«Tornare ai fondamentali». Intervista ad Antonio D’Orrico

Raccontare il proprio corpo a corpo con il testo; schierarsi in maniera netta, pur mantenendo il senso delle proporzioni: è questo che fa, ogni settimana dalle pagine del «Corriere della Sera Magazine», Antonio D’Orrico. Per ricostruire il dialogo con i lettori, e restituire al pubblico il gusto della lettura. Perché la critica, per farsi sentire, ha bisogno di non essere banale e di imparare a utilizzare le tecniche del giornalismo e della pubblicità, senza troppi snobismi: e si può essere rigorosi e militanti anche scrivendo in presa diretta, e gridando al capolavoro.
 
Antonio D’Orrico, cosa vuol dire oggi fare critica letteraria?
La parola «critica» non mi piace tanto. Preferisco pensare che faccio cronaca. Io, infatti, provo semplicemente a raccontare ciò che accade nel mondo dei libri, vale a dire la pubblicazione di opere che raccontano delle storie e sostengono delle idee, scritte da alcune persone e lette da altre. Non perdo mai di vista questo schema molto semplice. Che poi è un modo per tornare ai fondamentali. Il grande campione di tennis Rod Lever raccontava che, quando era in crisi durante una partita, cercava sempre di tornare ai fondamentali, tentando di fare quei gesti di base che gli avevano insegnato all’inizio della carriera. Secondo me, si può fare lo stesso discorso per la critica. In un mondo dominato da una confusione di comunicazioni e di parole, di strategie di marketing e di promozione, di accademie e di polemiche, occorre ritornare ai principi di base della letteratura, il cui patto sociale è molto semplice: un autore scrive un libro che poi un lettore legge. Io, quindi, sono solo uno che legge un libro e racconta qualcosa della sua lettura a chi il libro non l’ha ancora letto. Nella speranza che ciò possa essere utile.
 
Utile a chi scrive o a chi legge?
Tradizionalmente, la recensione in Italia è sempre stata scritta per essere utile a chi scrive, quindi costruita come un discorso tra lo scrittore e il suo critico. Io sono molto antitradizionalista e vorrei che il mio discorso potesse servire innanzitutto a chi legge. Se poi è utile anche allo scrittore, tanto meglio, ma non è questa la mia preoccupazione principale. Il problema è che io vado in scena su un giornale che è una specie di piccolo palco, dal quale io cerco di farmi sentire nel frastuono del mondo in cui viviamo, provando a resistere alle derive più sconfortanti di ciò che ci sta intorno. E per farsi sentire occorre non essere banali, utilizzando le tecniche giornalistiche, per altro parenti di quelle pubblicitarie. Penso soprattutto al giornalismo sportivo e a Gianni Brera che raccontava i calciatori come eroi omerici. Da qui però sono nati i rimproveri che mi sono stati mossi sullo stile delle mie recensioni o sulla spettacolarizzazione della critica.
 
Ma si può fare critica letteraria come si fa cronaca sportiva?
Io penso di averlo fatto spesso. Come Brera, anch’io scelgo dei campioni, dei fenomeni, che difendo con enfasi. All’inizio, forse, lo facevo con poca coscienza, poi però, quando mi sono reso conto dell’attenzione che ricevevano le mie recensioni, ho iniziato a riflettere maggiormente alle scelte, al tipo di comunicazione, alla ricezione degli articoli, agli eventuali equivoci e alle incomprensioni. Naturalmente, seppure con maggior coscienza, continuo a operare in piena libertà. Non ho prevenzioni né giudizi precostituiti. Se critico il romanzo di Baricco, è solo perché il libro non mi è piaciuto e non certo perché ce l’ho con lui. Non m’interessano i giochi di squadra, le alleanze, i salotti, i poteri veri o presunti degli editori.
 
Veramente?
Lo so che le consorterie esistono e potrei persino scriverne, ma quando arriva un libro, mi concentro solo sulle sue pagine. Per questo detesto i comunicati stampa e tutta la cerimoniosità editoriale, tanto che vengo persino considerato un poco scortese. In realtà, cerco solo di essere equidistante da tutti per essere libero. Certo, posso sbagliare. Ma è lo sbaglio in buona fede, lo sbaglio sportivo. Ecco, la mia idea di critica è questa: partire dal libro per cercare di rimandare la palla al lettore, facendo del mio meglio perché la palla sia buona.
 
Una volta si sarebbe parlato di critica militante contrapposta alla critica accademica…
Io resto fedele alla prima, perché i critici militanti mi hanno sempre dato molto. Come lettore, dagli accademici ho invece sempre ricevuto pochissimo. Nei loro scritti mi è spesso sembrato di cogliere una profonda mancanza di verità. Inoltre, la critica accademica è sempre stata molto lontana dalla realtà, anche perché in ambito universitario l’attività critica e saggistica è spesso sottoposta alle esigenza di carriera.
 
Meglio la critica militante che si confronta con l’attualità del panorama editoriale, facendo scelte precise per orientare i lettori. È cosi?
Sì, meglio la critica militante, ma quando riesce a dialogare con il lettore.
 
Come si fa a dialogare con il pubblico?
Della critica tradizionale non sopporto la scrittura ricercata e l’arroganza intellettuale. Non è un caso che negli ultimi anni la critica italiana non abbia saputo trovare un modo per conquistare il pubblico e farsi leggere. Purtroppo la nostra critica è quasi sempre impiegatizia, piena di paure, avara e reticente. Invece dovrebbe essere diversa, generosa, aperta.
 
Quindi?
Un critico deve buttarsi a mare, deve avere il coraggio di riconoscere che un libro è un capolavoro anche se non lo ha scritto lui. Naturalmente lo si può fare con nonchalance, trovando il tono giusto, perché per il lettore è importante riconoscere il tono di voce del critico. La voce può essere allegra o ironica, solenne o arrabbiata, ma è importante che sia sempre riconoscibile. Insomma, il critico deve esprimersi in modo molto personalizzato. Quando si pensa al Giovane Holden, si pensa immediatamente a un tono di voce preciso. Lo stesso deve accadere per il critico. E dico ciò, evidentemente, mantenendo il senso delle proporzioni.
 
Lei che tono adotta?
Cerco di usare un linguaggio comprensibile al pubblico. Per quanto possibile, mi tengo alla larga dai linguaggi accademici, dal lessico degli iniziati e da qualsiasi autocompiacimento. Se, rileggendomi, mi accorgo di essere stato poco chiaro o di aver sovraccaricato il discorso, cerco sempre di rimediare. A questo proposito, l’esercizio della scrittura è molto importante, perché aiuta a comprendere ciò che si è letto e ad approfondire l’analisi. Scrivendo, si scoprono aspetti del testo sfuggiti durante la lettura. A volte però si resta a mezza strada, forse perché non si è ancora capito bene cosa veramente si voglia dire. Allora, per riflesso, si tende a sovraccaricare il discorso con qualche espressione roboante, ma è una soluzione di facilità che cerco sempre di evitare. Preferisco fermarmi e cercare di chiarirmi le idee.
 
Ancora una volta, si tratta di tornare ai fondamentali…
Certo, anche se naturalmente non sempre ci si riesce. A volte, faccio alcuni errori di costruzione, più che di merito, anche perché scrivo spesso senza rete, all’ultimo momento. Una volta questa situazione mi faceva paura, oggi invece la uso più spesso. Scrivo in diretta e a bruciapelo. Certo, ci si può sbagliare, ma anche in questo caso il lettore coglie comunque il messaggio d’autenticità e reattività che provo a trasmettere.
 
Altre caratteristiche del suo lavoro critico?
Come ho già detto, il rifiuto di qualsiasi condizionamento da parte delle case editrici, degli scrittori, degli amici.
 
Anche nei confronti delle case editrici del gruppo editoriale cui appartiene il giornale per cui scrive?
Sono celebre per la mia indipendenza. Certe volte ho stroncato senza alcuna difficoltà i libri pubblicati dagli editori del gruppo.
 
Si deve stroncare?
Le stroncature non mi piacciono, quindi ne faccio poche. I motivi possono essere molto diversi. A volte, si stronca la casa editrice per una scelta editoriale sbagliata, altre volte si stronca l’autore perché ha imboccato una strada che non ci convince. Ho stroncato, per esempio, gli ultimi romanzi di Stephen King, autore che da anni non scrive più un romanzo degno della sua fama. Insomma, esprimo sempre il mio punto di vista, ma faccio attenzione a non nuocere troppo. Non è mai nelle mie intenzioni, anche se qualche volta può capitarmi involontariamente. Tuttavia oggi anche le stroncature vengono utilizzate a fini promozionali. Recentemente, ho visto un editore tutto contento perché avevo stroncato un suo romanzo. Mi sta bene che un editore utilizzi un mio giudizio positivo per vendere un buon libro. Mi disturba profondamente, invece, essere usato a fini promozionali, quando il mio scopo era esattamente contrario. Non sopporto il marketing negativo e quegli editori che dicono: parlatene male, ma parlatene. Come pure non apprezzo che gli editori, per promuovere un nuovo romanzo di un autore, utilizzino una mia citazione positiva riferita però a un’opera precedente. Non è corretto.
 
Quali sono i criteri estetici che orientano il suo lavoro? Quand’è che un libro è meritevole d’essere consigliato ai lettori?
I criteri sono molteplici. M’interessa molto la grande tradizione della narrativa americana, perché ci ricorda sempre che il romanzo, essendo una forma d’arte democratica, deve rivolgersi al grande pubblico. La narrativa non deve essere un giochino personale o un’autoterapia. Deve essere un gioco leale. M’interessano inoltre i romanzi che lavorano sul linguaggio e sulla scrittura. Amo moltissimo Gadda, ma non amo gli imitatori di Gadda. Mi piace molto tutto ciò che è céliniano, tutto ciò che discende dalla grande tradizione di Rabelais. La tradizione espressionistica mi piace talmente tanto che alla fine detesto chi la insegna male. Parlando di autori, apprezzo molto lo stile Soriano, perché in un paio di libri e in molti articoli è riuscito a scrivere grande letteratura. Purtroppo poi c’è stato molto sfruttamento editoriale.
 
In che modo?
Gli editori hanno riunito e pubblicato anche gli scarti. Mi dà molto fastidio la miopia delle case editrici che vogliono sfruttare fino in fondo un autore di successo, senza rispettarlo e dargli tempo. Io rispetto il mercato, ma quando una casa editrice pensa solo a sfruttare un autore, mi trovo di fronte a una forzatura del mercato che non m’interessa più. Non è giusto proporre un brutto prodotto solo per far soldi.
 
Insomma, tornando al suo ideale di romanzo, possiamo dire che si tratta di un prodotto democratico che si rivolge a tutti, ma che nello stesso tempo deve possedere determinate caratteristiche d’originalità. È così?
Sì. Contano l’espressività e la consapevolezza del canone letterario, ma anche la capacità di portare nel libro la realtà, soprattutto quella realtà che non è mai stata detta. Il che naturalmente è molto difficile da realizzare. Non accade in ogni romanzo, ma lo sforzo dell’autore deve tendere in questa direzione.
 
Quando scrive un articolo, si rivolge a un pubblico indistinto o pensa a un lettore particolare?
Come Brera riusciva a farsi leggere anche da coloro che non guardavano le partite di calcio, così io penso di riuscire a farmi leggere anche da coloro che di solito non leggono libri. Lo dico perché a volte ne ho il riscontro concreto. Naturalmente, per farsi leggere, occorre che l’articolo risulti piacevole e convincente. A questo proposito, potremmo quasi parlare d’autonomia della critica, nel senso che una recensione, che poi non è altro che un articolo di giornale, deve essere consumabile e godibile per quello che è. La lettura di una recensione deve essere per il lettore un’esperienza positiva. Questi alla fine deve essere soddisfatto di avere letto l’articolo, indipendentemente dal fatto che poi vada a comprarsi il libro consigliato. Insomma, anche nella recensione proposta da un giornale si deve trovare il piacere della lettura.
 
Nel vasto e confuso mare dell’offerta libraria, il pubblico ha però bisogno soprattutto di consigli, di gerarchie e di griglie di valori, non trova?
Certo. E questa la funzione del critico. Sta qui la sua responsabilità. Non a caso, attraverso le classifiche, io cerco di trasmettere il senso delle proporzioni. Certo, a volte scrivo senza problemi che un romanzo è un capolavoro. E dato che all’interno dell’articolo non ho molto spazio, non mi metto a fare tutti i distinguo del caso. Naturalmente, però, in ciò che scrivo è contenuto sempre un sentimento del relativo. E siccome una rubrica è tale perché si ripete, dopo poco tempo qualsiasi lettore capisce benissimo come uso le parole e cosa significa per me il termine «capolavoro».
 
Eppure proprio il ricorso eccessivo alla categoria del capolavoro le viene spesso rimproverato…
Chi mi rimprovera non ha mai visto come funziona il linguaggio pubblicitario? Io confido nella capacità dei lettori di capire il senso delle mie parole. Di solito uso il termine «capolavoro» alla fine di un articolo, per ribadire che quell’opera si deve proprio leggerla. Non sarà un capolavoro nella storia della letteratura, ma per me è comunque un gran bel libro e l’autore ha lavorato bene. Se uso il termine «capolavoro» è per riassumere in maniera forte il mio giudizio. Al lettore occorre trasmettere messaggi precisi. Non m’interessano quegli articoli che all’inizio parlano bene di un romanzo e alla fine lo fanno a pezzi, o viceversa. Occorre un giudizio netto. Alla fine bisogna schierarsi. Se un libro è mediocre, non vale la pena di parlarne. Ho poco spazio e posso occuparmi solo di pochi libri. Tanto vale parlare di quelli di cui sono veramente convinto.
 
Ma quando lei presenta Io uccido di Faletti come un capolavoro, non rischia di creare una certa confusione nel pubblico? Senza dimenticare poi che c’è chi l’accusa tout court di spacciare per ottima letteratura di qualità quella che di solito viene considerata semplice narrativa d’intrattenimento…
Coloro che mi rivolgono questa accusa sono gli stessi che contestano i nuovi generi letterari, le nuove scoperte e i nuovi autori, accusati di non appartenere alla grande letteratura. E sempre così. Invece, la letteratura di genere è molto importante, anche perché al suo interno a volte ci s’imbatte in libri di grandissimo valore. E poi, comunque, non ci si avvicina alla lettura, iniziando col leggere Proust. Occorre conquistare la pratica della lettura a poco a poco, partendo da opere considerate più facili.
 
Il romanzo di Faletti, per esempio…
Per quanto riguarda il caso specifico di Faletti, vorrei solo ricordare che in quel momento, in Italia, nessuno scrittore era in grado di fare un’opera di quel tipo. In quel momento, era il migliore scrittore italiano, il più in forma, l’unico capace di proporre un libro con quel grado di novità e difficoltà, un libro originale capace di importare anche nella nostra letteratura determinati modelli anglosassoni. In Io uccido, ci saranno anche stati degli errori, ma nel complesso il libro funzionava molto bene. Di conseguenza, in quel momento, sul giornale, io scrivo che Faletti è il più bravo di tutti. In seguito, verranno altri autori più o meno bravi di lui, come pure staremo a vedere quale sarà il valore del suo prossimo romanzo. Io però giudico un’opera singola in un dato momento. Inoltre, il fatto che un comico sia riuscito ad avere un tale successo letterario è un bell’esempio di democrazia e di libertà. E un caso di felicità e un messaggio positivo: si può scrivere un bel romanzo anche se non si è mai stati scrittori. E un peccato che in Italia non si riescano ancora a capire certe cose e si debbano fare sempre battaglie di retroguardia. Da noi trionfa sempre la diffidenza nei confronti del nuovo e di chi non appartiene al sistema letterario. Poi però quella stessa critica accademica che storce il naso di fronte a Faletti propaganda alcuni noir all’italiana molto meno interessanti.
 
Un caso diverso è quello di Piperno. Dove tra l’altro è emerso il problema della critica come marketing ovvero il giudizio del critico utilizzato come argomento di vendita in modo smaccato…
Ciò però non dipende da me. Io non posso prevedere e calcolare come verranno utilizzati i miei giudizi critici. Non sarebbe giusto. Cerco di non farlo mai. Al massimo, ogni tanto, faccio qualche allusione per far capire agli altri che non sono uno stupido e certe cose le capisco anch’io. Ma si tratta soprattutto di avvisi ai lettori, per metterli in guardia di fronte a questo tipo di operazioni.
 
Che sono frequenti?
Certo non mancano, anche perché uno dei grandi limiti dell’editoria è che si tratta di un circolo chiuso preindustriale, dove trionfano le relazioni salottiere e le amicizie. Se fosse una vera industria, con l’unico problema di far quadrare i conti, questi comportamenti non esisterebbero. Invece esistono e i giornali vi si prestano spesso. Io cerco di starmene al di fuori, anche perché preferisco sbagliare da solo.
 
Le è capitato spesso di sbagliarsi e di pentirsi dei giudizi espressi?
Naturalmente si cambia. Cambiano gli scrittori, cambiano i libri, cambiano i lettori. Tuttavia ho l’impressione di non essermi sbagliato più di tanto. Mi sembra che, in quasi tutti quei casi in cui mi sono speso molto per un libro, ci fosse sempre un dato di qualità che giustificasse il mio giudizio positivo. Mi sembra che oggi sia riconosciuto da tutti. A volte, il valore era anche maggiore di quello sottolineato da me. A distanza, è venuto fuori in maniera più chiara.
 
Un esempio?
Ci vediamo al bar Biturico, per il quale ero in realtà disturbato dalla volontà dell’autore di restare anonimo. Ciò mi ha distratto e impedito di mettere in risalto con più forza le qualità del libro.
 
Lei è considerato un creatore di bestseller. È forse l’unico critico in Italia che può creare un caso e imporlo al pubblico…
Il libro però deve essere buono.
 
Certo, ma ogni tanto non le viene voglia di usare il suo potere per provare a imporre un autore amico, come per altro le è stato rimproverato nel caso di Ci vediamo al bar Biturico?
No, mai. Cerco d’imporre solo i libri che mi piacciono molto e in cui credo fino in fondo. Indipendentemente da tutto. Sono un calciatore che pensa solo a fare gol. Io mi batto alla morte per un libro in cui credo, e mi meraviglio che non lo facciano anche i miei colleghi. Se non ci si batte, perché fare un mestiere la cui caratteristica principale è quella di rendere note al mondo le scoperte che consideriamo importanti? Sta tutta qui la mia sfida. Il problema è che non sempre trovo opere all’altezza.
 
C’è qualche critico cui si sente vicino e con il quale le sembra di condividere la sua visione della letteratura?
Oreste del Buono. Mi ha insegnato molto e spero di essermi dimostrato un suo allievo. Più di chiunque altro è riuscito a tenere insieme tante cose diverse, che erano le ragioni dell’editoria, quelle degli scrittori, quelle dei lettori e quelle dei giornali. Mi ha insegnato a guardare i nuovi fenomeni con una disposizione di attesa tranquilla. Frequentandolo e lavorando insieme a lui, alla Baldini & Castoldi, ho imparato molto.
 
«OdB», ai tempi di «Linus», riusciva a dare voce a sentimenti ed esigenze estetiche collettivi. È quello che cerca di fare anche lei nella sua rubrica?
Sì. Per questo dò molto spazio alla posta dei lettori. E importante dare loro – a tutti, ingenui o colti che siano – la possibilità di esprimere il loro punto di vista sulla letteratura, perché così si sentono partecipi di un discorso.
 
Di un’elaborazione collettiva del giudizio?
Certo, ma partecipi anche di una piazza in cui si discute. E una lezione di «OdB», ma anche dei rotocalchi italiani dell’immediato dopoguerra che riuscivano a creare un senso di collettività. La lettura non può essere dei soliti felici pochi. Il campo letterario non è una riunione di condominio. Bisogna cercare di coinvolgere nella letteratura il più ampio numero di lettori, anche se taluni, di un dato libro, apprezzeranno solo il livello più superficiale. L’importante è che lo scoprano e ci si avvicinano.
 
In questa prospettiva, leggere Faletti diventa strategico?
E strategico per Faletti stesso, innanzitutto. Ma effettivamente è strategico anche per il lettore, che da Faletti può poi spostarsi ad altri autori e altri generi. Da questo punto di vista, il fenomeno Dan Brown è stato molto importante, perché ha avvicinato alla lettura una massa sterminata di persone.
 
Tradizionalmente, gli italiani leggono poco. Dal suo osservatorio, le sembra che la situazione stia evolvendo?
A poco a poco, la cerchia dei lettori si va allargando, anche perché bisogna tenere conto del fatto che un libro acquistato è poi spesso letto da più persone. Di questo fenomeno però le statistiche non tengono conto. Il futuro della lettura, quindi, non mi preoccupa più di tanto. Probabilmente alcuni comportamenti di lettura cambieranno. In futuro è possibile, per esempio, che i lettori si specializzino sempre più e che ognuno si metta alla ricerca del libro che fa per lui.
 
Qual è la sua impressione del panorama letterario italiano? Secondo diversi critici, dopo la grande stagione degli anni cinquanta e sessanta, le nostre lettere avrebbero conosciuto una lenta e inesorabile decadenza. Lei che ne pensa?
Il panorama non mi sembra così negativo. Dopo il periodo dei Calvino e dei Moravia, c’è stato un periodo di felice transizione, per esempio, con Eco e Fruttero & Lucentini, transizione che ha consentito alla nostra letteratura di internazionalizzarsi e professionalizzarsi. Anche il successo del giallo va visto in questa prospettiva. Non è un caso che stia diventando un genere tanto importante. Oggi mi sembra che la nostra produzione letteraria sia all’altezza di un paese civile. Quindi non mi unisco al lamento ricorrente di chi rimpiange gli anni cinquanta e sessanta.
 
Molti critici però continuano a battere su questo tasto. Anche Garboli, poco prima della sua scomparsa, aveva ribadito la sua delusione di fronte alla produzione degli ultimi anni…
Perché rimpiangeva la sua giovinezza, i suoi amici e le sue scoperte. In questi casi, prevale la nostalgia e la dimensione sentimentale, il che naturalmente in letteratura è molto comprensibile, visto che la lettura si nutre proprio di elementi irrazionali. La critica però deve stare attenta a mantenere un’attenzione razionale, anche se certo tutti abbiamo una dimensione sentimentale. Dimensione che a me in particolare piace ricordare molto spesso.
 
Si deve rivalutare la critica emotiva?
Noi uomini siamo fatti di ragione e sentimenti. Nella scrittura c’è l’intelligenza, ma anche il piacere. La compresenza di ragione ed emotività vale per il lettore come per lo scrittore, che non deve necessariamente essere un intellettuale. Paolo Volponi aveva un’intelligenza formidabile, ma nei suoi romanzi c’erano moltissimi umori. Proprio pensando a Volponi, vorrei dire che la scrittura critica ha bisogno di tornare alla materialità e alla carnalità, sfidando i fantasmi più terribili, che sono quelli delle parole. In fondo, il fascino della letteratura e dei libri sta tutto qui.