Gli occhiali di Cipputi

«Marx è morto.» «E noi qui in tuta a fare la classe operaia, come dei pirla.» Cipputi è uno di quelli che tengono in piedi la baracca: sempre al lavoro in tuta e guanti, sempre alle prese con qualche macchinario. Nella vita dell’operaio dal naso prominente creato da Altan non c’è tempo per la nostalgia, il sentimentalismo, la rassegnazione. Ma c’è spazio per la coscienza di classe, e per uri ironia impassibilmente lucida che, da dietro le lenti spesse che nascondono lo sguardo, si scaglia in un colpo solo contro i meccanismi del potere, i privilegi dei padroni, l’immaturità delle forze politiche progressiste.
 
Probabilmente, volendo impostare un discorso generale sui personaggi di Altan, bisognerebbe partire dagli occhi: di norma grandi, tondi, globosi, solo occasionalmente (nel caso delle figure più sinistre) a forma di aguzzo ovale, ma sempre contraddistinti da una terragna volumetria, da una esibita corporeità. Questo vale anche per i personaggi delle storie infantili, come la Pimpa: la materia si può alleggerire, può acquistare la morbidezza della stoffa e delle piume, ma non diventa mai linea, sfumatura o effetto di luce. A maggior ragione, nei disegni satirici s’impone una marcata impressione di pesantezza, che nelle palpebre socchiuse e cascanti trova il suo stigma più caratteristico.
Straordinaria è la varietà di umori e stati d’animo suggeriti dagli sguardi a mezz’asta dei personaggi di Altan. L’ottusità acquosa e senza rimedio del telespettatore ormai quasi tutt’uno con la poltrona, poco tempo dopo la caduta del muro di Berlino: «Credevo di essere un coglione qualsiasi, invece stavo vivendo un momento epocale». L’impietoso sarcasmo della moglie al marito, sbigottito nel trovare un preservativo nel sugo della pastasciutta: «Bisognava pur adoperarli, visto che li abbiamo comprati». L’autoindulgenza sfrontata e giuliva dell’adulto travestito da ciclista professionista, che alla domanda «Dove vai?» risponde: «A portare a spasso il bambino che è in me». L’amarezza dell’esotica vamp meditabonda: «Il problema è: ce la farà l’Italia a durare fino alla fine della legislatura?». Il cinismo feroce dei due pescecani in doppiopetto, che all’inizio della guerra in Iraq concordano sulla necessità di eliminare, ogni tanto, i tiranni: «Sennò si blocca il turnover». La non arresa disillusione del cittadino, che di fronte all’allarme «La costituzione è in pericolo!» replica: «Interveniamo, o ci riserviamo il piacere di dire che l’avevamo detto?». Potremmo continuare a lungo. Fatto sta che nella genesi di Cipputi, forse il più famoso tra gli eroi di Altan, il tocco ultimo e decisivo ha riguardato proprio gli occhi.
Narrano le cronache che Cipputi ha visto la luce sull’inserto di «Linus» intitolato «L’Uno» nel maggio 1976. Come spesso accade, la fase iniziale ha registrato qualche oscillazione, a cominciare dalla scelta del nome (un polisillabo piano con preferenza per i suoni sordi: Cipponi, Cisponi, Cesputi, Cavazzuti). Ma al suo esordio il tarchiato operaio in tuta e guanti, dal naso prominente e cucurbitaceo, ha ancora occhi visibili. Poi la grande invenzione: gli occhi di Cipputi scompaiono dietro un paio di lenti tonde e spesse, e il suo volto acquista la fissità di una maschera. Ne risulteranno esaltate da un lato l’importanza del corpo, della postura, dei gesti; dall’altro la fulminante pregnanza delle battute, svincolate da qualunque messaggio (o «rumore») accessorio prodotto dall’espressione facciale. In tal modo, dalle parole di Cipputi non trapelerà mai un umore solo, un solo sentimento o pensiero; e l’occultamento dello sguardo produrrà un effetto di straniamento radicalmente antipatetico (istruttivo il contrasto con la mobilità del viso del Bobo di Staino). E grazie a questa semplice quanto geniale reticenza grafica che Cipputi riuscirà a esprimere tutte le potenzialità della sua visione dell’Italia contemporanea.
Il tratto distintivo del personaggio consiste naturalmente nel suo essere un lavoratore, e nel fatto di trovarsi quasi sempre al lavoro. Non mancano, è vero, sporadiche vignette ambientate in modeste trattorie, di cui s’indovinano gli arredi in scialba fòrmica, o nelle spiagge affollate delle più scontate Riviere. Ma a scanso di equivoci sulla sua identità operaia, di norma Cipputi pronuncia le sue battute mentre è alle prese con un macchinario. Una pressa, un tornio, una fresatrice; magari anche un quadro di comandi o una consolle, ma una macchina comunque. Prima e più di ogni altra cosa, dunque, Cipputi è uno che lavora, con le mani, e con fatica (spesso appare sudato o in affanno): anzi, uno che sta lavorando, e che parla solo per rispondere a una domanda o a una sollecitazione altrui. Di qui le sue parole traggono la loro autorità. Non sono le opinioni di una persona dedita a un’attività dall’utilità sociale opinabile, o di qualcuno che passi il suo tempo nelle chiacchiere, sentenziando e lamentandosi. Cipputi è uno di quelli che tengono in piedi la baracca: l’industria, o quel che ne resta – l’Italia, o quel che ne resta.
Accanto, per lo più, un compagno di lavoro, chiamato sempre per cognome (lo stesso protagonista, del resto, sembra non avere nome di battesimo). Fra echi lombardi, friulani e liguri, nel regesto dei cognomi delle «spalle» di Cipputi Altan intende evidentemente evocare l’ambiente del proletariato settentrionale (con singolari predilezioni per l’iniziale «B» e le terminazioni in -azzi o -is: Binazzi Bundazzi Bisloni Bedoschi Berlaschi Busacchi Bisnaghis, Finazzi Fantazzi Fellazzi Gavazzi Pirazzi Pillazzi Sfrisazzi Tinazzi, Zinis Bizzis Fizzis Guizzis Frasconis Otellis). Ogni tanto si materializzano al suo fianco figure di estrazione diversa: il quadro aziendale, il dirigente, perfino il padrone, nelle fattezze proverbiali di Gianni Agnelli. A uscirne rafforzata è l’immagine di una società divisa in classi, quali che siano le teorie sociologiche o politologiche in voga.
Dal punto di vista dello schieramento politico, Cipputi è naturaliter comunista; ma la vicinanza a Pei e succedanei (Pds, Ds) esclude qualunque ortodossia di partito. Ciò non dipende tanto dalla disposizione a criticare all’occorrenza anche i propri dirigenti, quanto da una spregiudicatezza più radicale, che trae alimento da un robusto, inossidabile pragmatismo: da un’adesione ai dati concreti dell’esperienza che si potrebbe definire, manzonianamente, buon senso – facoltà tanto largamente diffusa, quanto facilmente offuscata dai pregiudizi, dall’ipocrisia, dalla disinformazione. Di suo, e di inconfondibile, Cipputi ci mette un’ironia impassibilmente lucida, e affilata come un rasoio. «La lotta di classe è roba d’altri tempi, Cipputi» gli notifica un quadro. Risposta: «Sarà meglio avvisare l’Agnelli, che non continui all’oscuro di tutto». Oppure: «Marx è morto», gli annuncia un collega. Risposta: «E noi qui in tuta a fare la classe operaia, come dei pirla». O ancora: «Si minaccia lo sciopero generale». Risposta: «Okei Stavazzi: facciamogli un po’ vedere chi eravamo».
Ciò detto, è ancora tutto da spiegare il segreto di una verve umoristico-satirica che non ha paragoni nella cultura italiana contemporanea, e per la quale nessun riferimento pare troppo elevato (Altan è capace di massime che per concentrazione espressiva e acerbità di morso poco hanno da invidiare a La Rochefoucauld). Si potrebbe sottolineare il suo genio per la demistificazione, insieme sarcastica e canzonatoria; la perspicacia spietata e corrosiva, che non risparmia niente e nessuno; la semplicità diretta del linguaggio, che da un lato indulge a modi colloquiali e popolari, dall’altro rivela una consapevolezza chiarissima della varietà dei tipi di discorso. Ma forse la peculiarità di queste tavole va ricercata in due principali aspetti. Il primo consiste nella propensione di Altan a cogliere più bersagli con un colpo solo, ovvero un bersaglio dietro l’altro, come certi tiratori provetti che al primo sparo centrano il piattello e al secondo uno dei frammenti ancora in aria. Innumerevoli le «doppiette» di Cipputi: loro (la De, i padroni, la destra) e noi (gli operai, la sinistra, il movimento sindacale); la durezza dei fatti e le velleità dei media; la realtà sociale e le mode culturali… «E quando facevamo l’opposizione, eh, Cipputi?», sospira un compagno all’epoca dei governi di unità nazionale. Risposta: «Loro di là a rubare e intrallazzare, e noi di qua a gridarci: Ladri! Intrallazzatori!». Oppure: «La Fiat non sta ai patti sui cassintegrati», fa la spalla. «Pazienza, Binaschi. Un giorno un coraggioso film dimostrerà che loro avere lingua biforcuta». O ancora: «State a fare una gran svolta sindacale» dice il quadro «mi compiaccio». «Siamo i nouveaux ouvrié. E l’ultimo grido.»
Il secondo aspetto è rappresentato dall’assoluta impermeabilità di Cipputi al sentimentalismo e alla nostalgia. Per quanto amare, disincantate, disilluse, le sue battute hanno sempre un’intelligenza energica e reattiva che di per sé esclude la rassegnazione.
«Di nuovo i sacrifici. E a chi ci toccherebbe farli? A noi!» recrimina gesticolando il compagno. Cipputi, flemmatico: «E una roba delicata; non si può mica farglieli fare a della gente che non ci ha pratica». In osteria: «Il Bertinotti non nasconde il gioco», fa l’altro leggendo il giornale. E Cipputi: «Non vuole essere complice di un’eventuale vittoria». Di nuovo in fabbrica: «E il revisionismo sulla Resistenza?» esclama il compagno, non si sa se più desolato o scandalizzato. Risposta: «Non possiamo permetterci il lusso di un passato decente seno al confronto risultiamo delle merde».
Sottile e tetragono, mai cinico, mai indifferente, Cipputi non è solo l’operaio che constata il perpetuarsi di ingiustizie, disuguaglianze e inganni, il persistere sempre più spudorato dei privilegi, il replicarsi infinito dei meccanismi del potere, la cronica inadeguatezza o immaturità di quelle che dovrebbero essere le forze politiche progressiste. E anche, e forse soprattutto, il cittadino che non ha smarrito – miracolosamente – il senso civico della decenza. E che senza clamori, senza esibizionismi, rispondendo solo quando viene interpellato, denuncia con acume infallibile le indecenze piccole e grandi: nascondendo dietro gli occhiali la sua indignata imperturbabilità, la sua imperturbabile indignazione, senza smettere mai di lavorare.