canzoni»: quella di un’antologia di Enzo Jannacci, sempre a cura dell’instancabile Mollica, con una bella introduzione di Gianni Mura. Leggendo i testi di De Gregori, si ha spesso la sensazione che sulla pagina incomba il fantasma della “vera” poesia; nel caso di Jannacci, il problema di un confronto non si pone nemmeno: queste canzoni non vogliono essere altro che canzoni, anzi canzonette, e proprio in questo consiste la loro forza. A parte i classici come Andava a Rogoredo o Per un basin, andate a leggere un pezzo meno noto come E io ho visto un uomo (1966) e vi accorgerete come la canzone possa raggiungere un’altissima intensità senza bisogno di complicare le cose, semplicemente raccontando di «una sera, in via Lomellina». Un uomo per strada piange, ma non chiede l’elemosina: «si svuota di tutto il suo dolore». Un uomo «in giacca blu scuro». La gente non ha il coraggio di chiedergli che cos’ha. Una signora che faceva la spesa (è lei a raccontare) si ferma, non sa cosa fare per quell’uomo che piange, e finisce per arrivare tardi a casa, dove il marito la aspetta per cena. Tutto qui. La poesia di Jannacci («Poetastrica», l’ha voluta chiamare lui) sembra nascere direttamente dall’osservazione e dall’ascolto di quello che succede. Può essere buffa, assurda, stralunata, esagerata («l’importante è esagerare»), ma dietro la scena che fa si sente che c’è roba vera, viva, che preme. Certo, il testo sulla pagina non è mai la canzone, è sempre una sua versione azzoppata: nel caso di un performer come Jannacci la cosa risulta ancora più evidente (i dvd allegati ai libri rimediano solo in parte a questa mancanza); io credo però sia bene far circolare le canzoni anche in forma di libro, dare all’edizione dell’opera di un cantautore la dignità che hanno le opere letterarie. Per farlo davvero, però, occorrerebbe magari un po’ più di rigore nell’apparato critico e una maggior cura dei testi: il “milanese” delle canzoni di Jannacci («ghe poeuss pensar sura») è una cosa che mette i brividi. Possibile che alla Einaudi nessuno se ne sia accorto? O forse, nonostante tutto, si parte ancora dall’idea che solo i poeti (Porta, Tessa, Loi) meritano di essere stampati come si deve?