I voli di Volo

I nuovi «sogni a libro aperto» degli anni Duemila sono modellati sui giovani adulti metropolitani «dolcemente complicati». Nelle vicende della Bildung «giocai» e tardiva di un trentenne qualunque – che però continua a somigliare moltissimo al suo autore –, il senso di appartenenza a uri unica community scatta immediato: canzoni, libri, luoghi, oggetti, avvalorano il rispecchiamento di chi abbia condiviso le esperienze narrate, mentre traghettano il lettore più sprovveduto nel mondo cosmopolita cui vorrebbe accedere. E l’irresistibile seduzione della normalità «sesso, canne e verdurine» conquista un’intera generazione di lettori «thirtysomething».
 
È pop e non impegna. È Fabio Volo, nostro signore delle classifiche degli anni Duemila. Cinque libri in dieci anni, oltre tre milioni e mezzo di copie. Un fenomeno di massa, sia per l’immediatezza del successo (le cronache editoriali ricordano ancora un weekend di triplice doppiaggio del Simbolo perduto di Dan Brown) sia per la durata (l’intera backlist staziona nella top ten dei Tascabili).
Stante questi numeri, diventa difficile pensare all’ennesima meteora «one shot», caduta dalla radiotelevisione all’editoria a provocar indebiti sfaceli nel mondo delle belle lettere. E indubitabile che il presidio mediatico di Fabio Volo – cinema, televisione, trasmissione quotidiana da Radio Deejay – «non risolve, ma aiuta» il successo dei suoi libri, però non può non far riflettere anche una recente ricerca sugli «autori italiani più amati su Facebook» che lo colloca al secondo posto (dopo Saviano), con un profilo curiosamente splittato che – a sorpresa – vede più numerosi i fan della pagina «scrittore» di quelli della pagina «personaggio pubblico».
Se pure è vero che l’ex iena, nelle interviste, continua a professarsi «non scrittore», tuttavia il suo peso specifico autoriale cresce: ha scattato lui le fotografie – tra l’allusivo e il didascalico, però indubbiamente gradevoli –, che campeggiano sul piatto degli ultimi due romanzi; e sarà lui l’attore protagonista della trasposizione cinematografica di Il giorno in più, primo dei suoi libri a diventare film. Fabio Volo, un marchio «qualità globale».
In realtà il bestsellerismo d’autore è avvalorato, nei testi dei risvolti di copertina, fin dall’opera seconda: «Volo si conferma capace di esplorare con un linguaggio semplice il complesso mondo interiore di tutti e di ognuno»; «mette insieme le vite dei protagonisti come i pezzi di un puzzle, scegliendo ancora una volta l’universo femminile come codice d’accesso». Nei più recenti, un ulteriore passaggio, con la valorizzazione della scrittura «à la manière de» e il ricorso al superlativo relativo: «questo romanzo ha gli ingredienti e il gusto delle pagine più riuscite di Fabio Volo. La prova esaltante di un talento narrativo che ha raggiunto la maturità senza perdere un briciolo di freschezza»; «il nuovo libro di Fabio Volo è anche il più sentito, il più vero…». Fabio Volo, e sai cosa leggi.
È evidente che non siamo in presenza di un modello seriale – moderno ma rigoroso – alla Montalbano o alla Malaussène. Qui ai cinque volumi corrispondono cinque protagonisti anagraficamente diversi – Nico, deejay; Francesco, laureato in Economia; Michele, giornalista; e poi Giacomo che fa il grafico-tipografo e il copywriter Lorenzo –: però curiosamente tutti lavorano nei media e in una grande città, tutti hanno un gruppo di amici cui sono più legati che alla famiglia di origine, tutti si professano single (con molte donne nel letto e forse una nel cuore) e tutti appartengono alla generazione dei «thirtysomething» (con un’età variabile secondo una curva crescente – Nico ha 28 anni, Lorenzo è più vicino ai 40). Insomma, rimandano a un’unica fenomenologia, quella del trentenne protagonista di una Bildung tardiva: le differenze (che ci sono, ma appaiono accidentali) si stemperano per far prevalere gli elementi comuni (sostanziali). E quasi come fossimo in presenza di un’unica macrostoria in progress, divisa in capitoli secondo il focus tematico prevalente, in cui il testimone passa di mano: Nico è alle soglie dell’età adulta, Francesco affronta la paura di vivere che lo blocca, Michele compie un viaggio iniziatico, Giacomo si apre all’amore, Lorenzo affronta il tempo perduto. Ma c’è di più: complice anche la comune scelta del racconto in prima persona il patto narrativo è degno di una seduta analitica o piuttosto, per ritmo e stile, di un blog autocoscienziale –, il sospetto è che tutte queste identità si assomiglino così tanto anche perché al fondo rielaborano l’esperienza dell’autore, con cui peraltro condividono in itinere – l’età.
Il cortocircuito personaggio-narratore-autore è un primo snodo cruciale: la sovrapposizione (narrativamente indebita, ma che tutti gli indizi incoraggiano) con l’autore reale è funzionale per spingere il lettore a immaginare il protagonista «medioman» – per quanto imbranato, immaturo o sgradevole possa dimostrarsi – belloccio, alla mano e di successo come il vero Fabio Volo. E si capisce bene come questo assunto diventi essenziale per assicurare il passaggio successivo: l’immedesimazione proiettiva del lettore (ideale e reale).
Per quanto calate nella quotidianità contemporanea, le storie di Volo sono «sogni a libro aperto» (come recita lo slogan Harmony) per «trentenni anonimi» forse un po’ confusi, ma tutto sommato a proprio agio nel riconoscersi come giovani adulti metropolitani «dolcemente complicati». Il modello di lettura che propongono è una tranquilla evasione nella normalità sognata: un lavoro easy e se possibile creativo, una serena singletudine, un appartamento confortevole, un buon numero di relazioni… concedendosi tempo e modo per rimettere insieme i pezzi di sé, prima di esporsi nella costruzione di rapporti più strutturati.
Osservando in successione i titoli-manifesto – Esco a fare due passi (2001), È una vita che ti aspetto (2003), Un posto nel mondo (2006), Il giorno in più (2007), Il tempo che vorrei (2009) – se ne ha la conferma: il destinatario elettivo è la generazione che, tra ansie di precariato e procrastinare peterpanesco, accosta sempre più spesso ricerca dell’amore e ricerca di sé, accomunandoli sotto l’invito esplicito alla valorizzazione del tempo, dal «carpe diem» al riconoscimento che «c’è un tempo per ogni cosa». (E non è forse un caso che anche due piccoli successi del passaparola della scorsa stagione – il romanzo Un giorno di David Nicholls e il film Dieci inverni di Valerio Mieli – si concentrino sulla dimensione temporale e ripropongano un’analoga ibridazione tra Bildungsroman e rosa.)
In Volo c’è sicuramente un rimando di genere all’anglosassone lad lit, la narrativa dedicata alle disavventure rosa-esistenziali dei trentenni nella sua variante «dalla parte di lui», che sostituisce all’affannosa ricerca di Mr. Right della più celebre chick lit femminile l’altrettanto affannosa fuga dal «pacco dono» coppia stabile fidanzamento-matrimonio, salvo capitolazione finale. Con questa tradizione condivide personaggi, situazioni e un punto di vista spregiudicatamente di genere. Ma Volo va oltre, e mescola i caratteri della lad lit con una buona dose di «locai»: viaggi, musica, letture, stili e comportamenti figli della globalizzazione si accostano a valori, riti e ricordi della provincia profonda e della famiglia media italiana (tipicamente, i consigli-mantra delle mamme, le figure dei nonni, i ricordi scolastici).
È una contaminazione essenziale. Larga parte dell’appeal di queste narrazioni si fonda proprio su un profondo senso di vicinanza e riconoscimento «a km zero»: i commenti entusiasti dei lettori sono cadenzati di «racconta di piccole cose quotidiane che tutti viviamo» e «tutti possono ritrovarsi nelle parole del protagonista». E non si tratta di un’appartenenza culturale, sociale, meno che mai politica: piuttosto, del senso di partecipazione a un’unica community. E l’appartenenza ai tempi dei social network, quella dei fan di Facebook e degli slogan nostalgia a base di «Quelli che…»: significa riconoscersi nella bacheca di un altro, nella sua libreria, nelle sue playlist. Ritrovarsi tra simili, anche sull’onda di gruppi estemporanei e identità puntiformi: i «fan» della Nutella, di Heidi, o delle ragazze dalle tette grandi; gli iscritti al gruppo «NY nel cuore», quelli che «mi piace… la Coccoina» e «non mi piace… andare all’Ikea con la fidanzata».
Sulla pagina, la scintillanza delle piccole cose scatta prepotente e immediata, grazie alle innumerevoli immagini (metafore, similitudini, saperi generazionali condivisi, massime a effetto) ad altissimo tasso di identificazione e riuso citazionistico: «ci sono giorni in cui mi sento come Tony Manero quando esce di casa e dice: “vado a farmi il mondo”»; «una donna che non sa fare il caffè per me può essere solo un’avventura»; «come quando si scrive una lettera d’amore la sera e poi la mattina nel leggerla ci si vergogna e non la si spedisce». Ma l’artificio retorico più subdolo e potente è senz’altro il dimostrativo allusivo e complice nella forma «uno di quelli…»: «quei giorni in cui vorresti andare così lontano da non aver voglia nemmeno di alzarti dal letto» ; «una di quelle scene che dici “mi sta capitando quella cosa che racconterò per il resto della vita…”»; «uno di quelli che sostiene che tutte le donne sono troie…»; «sono quelle donne che profumano di mela»: è una strizzata d’occhio al lettore, che lascia intendere «non te lo devo certo spiegare, noi ci siamo capiti» (e la faccenda si chiude lì, con soddisfazione reciproca – forse anche per evitare di impazzire sulla casistica delle donne che profumano di mela).
Con questi presupposti, non è davvero difficile trovare un puntello per identificarsi senza troppi sforzi di decodifica. Canzoni, libri, luoghi, oggetti, ma anche – in pieno stile social network – i «che cosa sta facendo» e «che cosa sta pensando» dei personaggi, avvalorano il rispecchiamento di chi abbia condiviso la gran parte delle esperienze narrate, mentre traghettano il lettore più timido o sprovveduto nel mondo cosmopolita cui vorrebbe accedere. Con uno scatto ulteriore, perché a quel punto l’appartenenza porterà con sé la distinzione (sempre in declinazione «social»): se mi riconosco nel gruppo, se il protagonista (o un altro dei personaggi) è uno di noi, allora io sono o posso diventare un po’ come lui: di successo, con un lavoro non mortificante, sessualmente disinibito, ma anche brillante tenero e profondo.
Seguendo il meccanismo della «rete», non è peraltro escluso che la definizione di un punto comune non diventi sponda per l’accesso a qualcosa di nuovo e inedito. I libri di Volo si possono anche fruire come una compilation – è questo il loro lancio in avanti – di luoghi, abiti, ricette di cucina, performance sessuali, musiche, libri che hanno punteggiato la Bildung del protagonista e che possono diventare oggetto di emulazione. Almeno per indicazioni bibliografiche e discografiche, l’effetto «Selezione del Readers’ Digest» è già scattato, e sul web è disponibile lo spoglio dei testi e della musica citata in Il tempo che vorrei, diventati per l’occasione «I consigli di lettura di Fabio Volo» e «La playlist di Fabio Volo». Va detto che nel testo il ricorso citazionista si muove costantemente sul crinale tra nobilitante e sfinente: è per lo più accortamente dosato, ma a volte dilaga in un’abbuffata fastidiosa, come quando – per limitarsi ai testi scritti – nel giro di due pagine si parte da «Nella sua prima passione la donna ama il suo amante, in tutte le altre ciò che ama è il suo amore» per finire con «Non posso vivere con te né senza di te», e poco dopo si inanellano a brevissima distanza Valéry con «Il futuro non è più quello di una volta», Kierkegaard e Huxley. Quanto ai luoghi cult, uno dei più celebri must «divulgati da Volo» è la New York del penultimo romanzo (dove c’è anche un po’ di Parigi, in caso si abbiano gusti romantici più Vecchia Europa): una metropoli dall’immaginario cinematografico unico, da cui l’autore ha trasmesso un programma in tempi recenti e che il narratore-amico può raccontare con segnalazioni puntuali di locali e indirizzi, ulteriormente chiosati dagli scampoli della sua conoscenza di prima mano: «a New York in un sacco di dolci c’è la cannella…»; «non ricordo di aver mai visto un ragazzo solo in un bar della mia città. Qui è normale». Anche in questo caso, ce n’è abbastanza per attivare il meccanismo riconoscimento-emulazione, fino alla cernita puntuale dei luoghi citati nel libro (a quando una «app» dedicata, magari come contenuto extra per l’e-book?).
Del resto raccomandazioni, modelli di comportamento e self-helpismo spicciolo trasmessi in forma narrativa c’erano già nella solita Liala (celeberrima la sua rivendicazione di aver iniziato schiere di lettrici all’utilizzo del sapone per l’igiene personale); nelle prove narrative di Volo, la distanza con l’exemplum è ulteriormente ridotta: non soltanto nella «to-do list» c’è sicuramente qualcosa che già appartiene al lettore, ma viene enfatizzato il fatto che il tramite di questa conoscenza sia un giovane uomo qualunque (per quanto vincente e spregiudicato) del XXI secolo. Il confronto con i paladini risolti e adamantini che professano solo grandi ideali può essere faticoso e respingente, si sa; per scongiurare il rischio, l’eroe volesco non nasconde le sue difficoltà e le fasi di logorrea paranoica, sorride della propria imbranataggine, fa l’apologia delle canne, e addirittura affronta con spudoratezza gli argomenti del cosiddetto «basso corporeo», restituendo senza filtri la descrizione di atti sessuali e problemi intestinali. Le rappresentazioni del sesso sono realistiche e spudorate, giocate su un registro tipicamente conversevole-maschile punteggiato di aneddoti («le donne McDonald’s… quelle che ti fai perché hai fame, fame fame, ma che sai già che poi ti pentirai»; l’autoerotismo «prima con la mano destra, poi con la sinistra, poi con la crema sulla mano…», fino al più classico «catalogo» di donne-parti anatomiche-luoghiposizioni); solo quando si tratta di Lei, nella migliore tradizione rosa, l’atto assume caratteri più attenti e partecipativi, con il rischio però di consegnarsi all’enfasi: «volevo che conoscesse l’animale che mi porto dentro […] la volevo femmina fino in fondo», «neppure la prima volta è stato così potente. Neppure la prima volta ho provato questa sensazione inebriante»; «la conosco a memoria […] Lei. La mia donna». Quanto ai problemi intestinali, basterà dire che le supposte effervescenti ritornano in più di un’occasione, la toilette dell’aereo è teatro di una storiella a puntate degna delle comiche e il capitolo «Il giorno dopo» la prima uscita con la ragazza che ha inseguito oltreoceano si apre con la romantica frase «Da più di quattro giorni stavo a New York e non ero ancora andato in bagno».
Insomma, l’ideologia della medietà (individualista e un po’ «paracula») trionfa. Fuori dello spazio privato, manca qualsiasi presa di posizione o provocazione sociale – forse anche di consapevolezza – che non vada oltre la critica di piccolo cabotaggio, comunque sempre sullo sfondo: l’Italia non è un paese per giovani; i piccoli imprenditori-artigiani sono strangolati da lacci e lacciuoli, il riconoscimento sociale nasconde un inquietante contrappasso (la «sindrome del conducente del tram», che può solo procedere lungo binari tracciati da altri: scuola, laurea, master, lavoro, fidanzamento, matrimonio, figli).
Se un ideale resta, è quello della «ricerca della felicità» nella sua declinazione più personalistica. Si capisce che si tratta, se non dell’elogio del disimpegno bamboccionesco, di un sogno sì largamente condivisibile ma un po’ inconsistente. D’altra parte, è pur vero che in questi libri il viaggio dell’eroe può contemplare momenti duri (malattia, lutti, incomprensioni profonde), più spesso però si imbatte in difficoltà che stanno bene nei testi delle canzoni pop: un amore finito, un amico lontano, la solitudine, il rapporto con i genitori, il desiderio di un figlio… e in quel contesto fanno esclamare «sembra che queste parole siano state scritte per me».
Anche lo stile si adegua. Per aumentare la leggibilità, la lingua si mantiene su un italiano standard medio, colloquiale ma grammaticalmente pulito: il parlato non è mai uno «scrivere male» espressionistico, e anche quando si affrontano gli argomenti più pruriginosi (tipicamente, il sesso) si ricorre a un furbo turpiloquio patinato che non stravolge davvero il registro ma tutt’al più rimanda a una certa volgarità che «fa giovane».
La tendenza a una scrittura introspettiva, a tratti un po’ petulante – per quanto coerente con la personalità dei personaggi-narratori –, rischia qualche volta di far avvitare la narrazione, nell’affastellarsi insistito di anafore («aveva ragione quando diceva che non sapevo amare. Che non ero capace di farlo. Che confondevo l’amore con l’adattarmi»), serie di accumulo iperbolico («non disturbi, non chiedi aiuto, non ti arrabbi mai, non litighi […] quanti pensieri, quante attese, quante delusioni, quante lacrime e pianti») o variazioni sul tema («avevamo la sensazione che non fossimo sbagliati l’uno per l’altra, ma che fosse il tempo a esserlo. Ci sentivamo le persone giuste nel momento sbagliato. Non era il momento adatto per il nostro incontro…»), come pure di indulgere a qualche diminutivo di troppo (svuotini, verdurine, spermini, richiamino, freschino).
D’altra parte, l’attenzione al lettore non letterato è scoperta, come pure gli accorgimenti retorici cui si fa ricorso per colmare la distanza; un po’ in stile «letture per la scuola media» – ma senza pedanteria – il narratore quando usa una parola nuova la spiega (da «agnostico» a «idrocolonterapia», a «progesterone»); quando ricorre a una citazione, lo fa scopertamente e per lo più la contestualizza («Ulisse nell’Inferno di Dante», «capitano Achab di Moby Dick», «la frase del libro di Joseph Conrad, La linea d’ombra»), quando vuole sottolineare un concetto, lo declina più volte, con preferenza per il tricolon («ci assomigliavamo troppo: eravamo due viti, due spine, due chiavi», «un giorno ho letto un’intervista fatta da due giornalisti a delle persone malate. Persone in fin di vita. Malati terminali»); quando fa dell’ironia, chiosa in modo da chiarire «ok, scherzavo», oppure si prende in giro bonariamente da solo («la parità dei sessi […] c’ho sempre sperato. Avendo il cazzo piccolo, desidero la parità dei sessi: inteso come misura naturalmente»; «in casa di alcune donne non si capisce con cosa lavarsi […] mi è capitato di lavarmi con il balsamo. Sono uscito che sembravo un peluche»).
Basta questa attenzione per giustificare la passione di una schiera di lettori deboli e giovani, che spesso ammettono candidamente di non avere grande familiarità con la parola scritta? Basta intercettare i desideri estetici e ricreativi dei 20-40enni, per rendere la fatica di leggere degna di essere attraversata per quasi 300 pagine? Sembra di poter dire che questo atteggiamento rassicurante e non respingente, inclusivo e non snobistico, per ora, funzioni alla grande. I libri di Fabio il «FaVoloso» continuano a uscire in una collana della Varia Mondadori, «Arcobaleno» – solo a partire da Un posto nel mondo compare l’etichetta «romanzo», e in effetti trama e sistema dei personaggi si fanno più strutturati – ma riescono a scombinare le classifiche della Narrativa (con buona pace di quanti inseguono le avanguardie ma si lamentano delle tirature).
I suoi lettori hanno sintetizzato la formula in uno slogan: «Io Volo volentieri». Pare un po’ la prosecuzione immaginifica di Tre metri sopra il cielo. E forse non è un caso.