L’inattualità efficace di Diabolik

Dal particolare scenico più insignificante alla costruzione grafica delle tavole, dal tono dei dialoghi fino alle strutture narrative, il fumetto creato dalle sorelle Giussani resiste da quarantasei anni alla tentazione di modernizzarsi. Brama di pietre preziose e pentothal, dialoghi amorosi involontariamente comici, un vorticoso teatrino di maschere e travestimenti: gli elementi divenuti inattuali sono esibiti allo scopo di restituire il profumo della vecchia serie. Risultato: un successo. Anche grazie a qualche ritocco nel sistema dei personaggi, all’apertura a nuovi sottogeneri e persino a qualche modernizzazione nei tagli di immagine che mostra l’influenza del più recente cinema d’azione.
 
Quarantasei anni di vita sono un dato straordinario per qualsiasi narrazione seriale. Figuriamoci per un fumetto nato dall’iniziativa semidilettantesca di una signora della buona borghesia milanese che, per abbondare negli stereotipi, veniva da un passato di modella per la pubblicità. Eppure «Diabolik» non solo è vivo, ma mostra pure una salute invidiabile: ogni mese, in edicola, compaiono un albo inedito e due diverse ristampe della serie classica, cui si aggiunge, con cadenza semestrale, un’altra collana di storie inedite, «Il grande Diabolik», caratterizzata da un formato, appunto, più grande e da un numero maggiore di tavole (196 contro le 120 tradizionali).
Se tanta vitalità basta da sola a fare di questo fumetto una rarità editoriale, a renderlo ancor più singolare contribuisce un’altra caratteristica: la sua scarsa propensione a rinnovarsi. Dal dettaglio scenico più insignificante alla costruzione grafica delle tavole, dal tono dei dialoghi fino alle strutture narrative, «Diabolik» ripete in gran parte se stesso, con un atteggiamento che potremmo chiamare di archeologia conservativa. Certo, qualche adeguamento negli anni c’è stato, specie nel sistema dei personaggi e nella ridefinizione del genere, ma non è nulla rispetto a quanto il mutamento sociale (e di pubblico) avvenuto nel frattempo avrebbe potuto suggerire. Il punto è che prima le sorelle Giussani, poi gli autori che, cresciuti alla loro scuola, ne hanno proseguito il lavoro, sono pervicacemente rimasti legati a molti elementi del loro fumetto resi progressivamente inattuali dal trascorrere del tempo. Passi per il campionario di trucchi di Diabolik: maschere con cui sostituirsi a chiunque, congegni meccanici e gas narcotizzanti per approntare trappole o favorire fughe, e il pentothal per far parlare le persone senza colpo ferire. Sono i marchi di fabbrica dell’eroe e trasformarli potrebbe significare snaturare il prodotto, anche se forse, col tempo, si può parlare di un uso più prudente di alcuni escamotages. In particolare, il pentothal tende a essere sfruttato un po’ meno (però continua a essere evocato anche quando si decide, per necessità, di non utilizzarlo). Ma la lista di elementi che rimangono invariati è lunga e risponde il più delle volte a criteri imperscrutabili. I diamanti, per esempio. In un’epoca in cui il denaro è sempre più immateriale e furti e rapine si consumano spesso on line, Diabolik continua a bramare pietre preziose come il primo giorno (e di Internet, detto di passaggio, nemmeno l’ombra). Naturalmente, questo va a braccetto con un altro elemento che con il tempo perde capacità d’attrazione: la rappresentazione della nobiltà. Chi altri potrebbe possedere gioielli in quantità e di qualità adeguata a soddisfare le brame di Diabolik? E se spiare la vita agiata (e viziosa) dell’alta società poteva essere, come a volte sottolineato, uno dei motivi di attrazione per chi comprava i primi albi, si può ben capire come oggi tutto ciò sia superato.
Anche il taglio delle inquadrature, la sequenza delle vignette e la costruzione delle tavole mostrano uno schema fin troppo classico, almeno se ci fermiamo al «Diabolik» nel formato tradizionale. Diverso il caso di «Il grande Diabolik», che invece proprio su questo piano mostra da subito le sue differenze, che sono molte. La sensazione è che proprio a questa serie di albi, inaugurata nel 1997 e giunta ormai al sedicesimo episodio, sia delegato il compito di innovare il prodotto. Così, oltre a tagli d’immagine che mostrano l’influenza del cinema d’azione più recente e a inediti movimenti delle tavole favoriti dal formato più grande, troviamo personaggi dalla psicologia più complessa e mutevole, protagonisti inclusi. Spesso, infatti, proprio «Il grande Diabolik» si prende carico di ricostruire il passato dei nostri eroi, e così facendo regala loro tutto d’un tratto ricordi (in genere traumatici) e quindi sentimenti, che non siano la semplice e meccanica sete di vendetta che nella serie tradizionale permette in genere di gettare un ponte tra due albi lontani. È sul piano delle strutture narrative, però, che si riscontra l’elemento di continuità più spiazzante: non si dà storia di Diabolik senza che ogni singolo passaggio dell’intreccio non sia spiegato in ogni minimo dettaglio. Durante o dopo l’azione, se non addirittura parte durante e parte dopo. Una caratteristica che certo ha favorito l’immediato successo popolare del fumetto, le cui trame prevedono spesso scambi di persona e un complicato succedersi di mosse, contromosse e colpi di scena che possono (anzi devono) confondere le idee. Ma oggi, agli occhi di un pubblico reso smaliziato da decenni di thriller e anni di giallizzazione della narrativa, tutto ciò rischia di apparire come un eccesso di didascalismo. Senza contare che, per inserire tutti i dettagli chiarificatori della storia, gli autori sono costretti a poco verosimili equilibrismi narrativi: ricordi, racconti o interrogatori a complici o testimoni, piani da ripassare sono gli stratagemmi più comuni, usati anche per introdurre estesamente i personaggi importanti che si affacciano sulla scena. Insomma, ad analizzarlo freddamente, Diabolik sembrerebbe capace di assorbire un largo numero di elementi di attualità senza correre il rischio di snaturarsi. Eppure non lo fa e non sembra risentirne, come se i suoi autori avessero sviluppato una conoscenza intuitiva del personaggio (e del pubblico che gli è tanto affezionato) così profonda da non cedere a fin troppo facili tentazioni di adeguamento alla modernità. O come se ad alcuni elementi del fumetto, ormai divenuti inessenziali se non addirittura stridenti, fosse attribuito il compito di restituire il profumo della vecchia serie, aggiungendo un tono rétro di valore nostalgico. A questa categoria potremmo ascrivere alcuni dialoghi involontariamente comici, per la scelta del linguaggio o per l’ingenuità delle affermazioni (si vedano, soprattutto, gli scambi amorosi tra Diabolik ed Eva o tra Ginko e Altea), o l’eccesso statistico di sindrome di Stoccolma che colpisce le vittime di Diabolik, improvvisamente ammirate dalla statura etica del criminale e disgustate dalle convenzioni del mondo cui appartengono, o infine il vorticoso teatrino delle maschere, che merita un piccolo discorso a parte. E evidente che proprio sull’accettazione della perfezione della tecnologia con cui Diabolik realizza i suoi travestimenti si consuma gran parte della sospensione dell’incredulità richiesta al nuovo lettore. Ma qui il problema è che rimangono nel meccanismo delle maschere alcune contraddizioni che altrove, nello stesso fumetto, studiato maniacalmente per poter reggere a qualsiasi rilettura analitica, non sarebbero concesse. Per fare un esempio clamoroso, come può accadere che Diabolik, assunte le sembianze di Ginko, baci addirittura Altea, fidanzata storica dell’ispettore, senza che lei possa accorgersene (se non per istinto femminile), quando per scoprire se il criminale indossa una maschera basta l’analisi del volto, che consiste in un semplice pizzicare le guance dell’indagato? Su dettagli come questo perfino l’effetto narcotico prodotto dalla frequentazione con qualsiasi narrazione seriale, che tende a farcene dimenticare le contraddizioni (se non addirittura a farcene compiacere), rischia di dissolversi improvvisamente.
Il grande merito che va riconosciuto agli autori di «Diabolik», però, è quello di aver gradualmente modificato i motivi d’attrazione della serie, spostandoli in gran parte sul meccanismo perfetto dell’intreccio, da sempre marchio e vanto di fabbrica del fumetto. Ciò che il lettore è sicuro di trovare in «Diabolik» è una girandola continua di colpi di scena (non si contano le morti di Diabolik o di Èva, gli arresti e le condanne, gli enigmi da stanza chiusa), di rappresentazioni in cui quasi nulla è ciò che sembra, e un complicato (ma mai oscuro) congegno di mosse e contromosse, tutte studiate in anticipo come in una partita a scacchi virtuale giocata tra due personaggi, Diabolik e Ginko, di pari intelligenza, esperienza e conoscenza dell’avversario. E il fatto che alla fine il Re del terrore necessariamente prevalga non sminuisce le qualità del commissario, spesso costretto ad arrendersi solo perché combatte con le armi (e le regole) messegli a disposizione dalla giustizia, mentre il criminale ha una gamma di scelte (oltre che di tecnologie) più ampia.
Su questo impianto, gli autori sono stati capaci di inserire qualche novità, intervenendo soprattutto sui personaggi. Si vedano Eva Kant o la contessa Altea di Vallenberg, ultima e più riuscita compagna di Ginko. Inizialmente introdotte per dare ai protagonisti la possibilità di raccontare le proprie avventure, chiarendo i punti dubbi, e assolvere così le rigide necessità didascaliche del fumetto, hanno sviluppato con il tempo una loro personalità ben definita, arricchendo la serie e aprendo il genere a nuove possibilità. Il discorso vale anche, se non di più, per Diabolik e Ginko. Dire che l’uno è il doppio dell’altro non è certo una novità, ma è interessante notare come man mano siano aumentate le analogie tra i due, riscontrabili dietro i tratti di un singolare carisma, una grande abilità fisica, una spiccata intelligenza, una maniacale dedizione alla propria causa e persino una fortissima visione etica. Oggi come oggi Diabolik è sempre meno un ladro e sempre più una sorta di investigatore privato senza licenza che lavora su autocommissione. E questo permette al fumetto di toccare, in alcuni numeri, uno dei sottogeneri più fortunati del noir moderno. Quando prepara i suoi colpi o cerca di riaggiustare il filo di un piano messo in pericolo dall’imprevista intrusione di altre bande, Diabolik svolge in tutto e per tutto delle indagini, durante le quali mostra le proprie straordinarie capacità deduttive, oltre che una fine conoscenza della mentalità criminale e delle dinamiche della malavita. Tra i mezzi a sua disposizione entrano poi di diritto l’interrogatorio sporco, il ricatto, l’uso spietato delle armi, tipici dell’antieroe dell’hard-boiled e negati invece a Ginko in virtù della sua funzione di integerrimo paladino della legge. Perciò può capitare che i due si ritrovino a seguire le stesse tracce (quando accade, Diabolik è sempre un passo avanti rispetto al commissario, ma mai due, se mi si concede la metafora), e capita persino che collaborino esplicitamente, o che Diabolik, facendo rigorosamente i propri interessi, sbrogli qualche grana a Ginko.
Infine, vale la pena notare come la porta per far entrare nel fumetto la modernità non sia completamente sbarrata. Ne sono prova l’uso dell’ironia, spinta fino a prendersi gioco della dimensione routinaria, quasi impiegatizia, della vita criminale di Diabolik, che porta magari Eva a esigere una vacanza, come qualsiasi compagna frustrata o trascurata. O il gusto del paradosso e del contrappasso tratteggiato nel destino di alcuni personaggi. O infine l’introduzione di episodi di attualità trasfigurata. Non sono pochi infatti gli eventi presi di peso dalle cronache e piegati alle regole dell’universo parallelo di Clerville. Anzi, è da sempre un vanto della serie quello di metaforizzare ciò che avviene nel mondo reale, e pure con un certo anticipo. La convivenza di Diabolik ed Eva (o peggio ancora il rapporto mai regolarizzato tra Ginko e Altea) e il forte carattere di emancipazione delle donne messe in scena sono solo i primi elementi di una serie che tratterà in seguito, con più o meno successo, di strategia del terrore nell’attacco allo Stato, di corruzione nelle istituzioni e di connivenza con il mondo criminale, di tossicodipendenza e di omosessualità. Semmai, a colpire una volta di più, è la disinvoltura con cui storie dallo spessore metaforico non indifferente si alternino a intrecci che inscenano piccole vendette o brame personali. Ma anche questo è uno dei segni distintivi di Diabolik, capace di attribuire a un marito che cerca di liberarsi impunemente della moglie lo stesso livello di capacità di macchinazione (e di realizzazione) che concederebbe ai servizi segreti di una nazione nemica di Clerville. Che tutto ciò vada considerato un’ingenuità imperdonabile o uno straordinario stratagemma per mantenere il sapore della serie originale resta uno dei misteri meglio dissimulati di «Diabolik».