Zanardi o la carnevalizzazione della morte

È cinico, violento, misogino, fascinoso, anche tossico: è Zanardi. Naso adunco e mento a lama di coltello, abita una Bologna che ha appena digerito il disordine studentesco degli anni settanta e si appresta alla più agiata anormalità borghese. Il legame tra il personaggio e il suo creatore è insidioso. Istinto di piacere e impulsi autodistruttivi, esuberanza adolescente e narcisismo ferale travasano l’uno nell’altro, senza sosta. Dalle maglie del romanzo d’appendice, fuoriesce un inedito porno-noir: ricatti, assassinii e stupri di gruppo si rincorrono entro tavole magistralmente disegnate. È Andrea Pazienza, il più talentuoso fumettaro della nouvelle vague italiana.
 
Marzo 1981. Sul numero 5 del periodico «Frigidaire», in margine a una storia illustrata dal titolo Giallo scolastico, appaiono due epigrafi. La prima, molto celebre e spessissimo riprodotta, recita: «perché la pazienza ha un limite, Pazienza no»; la seconda denuncia viceversa uno stato catatonico, dolorosamente introflesso: «perché il freddo, quello vero, sa essere qui, in fondo al mio cuore di sbarbo». Insomma, senso spudorato di onnipotenza e patetismo adolescente: entro simili coordinate, di tenore alterno ma insidiosamente regressivo, nasce con alquanto clamore il personaggio di Zanardi (Zanna per chi, conoscendolo, ne teme o ne decanta le attitudini ferine).
La silhouette che lo distingue risulta inquietante eppure secca e memorabile: occhio azzurro talvolta velato di sopore, naso adunco, mento esageratamente affilato, capelli biondo paglia raccolti dal codino e sigaretta bogartiana alle labbra. Non è affatto uno sciocco, Zanna, sa anzi interpretare all’istante e in modo retto qualunque situazione gli si presenti; mostra intuito, sottigliezze psicologiche, prova persino elementari stupori di indole metafisica: «La realtà… Bah!», gli viene da pensare in una delle ultime tavole, oniricamente medievalizzata. E nondimeno stupra, ricatta, si stravolge di eroina, ostenta la più cruda misoginia, uccide senza alcun bisogno economico e spinge il prossimo a uccidersi per puro nichilismo. Odiato e amato da una nutrita cerchia di coetanei, non sembra affatto un qualsiasi giovinastro alla deriva ma un manifesto noir, un’autentica icona, sorta agli albori dell’Italia craxiana con la certezza profetica di oltrepassarla per giungere in perfetta forma fino a noi.
Considerando la variegata produzione a cui il fumettista marchigiano mise mano nella sua breve vita, Zanardi rappresenta per molti versi un apice qualitativo. E il personaggio più pensato, il più longevo nel tempo, per il quale l’autore predispone gli intrighi e le avventure più complesse. Erede dello psichedelico Pentothal, di pochi anni anteriore, annuncia un mondo in cui ciascuno fa per sé, senza più orizzonti, futuri utopici o prosastici, convinto al di là di ogni ragionevole smentita di fare come tutti. Di lui, con scrupolo balzachiano, ci viene detto che appartiene alla classe 1962; all’atto di costituirsi sulla pagina ha dunque 19 anni, e Pazienza, che lo crea, ne ha 25. Un minimo gap anagrafico, se si vuole, ma non privo di conseguenze riguardo al segmento generazionale interessato. Zanna e sodali, Petrilli e Colasanti (Pietra e Colas), sono i primi frutti umani del post ’77, un esteso movimento eversivo a carattere studentesco e sottoproletario di cui è appena il caso di recare memoria. Ne avvertiamo gli echi lontani in una tavola dedicata a Petrilli, che a scopo seduttivo, dinnanzi a una sbarba procace, sciorina l’intera litania di espropri e gesta illegali: «eravamo un gruppo e ci mettevamo al centro del corteo… Fai conto questo è il corteo, qui stavamo noi… quando arrivavamo al… metti un bar, il corteo si apriva e noi venivamo fuori, velocissimi, e due rimanevano dietro, due si facevano avanti… e due arrivavano proprio sotto le vetrine, e pensa era fighissimo perché avevamo hai presente Rollerball? Ecco sul tipo, con le ginocchiere e tutti le adidas rosse e palle».
Si può solo sorridere di tanto patetico e improbabile reducismo. Petrilli è lo sfigato del terzetto, il gregario riottoso e sottomesso, mentre nel concepire Zanardi l’autore insiste a più riprese sul senso crudamente oggettivo del personaggio. «La sua caratteristica principale» dichiara «è il vuoto. L’assoluto vuoto che permea ogni azione»; e ancora, in una conversazione di poco successiva, ci tiene a ribadire che il rampollo della media borghesia bolognese di cui si è assunto la paternità «è cattivo come lo può essere un ripetitore Rai», vive cioè senza colpa, in uno stato di trasgressività congenita impermeabile a qualunque criterio di giudizio. Non l’etica lo guida, ma il milieu, il moment e le doti d’istinto che lo fanno primeggiare sugli altri.
Sin qui, a prevalere sembrerebbe dunque la denuncia, il gusto per un naturalismo spassionato e outré che ama gettare in faccia a una società perbenista, ordinata e magari socialdemocratica le verità più ingrate. Per quanto ellittica, la striscia che meglio illustra un tale intendimento è probabilmente La proprietà transitiva dell’uguaglianza, dove Zanardi e soci dapprima si imbambolano in separata sede davanti alla tv, poi, riuniti, percorrono randagi le vie deserte della città e infine condividono l’eroina, pareggiando ansie e differenze incoercibili in una inesausta partita a Risiko.
Il punto è che, nell’insieme delle tavole, un simile progetto risulta di gran lunga disatteso. Liceale pluribocciato, agiato figlio di madre vedova, il membro più vivace del terzetto vorrebbe sì essere un documento raccapricciante dei tempi; vorrebbe sì costituirsi come protagonista ignavo, candido attore in un mondo improntato ai princìpi di una moralità ipocrita. A un medesimo tratto, però, non è possibile eludere la quota davvero ingente di psichismo perturbato e semischizoide che vincola l’autore al proprio personaggio. «Io ho due dimensioni» annota Pazienza, in un palese sforzo di trasfigurazione autobiografica «… una più sacrestia, sono insicuro, incerto, sessualmente inefficace, l’altra invece è più dura, più efficace e Zanardi volevo che fosse solo questo: una specie di burattino di legno, qualcosa di veramente duro. Allora ho fatto il mio contrario, biondo dove io sono bruno, capelli lisci dove io ce li ho più mossi e soprattutto questo naso… diverso dal mio».
Nel calcolo delle opposizioni e delle identità profonde, delle denunce pubbliche e del mito personale, sta di fatto che Zanardi attinge nel suo comportamento astutamente svagato alle pulsioni più recondite e autodistruttive dell’io. I riti di iniziazione erotica, viriloidi e promiscui, che si consumano al riparo del magico «clubbino», virano nel volgere di pochi anni al sadismo conclamato di Cenerentola 1987, dove il gioco del «plaid», a sfondo sodomitico e incestuoso, dà spazio a un tragicismo edipico che non sembra avere raffronti nel fumetto italiano coevo. Gli stupri di gruppo (Zanardi l’inesistente, Cuore di mamma), l’eroina come unico farmaco, gli omicidi intenzionali (Giallo scolastico, Pacco, La prima delle tré), le morti procurate, si affollano con cinismo algido eppure divertito, esilarante, costituendo infine un groppo di insane inclinazioni a cui solo Zanardi medievale sembra offrire uno sfogo esplicito: «Li ho uccisi, Pietra – Perché ammazzare è bellissemo» [sic!].
Thanatos, l’impulso di morte, si accampa a tutto agio fra questi disegni, relegando Eros a un ruolo marginale e nettamente subalterno. Non c’è orgoglio dongiovannesco, senso egotico di conquista e neppure vero godimento nell’orizzonte quotidiano di Zanardi, se non nei modi dell’aggressività sadica e misogina, vendicativa, prossima a un punto di rottura con l’ecumene dei consimili. Il peggior Nietzsche insieme al marchese De Sade, molto più dei dadaisti e delle avanguardie primonovecentesche tanto spesso chiamate in causa, contribuiscono in sordina al sottofondo culturale di un personaggio francamente repulsivo, infido, quanto simpatico e persino fascinoso nella sua perversa, arcaica ferocia. Benché privo di fondamento psicologico, e intollerante di risoluzioni catartiche, il dèmone oscuro che agita Zanardi si impone ai disillusi acquirenti degli anni ottanta, ne desta gli appetiti meno socievoli, mettendo l’autore – già convinto di operare nel senso di una denuncia oggettiva e liberatoria, controcorrente, spregiudicata – di fronte alle proprie responsabilità.
Nasce da qui l’esigenza di elaborare, di straniare il racconto con la presenza pressoché costante del suo artefice, in modo che ne resti in evidenza l’aspetto crudamente oltraggioso ma finzionale. Su questo piano, colto e metanarrativo, due sono gli accorgimenti adottati dal giovane fumettista. L’intervento ludico e inatteso nel mezzo delle storie, ossia la prosopopea di se stesso come personaggio tra gli altri; e l’esibizione iniziale o conclusiva di un io demiurgico e maledetto, straziato, tentato dalla morte: in quanto intelligenza superiore da cui promana, in modo psichicamente semiconscio, il grande disordine pulsionale rappresentato.
Per quanto riguarda il primo artificio, basti considerare la scena di La prima delle tre in cui Zanna e soci si recano al cinema. Come d’uso, l’affilato giovanotto rumoreggia, tanto che Pazienza, a sua volta spettatore, lo rimprovera. Ne nasce una violenta colluttazione che vede il fumettaro soccombere; e non basta, perché Zanardi cerca una rivalsa piena, ne esige l’umiliazione («Inginocchiati!»); finché i due sodali intervengono a sedarne i furori: «Dai Zanna, basta così», lo consiglia Colas, e Pietra, di rincalzo: «Gli fai fuori il suo autore preferito». Oppure ancora si osservi Zanardi medievale, dove Pietra, prigioniero di un sogno concepito dall’amico, sta per sperimentare le attenzioni sessuali di tre palafrenieri: «Cristo no! Questo no! Zanardi, porca eva, cambia canale – E vaffanculo pure a te, disegnatore dei miei coglioni – Stronzo – Ti conosco io a te». Ora sì siamo nell’ambito dello scherzo dadaista, per cui con oltranza goliardica l’autore gode nel farsi brutalizzare e mandare bellamente a quel paese dai propri personaggi. Restano, beninteso, le componenti sadomasochiste che inestricabilmente presiedono al rapporto tra soggetto creatore e figura creata. Nel gioco arguto del testo e dell’extratesto, ben poco viene a modificarsi in termini libidici, se non per un più accentuato desiderio di autopunizione. Lo stesso struggimento ansioso rilevabile in taluni esordi di racconto – seconda mossa a carattere straniarne –, dove il fumettista marchigiano, insieme a un massimo di narcisismo ferale, sembra anche profondere il meglio del proprio talento grafico.
La tavola che apre Notte di carnevale è disposta su tre piani: in alto, secondo una prospettiva ribaltata, verticale e di esplicito tenore cristologico, sta un Pazienza nudo che si macera a braccia aperte tra le coltri («Non così solo…»); al centro appare il titolo, dotato di un lettering rossastro e vagamente goticheggiante che preannuncia fiamme; il piano inferiore, frontale e allungato, mostra uno Zanna discinto, sdraiato su un divano, in attesa dei soci per l’incipiente veglione. La storia che ne esce assume così un connotato non già oggettivo, ma proiettivo; vale come fantasticheria, sogno a occhi aperti dettato da un compiaciuto ma anche profondo malessere. E evidente che Pazienza cerca uno stacco, uno schermo diegetico in grado di neutralizzare eticamente le proprie fantasie; al tempo stesso, però, di pari passo con l’esibizione narcisistica di sé crescono incontenibili da una storia all’altra le ansie di morte. Zanardi lf inesistente ha un avvio testamentario: «Di me, amate il riflesso, quella memoria che sale dalle cose che tocco». Cenerentola 1987, non a caso il cartoon più feroce della galleria zanardiana, offre in esordio una tavola muta, con sottintesi forse suicidi, il cui senso dominante è in ogni caso quello dell’assenza. Paesaggio cimiteriale, cipressi sullo sfondo; un albero rinsecchito in primo piano. Accanto alle sue radici contorte sta una seggiola, sopra vi si intravedono in bell’ordine le spoglie dell’autore: impermeabile, pantaloni, guanti; a terra alcuni fogli sparsi. In alto, incombente, una enorme nube, composta da un amalgama espressionista di volti e occhi, da cui proviene un boato, «BROOUMM», annuncio di tempesta e finale giudizio. Perché tale era il sentire contraddittorio del fumettista marchigiano, un incontenibile culto dell’io accompagnato dal più devastante disprezzo per la propria esistenza e persona.
In una delle ultime tavole, un’ulteriore citazione va registrata, stavolta di Sandro Penna: «Forse la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi». Il canto di vita, l’apologia di un corpo fresco e scevro di remore morali si innalza così sul limitare della parabola zanardiana. Molti sono i critici che ne hanno avvalorato l’angolatura gaudiosa e sfrenatamente libidica, eppure giusto nell’esaltazione di una fisicità tellurica si cela l’insidia più grande. Pazienza non celebra affatto il piacere, sembra piuttosto travestire da Eros e da biologismo irrefrenabile, anarcoide, la strapotenza prevalente di Thanatos. Questo l’inganno, o se si vuole l’equilibrio conturbante che il personaggio riesce qui e là a mantenere. La maestria dell’autore nel trascorrere da un accento all’altro, da un volto sagacemente alterato al suo opposto realistico o goticheggiante appare indubbia; il polistilismo grafico che ne caratterizza l’opera è frutto di una chiara e meditata poetica: «al posto di un’implosione» dichiara all’inizio degli anni ottanta, «cioè tutti i segni a convergere in un solo segno, oppure tanti disegni con elementi di comunanza, riconoscibilità, ho deciso di operare un’esplosione, di distribuire la qualità del segno in una serie di possibilità l’una diversa dall’altra e di esagerare, quasi a livello di esercizio, queste differenze». Nessuna discussione è possibile, Pazienza è davvero un maestro del fumetto, testimonia un pieno possesso degli strumenti tecnici e operativi. E tuttavia a connotare le storie zanardiane non è il semplice virtuosismo, la moltiplicazione fantasmagorica e inaspettata degli stili, ma il contrasto più specifico che si determina tra gusto caricaturale, goliardico, adolescente e infine comico del tratto, e asprezza luttuosa, sadicamente atteggiata dei materiali narrativi. Se c’è qualcosa di notevole nella figura di Zanardi, sta proprio qui, nella carnevalizzazione della morte, nello humour noir, più surrealista che dadaista, tra Lautréamont e Bataille, diciamo, tramite cui l’autore tenta di arginare una suprema ansia distruttiva, conferendogli una forma massimamente spettacolare e appetibile.
Almeno nei graphic novels più estesi, è palese il debito che egli contrae con le risultanze dell’appendicismo romanzesco. Basta osservare la conduzione del racconto, gremito di analessi, agnizioni, resoconti onniscienti frammisti a narrazioni interne. O meglio, le tecniche sospensive e centrifughe feuilleton, unitamente a taluni accorgimenti sintetici di pretta derivazione cinematografica, per cui ellissi, montaggi incrociati, simultaneità d’azione. La libertà che Pazienza si prende nel comporre una storia è massima, senz’altro superiore a quanto la tradizione fumettistica nostrana sembrava consentire. E nondimeno è l’eroe popolare e vendicatore, duplicato in decine e decine di esemplari ottocenteschi, a stimolarne la fantasia. Sotto questo profilo, inevitabile appare il riferimento a La prima delle tre, in cui compare una lettera del superdandy Colas a Luisa, la sorella di Zanna: «Ho letto il libro che mi hai regalato, I tre moschettieri, e all’inizio mi sentivo uno stupido, ma poi non riuscivo a smettere, BELLISSIMO! ! ! Io mi sono riconosciuto nel personaggio del conte de la Fere, col suo carattere nobile ma virile e focoso (anche se un po’ la mena). Ma non ho amici come lui, ne ho avuti, e le avventure che vivo io sono schifose…». Si può dire che il romanzo d’appendice faccia da scafo e da timone per le avventure zanardiane. Persino la lingua, talora, ne mima ironicamente l’andamento paludato: «Alle corte Madame, dia un’occhiata», sbotta Zanna deponendo sul tavolo di una matura padrona di casa le foto della giovane figlia impegnata in una solenne fellatio.
Certo, il vincolo che lega Colas, Zanna e Petrilli non ha nulla a che spartire con il solidarismo moschettiere concepito da Dumas. Un sottile alternarsi di seduzioni, rimbrotti sprezzanti e prepotenze stringe il terzetto di teenagers nelle avventure più efferate. Lo spiega bene Zanardi già nella storia d’esordio: «Vedete, noi tre siamo fatti così – se non sapeste che vi tirerei dentro fareste finta di non conoscermi – non siamo mica vecchi amici!!». Insomma I tre moschettieri, sì, ma riletto alla luce di Arancia meccanica (le tutine rosa di Notte di Carnevale possono valere come prova semiseria); cui si aggiungono non sporadiche incursioni nella novellistica boccaccesca: la punizione degli sciocchi, Pietra che muore in odore di santità, lasciando in dote il proprio nome a edifici scolastici e nascituri. Che è quanto dire sceneggiature di tipo popolaresco, effettistiche e ricche di temi già battezzati dal gusto invalso; non disdegnose di attingere a un remoto Medioevo, tanto in voga nella Bologna di Umberto Eco e Piero Camporesi, quanto ai coevi fatti di cronaca (il mostro di Scandicci).
Forte di materiali tanto compositi, psichicamente insidiosi e di immediata evidenza, dal tratto giocoso benché inclini al pornografico e al noir, Pazienza si inoltra nel vuoto pneumatico degli anni ottanta. Chiaro è l’intento di tenere alta la bandiera del fumetto underground italiano, recentemente costituitosi; come chiaro è il desiderio di favorirne una commercializzazione più vasta. Persiste, senza dubbio, una nota di polemica antiborghese, se non antiemiliana. Troppo insistito è il ricorrere di figure appartenenti al ceto medio, bottegaio e delle professioni: il ributtante farmacista di Verde matematico, la buona madre, docile al ricatto e allo stupro, di Cuore di mamma, lo stolido tv producer berlusconiano sbertucciato in La logica del fast-food. Di fronte alla socialdemocrazia bolognese, ipocrita e satolla, Zanardi e la sua cricca portano un ribellismo senza ideologie ma programmaticamente misogino: «Come fai a farti sbattere da quello stronzo – vieni qua – una gran vacca come te – Sei troppo troia, ti meriti una punizione». Le nuove generazioni del benessere medio borghese, immemori di utopie sessantottesche o settantasettine, deragliano agiatamente nel sadismo, nel multisex aggressivo, e per le femmine non c’è scampo. Un simbolo, anzi un brand, una volta di più emiliano-romagnolo, resta a suggello di tanto abbrutimento sociale, il cavallino rampante della Ferrari, che in Zanardi medievale Petrilli elegge a unica certezza superstite: «qualcosa in cui credere».
Siamo al culmine di una corrosività ideologica ormai orfana di prospettive; e di questo vuoto esistenziale, valoriale, nichilista, non solo il giovinastro biondo con la sua cricca, bensì Pazienza stesso appare il campione. Il no future come messaggio è esso stesso un messaggio, certamente provocatorio, dirompente, ma rischioso. Mentre il personaggio di Zanardi è ancora in pieno sviluppo, nell’aprile del 1985, sulle pagine di «Alter Alter» appare il profilo macilento di Pompeo, il tossicomane suicida, ultima e più sconsolata creazione di chi ha barattato il vitalismo ribelle con l’autoannullamento. A trentadue anni, per un’overdose di eroina, Pazienza muore. Al di là delle idolatrie postume e dei riconoscimenti di rito, a coglierne nitidamente il senso storico e artistico è stato lo scrittore Pier Vittorio Tondelli, pronto anch’egli a una scomparsa precoce, che sarebbe sopravvenuta appena tre anni dopo quella dell’amico. «È questo» scrive conturbato nel giugno del 1988 «che la morte di Andrea mi mette davanti, spietatamente: il lato negativo di una cultura e di una generazione che non ha mai, realmente, creduto a niente, se non nella propria dannazione».