I libri preferiti dal cinema

Dal momento che l’alleanza libro-film ha prodotto negli ultimi anni incassi colossali, non stupisce l’abbraccio sempre più stretto tra editoria e industria dell’audiovisivo, con tanto di appuntamenti professionali dedicati. È un accoppiamento virtuoso: il libro, se di culto, crea una comunità che pre-esiste all’uscita del film; la pellicola in sala permette al romanzo di tornare in libreria. Quando il cinema sembra aver perso le storie, perché non andare a cercarle dove si trovano? Partendo dalla pagina scritta, il regista «edita» la narrazione una seconda volta. Con un esito paradossale: ci sono film migliori dei libri da cui sono tratti.
 
Il 4 settembre 2010, alla cerimonia per il Campiello, Silvia Avallone, già finalista al premio Strega e premiata lì a Venezia col riconoscimento all’opera prima, annunciò che era in gestazione un film tratto da Acciaio, il suo romanzo. In realtà, Acciaio non era ancora uscito (cosa avvenuta in febbraio) che già era stato «opzionato». Ma tra l’opzione e il set c’è di mezzo lo stesso mare che c’è tra il dire e il fare. E, dunque, quella che dava Silvia Avallone era a tutti gli effetti una notizia. Nella cinquina dello Strega, oltre all’Acciaio candidato a film, c’era poi un altro romanzo subito opzionato, Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, e c’era il romanzo d’esordio di un regista, Paolo Sorrentino, danno tutti ragione, il cui protagonista, Tony Pagoda, ricalcava in filigrana Tony Pisapia, personaggio dell’Uomo in più, primo film dello stesso Sorrentino. Aggiungiamo un dettaglio: Pennacchi, trionfatore lì al Ninfeo, nel 2003 aveva pubblicato l’autobiografico Il fasciocomunista, dal quale Daniele Lucchetti aveva tratto Mio fratello è figlio unico, film approdato a Cannes nel 2007, ma da cui Pennacchi quell’anno avrebbe preso polemicissime distanze.
Per converso il Festival di Venezia, in settembre, viene presentato dal «Venerdì di Repubblica» come «la mostra dei film-libro». Perché lì arrivano La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo dal romanzo di Paolo Giordano, Noi credevamo di Mario Martone dal libro di Anna Banti, Notizie dagli scavi di Emidio Greco dal racconto di Franco Lucentini. E, uscendo dai patrii confini, La versione di Barney di Richard J. Lewis dal libroculto di Mordechai Richler e Norwegian Wood di Tran Anh Hung da Haruki Murakami.
Ecco, in stile un po’ impressionista, alcune pennellate per suggerire un quadro. Quale? Quello dell’abbraccio sempre più stretto tra editoria e industria dell’audiovisivo. Non più solo nel senso dell’offerta commerciale, ovvero della mercanzia – libri, cd, dvd – in vendita negli shop delle grandi catene. Ma nel senso di un ibrido sempre maggiore di contenuti e di destinazioni. Fenomeno in un certo senso sempiterno: Gabriele D’Annunzio fin dagli anni novanta (quegli altri, dell’Ottocento…) scriveva La Gioconda e L’innocente mirando più che alla pagina bianca al lenzuolo bianco. Questo stesso annuario, poi, analizzava il fenomeno già nell’edizione 2006. Ma il 2010 è stato davvero l’anno in cui sembra che non si sia parlato d’altro.
Già alla vigilia, a dicembre 2009, alla fiera della piccola e media editoria «Più libri più liberi» l’Aie presenta una ricerca sul tema «libri & film» curata da Ilaria Barbisan. In marzo alla neonata rassegna «Libri come», al Parco della Musica romano, la Fondazione Bellonci cura poi un incontro. Il tema? «Dalla pagina bianca al grande schermo». E la ricaduta più concreta è a fine ottobre, «Industry Books», sempre a Roma, presso il settore mercato del Festival Internazionale del Film, la cosiddetta Business Street: qui, nel corso di una giornata all’hotel Flora di via Veneto (lo sfondo vuol suggerire gli antichi fasti della Dolce vita) si svolge il primo incontro – a idearlo e coprodurlo è «Calipso», associazione di cui fa parte chi scrive – tra un drappello di editori italiani ma non solo (c’è il tedesco, c’è lo spagnolo, c’è il francese) i cui tredici romanzi sono stati selezionati dal Festival e il parterre di produttori italiani e internazionali che partecipano al mercato, in tutto più di un centinaio. Obiettivo: far nascere coproduzioni. E dare struttura e sede al matrimonio, come per il mercato francofono avviene al Miai monegasco (appuntamenti analoghi sono, nel contesto europeo, quello annuale alla Berlinale, e in quello italiano, il torinese BookFilmBridge al Salone del Libro).
E allora analizziamo il fenomeno. Anzitutto in senso quantitativo. Tra il 2000 e il 2005 i film usciti in Italia tratti da libri erano 261, cifra che nel quinquennio successivo sale a 317. Di questi nel primo quinquennio sono 56 quelli targati Italia (coproduzioni comprese), 60 nel secondo. Il fatto è che, nel pianeta, l’alleanza libro-film ha prodotto negli ultimi anni incassi colossali: è il caso del Codice da Vinci come di Twilight come di Harry Potter. E quindi sono in molti a puntare sull’accoppiata.
Accoppiata che vince anche in tv: un titolo per tutti, il Montalbano di Camilleri, ma anche il Commissario De Luca da Lucarelli, Mal’aria da Eraldo Baldini, Noi due da Enrico Brizzi… (e anche qui i precedenti remoti ci sono: i vecchi «sceneggiati» tratti dai classici).
Il libro, se di culto, crea una comunità che pre-esiste all’uscita del film, e quindi la pellicola arriva nelle sale già con questo asso nella manica. Dopodiché, a film sugli schermi, il romanzo torna alla grande in libreria. Prendiamo La solitudine dei numeri primi’, alla sua prima settimana nelle sale, a settembre 2010, il film di Costanzo ha riportato il romanzo di Giordano al primo posto in classifica. E dire che c’era stato tanto a lungo, al primo posto e poi in top ten, che si poteva pensare che non ci fosse italiano alfabetizzato che non l’avesse letto. Idem per Gomorra di Matteo Garrone da Roberto Saviano.
Il fatto che il fenomeno si verifichi per libri così abissalmente diversi come La solitudine dei numeri primi e Gomorra, il cui unico trait-d’union è essere firmati da «autori-italiani-giovaniesordienti», fa capire che esso va letto anzitutto in chiave sociologica di mercato.
Passiamo alla qualità. Riccardo Tozzi, presidente dell’Anica, spiega a dicembre 2009 in un pezzo sul «Messaggero» che la sua società, Cattleya – nome proustiano… –, è nata pensando a un «ricorso ai libri programmatico». Più di metà dei 60 film prodotti hanno quest’origine. Qualche titolo? Non ti muovere, Io non ho paura, Romanzo criminale… E Tozzi si appunta al petto anche la medaglia-Moccia: è lui che, scoperto lo scartafaccio che, così vuole la vulgata, girava in samizdat tra i ragazzini, l’ha portato da Feltrinelli e, fattolo diventare Tre metri sopra il cielo libro, quasi in contemporanea l’ha portato anche sullo schermo (medaglia per noi di valore dubbio, questa, anche se Moccia coi suoi fantaincassi ha rimesso in moto l’economia del settore). Perché Cattleya nasce con questa vocazione? Perché, scrive Tozzi, «negli anni ottanta e novanta il cinema italiano aveva perduto le storie». Senza ritrovarle. Mentre negli anni Duemila la nostra narrativa era uscita dalla sua fase narcisistico-ombelicale e aveva riscoperto (o scoperto) trame e generi. E quindi perché non andare dai fornitori giusti?
Diciamo una cosa in più: trarre un film da un romanzo significa appoggiarsi su un lavoro doppio. La storia è lì, già scritta. E nell’adattarla per lo schermo ne vedi buchi, vuoti, incoerenze. La «editi» una seconda volta. Ci sono film migliori dei libri da cui sono tratti. Per esempio Il riccio di Mona Achache spinge al massimo le potenzialità del romanzo di Muriel Barbery, ne elimina le leziosità e rinviene nella trama delle profondità che Ineleganza del riccio si sognava.
Naturalmente è vero anche il contrario: film orribili da libri bellissimi.
Ora, quali saranno i prossimi scenari? Auspicabile, una «democratizzazione» del fenomeno. Perché, come certificava anche la ricerca dell’Aie, a fare la parte del leone nella rincorsa all’adattamento sono i grandi gruppi editoriali. Certo, editano più libri e hanno più probabilità di custodire belle storie. Ma hanno anche la possibilità di avere figure preposte proprio a questi compiti e, di conseguenza, rapporti privilegiati con i produttori. Da temere, un appiattimento nella scrittura: che i nostri romanzieri scrivano «sognando California» – il passaggio sullo schermo e le relative royalties – e ci ammanniscano storie montate in ciak e sequenze. Mentre l’esperienza insegna: i film più belli nascono da libri tali al 100%. Un esempio? Ladri di biciclette. Che Zavattini scrisse per De Sica adattando l’omonimo romanzo di Luigi Bartolini uscito nel 1946 per l’editore romano Polin, come ha ricostruito Paolo Mauri per il «Venerdì». E lo stesso Gomorra di Garrone dove annida la sua forza? Nel «tradimento» del Gomorra di Saviano. Belli entrambi, ma narrato attraverso un Io esplosivo il libro, impersonale allo spasimo il film. Dopodiché eccoci a parlare di matrimonio tra pagina e schermo mentre sta succedendo l’altra rivoluzione, quella dell’e-book. La tecnologia che, dando la possibilità di usare in contemporanea tutti i linguaggi – scrittura, audio, video – può darsi faccia seppellire come obsoleto il nostro discorso fra dieci anni. Andrà così? Oppure no?