L’apocalisse secondo Bocca

Passata la stagione storico-memorialistica, come pure quella della saggistica d’inchiesta, l’ultimo Bocca si applica alla denuncia dei fenomeni che hanno concorso a svuotare di senso la politica, trasformandola da fine in «mezzo per utilizzare lo Stato per interessi privati». Il parlato amichevole si è mutato in invettiva feroce, in j’accuse senza appello di chi sente soprattutto di dover radicalizzare la propria estraneità. Alla carica polemica non s’accompagna però un’altrettanto appassionata spiegazione delle cause della regressione contemporanea, che trascolora piuttosto nella critica dell’animale uomo e della sua imperfetta costituzione biopsichica.
 
Dopo una lunghissima carriera consacrata alla cronaca, nel secondo tempo della sua vita Giorgio Bocca è andato incarnando una figura di opinionista radicale, proteso a promuovere un esame di coscienza collettivo del sistema di certezze che governa la vita pubblica. Suo nemico principale è l’assoggettamento generalizzato alla legge del denaro e del più forte: la «plutocrazia» e l’«individualismo anarcoide». Questi due fenomeni, secondo il celebre giornalista, hanno concorso in pari grado a svuotare la politica, trasformandola da fine in «mezzo per utilizzare lo Stato per interessi privati». Ma è evidente che è il primo a dettare la contemporanea gerarchia dei valori: fare soldi, non importa con quale mezzo. Al servizio di tale morale si pongono tanto la globalizzazione dei mercati a guida nordamericana quanto il nuovo «regime» instauratosi in Italia con l’ascesa politica del berlusconismo, che Bocca chiama a seconda dei casi «sultanato», «democrazia autoritaria», «fascismo mascherato» o «dittatura morbida».
È il trionfo di Mammona, che non solo ha spazzato via il senso della nazione e il pudore della ricchezza che custodivano le grandi famiglie industriali del Novecento, ma pure ha contagiato i ceti popolari, passivamente uniformatisi all’egemonia del pensiero unico propagandato dalla televisione. La sudditanza dell’odierna stampa periodica agli interessi della pubblicità contribuisce per parte sua a dare il colpo di grazia a ogni residuo spirito critico, assecondando colpevolmente il comune orientamento alla spettacolarizzazione delle notizie. La conseguenza è che persino gli ultimi episodi di «scontro sociale» si sono mutati in «reality show», in fragorosa «recita pubblica estranea al conflitto tra sfruttatori e sfruttati»: tutte espressioni tratte da Annus Horribilis, sua ultima fatica libraria, una sorta di diario in pubblico in cui l’autore affastella senza troppe preoccupazioni di ordine sistematico osservazioni e note sui fatti del 2009, l’anno orribile cui allude il titolo.
Certo, i conflitti sociali per Bocca non solo non sono stati rimossi, semmai si sono addirittura inaspriti. Ma coloro che ne fanno le spese – a cominciare dagli operai dimenticati dalle forze politiche di sinistra, loro rappresentanti elettive – sono i primi a interpretare le contraddizioni di classe come un ineluttabile attributo del divenire storico cui non è possibile sfuggire se non ingegnandosi a sfruttare a proprio favore i princìpi regolatori della darwiniana struggle for life: «Gli uomini della rivoluzione sono diventati dei conservatori che invidiano e imitano i ricchi».
La crisi dunque è irreversibile: tutti i rapporti umani appaiono modellati attorno a un principio di sopraffazione reciproca che le coscienze dei singoli hanno interiorizzato, assumendolo come codice assiomatico fondato su leggi naturali. La massima espansione dei modelli di convivenza dell’Occidente viene così a coincidere con lo scatenamento della furia competitiva e delle pulsioni antisociali.
D’altra parte, i princìpi illuministi dell’azionismo in cui Bocca s’è formato nell’alveo di Giustizia e Libertà, e a cui rimane fedele anche nel momento in cui ne constata il fallimento, gli impediscono di indulgere nella mitizzazione delle risorse morali degli «esclusi» dal progresso o di aderire alle allettanti ma ambigue parole d’ordine dei movimenti no global. Né l’antitaliano giornalista si dimostra sensibile all’appeal della mitologia esterofila, nella quale anzi ravvisa una trappola del provincialismo nostrano che può scattare solo in assenza di una adeguata verifica dei fatti. Ai suoi occhi, l’Unione europea rappresenta bensì una fortuna per la nostra nazione, in quanto pone un argine alla deriva autoritaria, ma i rigurgiti nazifascisti e le «paranoie xenofobe» che attraversano pure antiche democrazie come la Francia e il Regno Unito dimostrano che l’«onda lunga di destra» non risparmia nessuno.
Vero è che nello Stivale l’involuzione delle modalità di convivenza umana è aggravata da due vizi saldamente radicati nella nostra storia nazionale: la scarsa familiarità con la democrazia e il trasformismo, inteso sia come spregiudicata attitudine dei potenti a cambiar casacca sia come tendenza della gente comune a «dar comunque ragione al vincitore, a schierarsi dalla parte di chi comanda». Queste constatazioni posseggono una carica polemica vivacemente attuale, ispirata a un autentico senso civile. Il loro limite consiste nel fatto che all’ardore dell’intelligenza con cui l’autore ne ricostruisce la fenomenologia non s’accompagna un altrettanto appassionato impegno a spiegare le cause per cui la storia è andata così, col risultato che la sua critica finisce col digradare in una specie neppure troppo mascherata di pregiudizio etnico.
L’impatto di questa totalità negativa non risparmia neppure il giudizio sulla Resistenza, che pure Bocca difende con fervore dai revisionismi di destra e di sinistra. Proprio mentre ribadisce il valore morale della lotta di Liberazione, egli è costretto infatti a riconoscerne il carattere di eccezionalità contingente e irripetibile, determinata dall’emergenza storica. Solamente «nei giorni della sopravvivenza, nei giorni di difficoltà estrema, dei nazisti in casa, gli italiani riscoprono la necessità di una morale comune». La consuetudine è un’altra. Nei periodi di abbondanza e di pace, quando non c’è «Annibale ante portas», a prendere il sopravvento è «il rubo-io-perché-rubi-tu». E, in ultima analisi, è tale costume a spiegare il largo favore di cui, nonostante la sottovalutazione della crisi economica e lo scandalo delle leggi ad personam, continua a godere l’ottimistica politica di Silvio Berlusconi: gli italiani si rispecchiano in lui, «gli perdonano ogni peccato che anche loro commetterebbero», perché «sanno di essere una somma di piccoli autoritari in potenza».
Date queste premesse, per misurare la profondità del baratro infernale in cui è scivolato l’Occidente a Bocca non restano che due itinerari: radicalizzare il proprio senso di estraneità adottando un punto di vista postero a se stesso che mentre lo colloca su un piano di distanza incolmabile ne enfatizza la volontà di scandalo; e sottoporre gli eventi specifici della cronaca a un criticismo oltranzistico, scevro da compromessi o eufemismi, in grado di ricondurli in un contesto globale che ne faccia emergere le reali responsabilità.
Da questo spirito nascono tanto i saggi monografici che aspirano a smascherare gli inganni del capitalismo trionfante (Pandemonio. Il miraggio della new economy, 2000 e Il dio denaro. Ricchezza per pochi, povertà per molti, 2001) o quelli della propaganda berlusconiana (Piccolo Cesare, 2002), quanto gli zibaldoni in cui il resoconto degli orrori contemporanei abbraccia una più larga varietà di temi, affrontati con maggiore disinvoltura secondo le sollecitazioni offerte dall’attualità: Italiani strana gente, 1997; Voglio scendere!, 1998; Il secolo sbagliato, 1999; Basso Impero, 2003; L’Italia l’è malada, 2005; e appunto Annus Horribilis, 2010.
I processi di argomentazione saggistica e le forme di linguaggio adottate non potevano che risentire a fondo dei condizionamenti della nuova missione che Bocca s’è accollato con un’energia non sminuita ma semmai rinfocolata dallo sconforto. Scrittore da sempre assai prolifico, il giornalista piemontese s’era conquistato nel secondo dopoguerra un crescente consenso di pubblico grazie soprattutto a due filoni di studio: da una parte, i libri storici o memorialistici in cui s’era adoperato a ricostruire le vicende della guerra mondiale e della lotta di Liberazione; dall’altra, la saggistica d’inchiesta, focalizzata in massima parte sull’età dello stragismo e del terrorismo brigatista. Lo sforzo documentario e analitico si traduceva in entrambi questi gruppi di testi in un parlato amichevole teso a coinvolgere i lettori in un problematismo senza pregiudizi, ispirato a un ideale democratico di cultura partecipata. Ora, invece, le preferenze di linguaggio si spostano verso le forme dell’invettiva feroce, del j’accuse senza appello. La pagina continua bensì a esibire un profluvio di dati e puntuali riferimenti ai fatti esaminati, ma li trapianta in una scrittura assertiva e vaticinante che si indirizza anzitutto all’emotività del lettore, reclamando da parte sua un’adesione incondizionata agli anatemi di condanna.
L’ambiguità del messaggio non può passare sotto silenzio. Da una parte, il pubblico è invitato a sentirsi parte di quella élite intellettuale e anticonformista, depositaria dei criteri di verità ignorati dall’opinione pubblica omologata al pensiero unico. Dall’altra, è costretto ad accettare un’interpretazione della storia improntata a un pessimismo antropologico senza scampo che proprio in Annus Horribilis sfocia in una perentoria e definitiva dichiarazione di fallimento: «Questi sono a nostro parere i giorni peggiori della nostra vita, quelli per cui possiamo mestamente pensare di averla vissuta invano».
Le ragioni di tanta disperazione parrebbero rintracciabili nel riapparire dei fantasmi del passato che le derive del dopostoria hanno trascinato con sé: la «violenza arcaica», «la voglia di sangue e di ferocia», «i gruppi neofascisti […] che si vedono allo stadio […] che sono contro l’Islam e la Turchia in Europa, contro i rom e i diritti dei gay […] che compiono atti vandalici contro monumenti o sedi antifasciste». Ma la critica della regressione contemporanea tende di continuo a trascolorare in una critica dell’animale uomo, finendo col ricondurre le vere cause dei mali della storia alle imperfezioni della nostra costituzione biopsichica: anzitutto l’avidità e la paura. Accanto ai responsabili diretti del degrado attuale, dietro il banco degli imputanti siamo così chiamati tutti «noi uomini, che non abbiamo ancora imparato l’arte di vivere e di dominare le nostre angosce infantili», a cominciare dall’angoscia primaria suscitata da «quella fregatura delle fregature della creazione che è la morte, così incomprensibile che abbiamo dovuto inventare i miti della resurrezione e della reincarnazione».
Ecco allora l’autentico demone che s’annida dietro il dramma della crisi economico-finanziaria che l’ideologia del benessere pretendeva d’aver debellato per sempre: l’«incertezza del vivere». Se la crisi ha fatto traballare le certezze del neoliberismo cui s’è affidata l’opinione pubblica palesandone il carattere illusorio è perché ha costretto tutti a «provare sulla propria pelle che non siamo padroni della nostra vita, dei nostri destini, dei nostri comodi, che siamo ancora come nel tempo antico, come sempre, in balia delle tempeste e delle dieci piaghe che un dio crudele può mandare quando vuole sulla Terra».
Ma per Bocca neppure questo barlume di coscienza è in grado di prospettare una possibile fuoriuscita dall’inferno contemporaneo. Il suo scetticismo apocalittico non ammette empiti di speranza. Nessun nuovo Risorgimento si profila all’orizzonte. L’«ineluttabile slittamento verso il passato» è irrevocabile, perché il dopostoria si colloca al di fuori del divenire, in un regno senza fine condannato a far da teatro all’eterno ritorno dell’eguale.