La poesia camuffata

E possibile oggi, per un autore di poesia, proporsi di raggiungere un pubblico di lettori largo, stratificato, non settario? E realistico immaginare che la poesia contemporanea si rivolga non solo a letterati e poeti, ma anche agli altri, ai non-lettori di poesia? Qualcuno sembra credere di sì. Un manipolo di romanzieri di successo – tra gli altri Tiziano Scarpa, Erri De Luca, Isabella Santacroce – si è impegnato, negli ultimi anni, in un inedito esperimento: scrivere libri di poesia per i propri lettori. Per farlo hanno anche escogitato un trucco, uno stratagemma. Si sono inventati la «poesia camuffata».
 
Nell’estate del 2001 uscì per le «Strade blu» Mondadori un singolare libro di Isabella Santacroce, Lovers. Me lo segnalò la mia vicina di casa, appassionata fan della scrittrice romagnola: «L’hai già letto l’ultimo della Isabella?» mi chiese, a bruciapelo, sul pianerottolo. Dovetti confessare di no. «Neanche sfogliato?». «Neanche sfogliato». «Beh allora fallo», mi ammonì salutandomi: «È bellissimo, rimarrai sorpreso». Figuriamoci. Comunque il giorno dopo, in libreria, scorgendo il libro sul bancone delle novità, decido di dargli un’occhiata. E appena lo apro, resto davvero di stucco. Non perché le prime righe ribaltino d’un tratto la mia opinione sulla scrittrice. E solo che si tratta di versi: Lovers è infatti un vero e proprio poema, un lungo racconto o romanzo poetico di oltre cento pagine. Immediatamente richiudo il volume, controllo la copertina. Lo volto e lo rivolto, ispeziono con cura ogni aspetto del paratesto. Niente. Che si tratti di un libro di poesia, non c’è scritto da nessuna parte. La nota sul risvolto parla semmai – con una deliberata strategia di camuffamento – di «una canzone», di una «narrazione dal moto ondoso e sfuggente».
Mi sono poi accorto che quello di Lovers non era affatto un caso isolato. Nel corso degli ultimi anni è venuta alla luce una piccola collezione di titoli analoghi: libri composti a tutti gli effetti in versi, opere ascrivibili senza equivoci al campo della letteratura poetica, e che tuttavia, nella loro veste editoriale, adottano una serie di accorgimenti volti a evitare, o quanto meno a limitare l’esibizione esplicita dell’etichetta di genere «poesia». Libri di poesia che dissimulano di esserlo, insomma, che vengono presentati al pubblico (quasi) come se fossero altro: libri di poesia camuffata.
A prima vista, i modi di questo camuffamento possono anche apparire relativamente innocui, superficiali. La tecnica più utilizzata consiste per esempio nella scelta di una collana editoriale non marcata, che in genere ospita romanzi o racconti o comunque testi in prosa. Una forma di mimetizzazione minima, blanda, eppure sufficiente a evitare che l’opera venga immediatamente identificata come poetica fin dalla copertina. L’effetto, per esempio, è che nelle librerie questi testi non finiscono nello scaffale specializzato della poesia: il lettore li trova invece in mezzo ai romanzi, nelle sedi espositive privilegiate riservate alle «novità». Certo, a ciò collabora in modo decisivo anche il forte richiamo esercitato dalla firma d’autore: a scrivere e pubblicare i libri di poesia camuffata non sono infatti i «poeti-poeti», i poeti «professionisti», ma autori di narrativa già affermati, romanzieri di (maggiore o minore) successo, con un proprio seguito, un proprio pubblico affezionato. L’ultimo a essersi misurato col genere, per esempio, è Tiziano Scarpa, che nell’estate del 2005 ha pubblicato per Einaudi, nella insospettabile collana «L’Arcipelago», l’originale apologo in versi Groppi d’amore nella scuraglia. E solo un paio di mesi prima anche Erri De Luca, nel volumetto Sola andata (uscito fuori collana per Feltrinelli), aveva raccontato il drammatico viaggio attraverso il Mediterraneo, dalle coste dell’Africa verso l’Italia, di un carico di immigrati clandestini, attraverso un vibrante poemetto di intonazione epica. La capziosa perifrasi «righe che vanno troppo spesso a capo», inserita in copertina come sottotitolo, alludeva in modo piuttosto trasparente alla forma versale del testo: ma proprio per questo, nel contempo, rivelava l’intima resistenza dell’autore all’uso spiegato dell’etichetta di genere «poesia».
A queste forme (parziali o sistematiche) di reticenza segnaletica talora si può aggiungere anche il ricorso sostitutivo ad altre etichette di genere, per lo più provenienti dal mondo della canzone contemporanea. È il caso emblematico di titoli come Rap 1 e Rap 2 di Alberto Arbasino (usciti nel 2001 e 2002 nella «Super UE» Feltrinelli), o di Blues in sedici. Ballata della città dolente di Stefano Benni (in catalogo sempre per Feltrinelli, nell’«Universale Economica», dal 1998). Naturalmente, la contiguità con l’ambito musicale ha a che fare con lo statuto fondativo della nostra tradizione lirica. Ma qui la brusca riattivazione di quel nesso ormai fossilizzato assume una evidente funzione familiarizzante: suggerendo al lettore di leggere il proprio testo come se fosse il libretto di un cd pop (o rock o rap o blues), si evoca una situazione comunicativa rassicurante, dotata di un forte appeal di modernità in grado di addomesticare l’aura seriosa e intimidatoria che, nella percezione comune, la letteratura poetica conserva.
Sul medesimo cortocircuito, qualche anno fa, Aldo Nove Raul Montanari e Tiziano Scarpa costruirono il fortunato volumetto di «covers» Nelle galassie oggi come oggi. Pubblicato nella prestigiosa «bianca» Einaudi, collana tra le più istituzionali della poesia contemporanea, il libro non può essere ascritto al genere della poesia camuffata: ma ne rappresenta in qualche modo il rovescio. La provocazione ironica dei tre ex cannibali mirava infatti a sorprendere e scandalizzare soprattutto gli schizzinosi avventori abituali dell’esclusivo banchetto allestito sugli scaffali della letteratura in versi. Il presupposto strategico che sembra accomunare i poeti camuffati è invece esattamente speculare. Si potrebbe sintetizzarlo così: nel pubblicare i loro versi, essi vogliono rivolgersi non (o non primariamente) al pubblico dei poeti, al circolo accreditato dei lettori di poesia, bensì anzitutto al proprio pubblico: quel pubblico cioè – più o meno ampio e definito – che ha dimostrato di apprezzarli e sostenerli nella loro carriera di narratori.
L’impressione, in sostanza, è che la bizzarra «moda» esprima una inedita spinta alla dinamizzazione delle tradizionali modalità della comunicazione in versi. E chiaro infatti che la vera partita, per i poeti camuffati, comincia proprio quando il libro viene aperto, e il precario schermo del camuffamento fatalmente si infrange. Nei pochi o tanti minuti che il lettore dedicherà a sfogliare le loro opere, essi dovranno riuscire a convincerlo che sì, quello che ha tra le mani è un libro di poesia, ma un libro di poesia nuovo, speciale, diverso da tutti gli altri. Un libro di poesia fruibile, anzi godibile anche e proprio da lui.
Pur nella grande varietà di proposte, in tutti i poeti camuffati è chiarissima l’intenzione di distinguersi dai poeti-poeti novecenteschi. Senza rinunciare alla possibilità di mutuarne mezzi modi cadenze, essi sembrano voler collocare la propria proposta a un altro livello: a emergere con forza è l’ipotesi di una poesia di livello medio, una poesia di intrattenimento che – senza porsi in competizione con gli esiti maggiori della lirica contemporanea – sperimenti un (più o meno vigoroso) allargamento verso il basso delle modalità (e del pubblico) del dire in versi.
Costruire un testo poetico leggibile con soddisfazione anche da un pubblico di non-lettori di poesia, senza rinunciare a solleticare i gusti dei consumatori di versi più scaltriti, sembra essere per esempio l’ambiziosa sfida affrontata da Tiziano Scarpa nel suo Groppi d’amore nella scuraglia. Il racconto è affidato all’originalissima voce del protagonista Scatorchio: Scarpa plasma per lui un esuberante dialetto d’invenzione, in grado di simulare una vivace autenticità filologica, garantendo nel contempo la sostanziale trasparenza semantica del discorso. Per chi legge, la scansione versale si offre come una limpida partitura per dizione, imponendo al monologo di Scatorchio un sistema di pause che accompagna, ed enfatizza, le sorprendenti evoluzioni della sua logica rigorosissima e naive. Dagli effetti ora esilaranti ora commoventi del punto di vista regredito, bislacco, e tuttavia puro e disarmante di Scatorchio, l’apologo trae la sua linfa vitale. Alla lunga il gioco è un po’ ripetitivo, e non sfugge al sospetto di una eccessiva facilità. Ma nel complesso il libro funziona: anche in grazia della raffinata ironia con cui Scarpa esaspera, rovesciandola clamorosamente, l’iperletterarietà cronica della poesia dialettale contemporanea.