App di libri: da punta avanzata della sperimentazione a nicchia di mercato?

In un panorama digitale in forte crescita le App di libri segnano una battuta d’arresto dopo i primi entusiasmi, scontando senz’altro una tecnologia non ancora pienamente sviluppata, la parcellizzazione dell’offerta e un mercato agli albori. Ma forse le cause sono più profonde e le App di libri potrebbero essere destinate a rimanere ai margini del trade: altri sono i tipi di Application che hanno decisamente già preso il volo, primi fra tutti i videogame… e c’è chi afferma che saranno proprio loro i romanzi popolari del futuro.
 
Scoprire, puntando la fotocamera del telefonino verso il cielo, disegni e nomi delle costellazioni o calcolare le calorie di uno stuzzichino posizionandola davanti al codice a barre della confezione, far spuntare fiori nella favola animata che si sta leggendo, là dove il dito si appoggia sullo schermo dell’iPad, oppure, sempre attraverso un semplice tocco, scomporre grafici a barre complessi nelle loro componenti più semplici, e, naturalmente, giocare a migliaia di videogame ovunque ci si trovi: tutto questo, e molto di più, grazie alle App – «per il lavoro, il gioco e tutti i quant’altro. È incredibile quante cose ti permettono di fare» recita l’App Store di Apple nella presentazione del negozio. Ma proprio questa grande varietà, a dire il vero, finisce per sommergere il particolare genere di e-book costituito dalle App di libri in un mare di prodotti diversissimi, videogiochi in primis.
Quando diciamo «e-book» possiamo infatti voler significare tre cose: un libro digitale sostanzialmente identico al suo omologo cartaceo, che potremmo chiamare e-book-fotocopia, il cui formato standard più invalso si può ormai considerare l’ePub; un enhanced book (letteralmente: libro arricchito, migliorato), ossia un testo multimediale, il cui formato è un ePub più evoluto; o infine una book-App, un’App di libri, vale a dire un software nativo, compilato appositamente per il sistema operativo supportato dagli adeguati dispositivi di lettura, un prodotto multimediale scritto – informaticamente – ex novo. Ma le differenze non sono finite perché queste tre tipologie di libri digitali si distinguono fra loro anche per luogo di vendita e, appunto, per dispositivi di lettura, così compriamo e-book-fotocopia ed enhanced book in uno dei tanti negozi digitali disponibili on line, mentre possiamo acquistare un’App solamente sull’App Store di Apple o nell’Android Market di Google; e se per leggere il primo basta uno dei tanti e-reader in commercio (il più venduto dei quali è di gran lunga il Kindle di Amazon), per poter leggere gli altri occorre invece per forza disporre di un tablet (in sostanza, almeno fino al novembre 2011, l’iPad) o – in modo assai meno confortevole e solo in alcuni casi – di smartphone.
Al di là di questa situazione ancora un po’ confusa, guardando complessivamente al comparto dell’editoria digitale libraria, non c’è dubbio che essa stia vivendo un momento di grandissima espansione. I dati si rincorrono: in Usa dal 2008 al 2010 si è passati dallo 0,6% della quota di mercato di tutto il trade al 5,6% nel 2010 fino a una quota del 20% per il 2011 – anno che ha visto il sorpasso nelle vendite dell’editoria cartacea trade, paperback e hardcover (report di aprile della AAP, Association of American Publishers, ma già a marzo il «New York Times» aveva indicativamente cominciato ad affiancare alla classifica dei libri bestseller anche quella degli e-book più venduti); nel Regno Unito la crescita pare ancora maggiore perché in soli due anni la quota degli e-book, senz’altro giovandosi del retroterra americano, ha già raggiunto il 10%. Per quanto riguarda l’Italia le cifre, certo, sono ancora decimali: all’ultima Fiera di Francoforte, il presidente dell’Aie Marco Polillo ha parlato per il 2010 di una quota dello 0,04%, ma si badi che essa si è già triplicata a fine 2011, mentre si sono più che decuplicati i titoli di e-book (19mila a fronte dei 1.600 del gennaio 2010). Se non sono più in molti a credere – come pronosticato a luglio dalla società di consulenza A.T. Kearney in uno studio condotto per BookRepublic (negozio che vende libri elettronici per più di 300 editori) – che l’editoria digitale possa raggiungere l’I% del fatturato tradizionale entro l’inizio del 2012, tuttavia gli operatori sono concordi nell’individuare proprio in quest’anno il momento decisivo per il boom, quando cioè si potranno apprezzare gli effetti dell’ingresso nel nostro mercato (Natale 2011) dei negozi on line dei principali soggetti della scena internazionale – Amazon, Apple, Google.
All’interno di questa crescita dell’editoria libraria digitale, però, se torniamo alle App – ossia, a ben vedere, ai prodotti più multimediali e interattivi – ci accorgiamo che esse sembrano essere rimaste indietro. Apparentemente, un paradosso.
«A muoversi meglio per il momento sono state le App seriali, per esempio quella di “Diabolik”» ci dice Sandra Furlan, responsabile Sviluppo web libri trade Mondadori (forse l’unico editore ad aver creato un laboratorio e-book all’interno della casa editrice, anziché affidarsi a uno studio esterno) «per il resto anche i titoli migliori si attestano sulle 1.000-1.500 copie dall’uscita. Se ci limitiamo a guardare i dati di vendita in assoluto, la più venduta delle nostre App di trade, Aléxandros di Valerio Massimo Manfredi, ha avuto risultati non troppo inferiori al nostro e-book bestseller, La caduta dei giganti di Ken Follett. La differenza sta nelle rispettive potenzialità di vendita nel prossimo futuro. Prima di tutto» prosegue «perché le App si leggono sostanzialmente su iPad, che da noi non è poi così diffuso (le ultime stime ufficiali – precedenti al Natale 2011 – li attestano attorno al mezzo milione in Italia, su 37 milioni nel mondo).» Anche entrando però nell’App Store americano – operazione peraltro non così agevole, perché Apple tiene gli store nazionali impermeabili per il navigante gli uni agli altri, sicché per accedervi occorre avere una carta di credito e un account del paese in questione –, dove il mercato digitale è sviluppatissimo e la percentuale dei possessori di tablet assai maggiore, ci accorgiamo immediatamente che la situazione non è molto differente dal negozio italiano. I titoli librari di App sono per i due terzi circa gli stessi e soprattutto, oltreoceano come da noi, si tratta per la stragrande maggioranza di fumetti e libri per ragazzi (entrambi hanno un linguaggio simile a quello dei videogame e traggono dal digitale un gran risparmio sulla stampa delle illustrazioni), a seguire opere di reference e molte Bibbie (tanto che nel 2010 è stata un’App, la Glo Bible, ad aggiudicarsi il titolo di Libro Cristiano dell’anno, il Christian Book Award assegnato dall’Associazione editori cristiano evangelici).
Uno dei maggiori problemi intorno a un’offerta più articolata di App librarie risiede evidentemente negli elevati costi di sviluppo per l’editore. Oltre al pagamento dei diritti per la riproduzione dei contenuti extra, incide pesantemente infatti il costo del software – laddove invece il prezzo alla vendita, subendo la concorrenza dei videogame, tende necessariamente al ribasso («di fatto non sono stati accettati, se non in casi eccezionali, prezzi superiori ai 3 euro» dichiara Furlan). «Al momento» ci spiega Omar Bozzini responsabile Progettazione e sviluppo digitai development libri trade Mondadori «tutte le App sono state realizzate da programmatori perché il linguaggio per il loro sviluppo è ancora estremamente complesso. Quando i software saranno finalmente alla portata dei non programmatori, allora si potrà ovviare alla scrittura del codice e quindi evitare di ricorrere necessariamente a sviluppatori. Per come la vedo io, nella quasi totalità delle App in circolazione si avverte la mano del programmatore che, priva dell’esperienza dell’editore, dà vita a prodotti freddi, senz’anima…»
Se dunque l’offerta è ancora piuttosto rudimentale, c’è da chiedersi quale sia lo stato della domanda, e l’impressione netta, considerati anche il canale di vendita e lo strumento di lettura entrambi non dedicati alla specificità del prodotto libro –, è che gli acquirenti di e-book siano in maggioranza tutt’altro che lettori forti. «Gli utenti di questo mondo comprano App di ogni tipo» ci spiega il professor Gino Roncaglia, docente di Informatica applicata alle discipline umanistiche e di Applicazioni della multimedialità alla trasmissione delle conoscenze presso l’Università degli Studi della Tuscia «ma prevalentemente non di libri, e hanno comportamenti affatto diversi dai possessori di Kindle, che da lettori forti tendono ad accumulare titoli su titoli». Pare infatti ormai assodato che l’utilizzo degli e-reader aumenti sensibilmente il fenomeno dell’acquisto d’impulso: «abbiamo verificato che lettori già forti» ha dichiarato Diego Piacentini, vicepresidente senior di Amazon responsabile dello sviluppo internazionale dell’azienda per tutti i mercati extra Usa, nel corso di un suo intervento all’Università Bocconi «da quando hanno il Kindle, scaricano fino al 300% di titoli in più». Certo, qualcosa potrebbe significativamente cambiare con l’ingresso sulle scene di Kindle Fire, il tablet lanciato da Amazon lo scorso ottobre, sia per il prezzo più che concorrenziale (secondo la stessa strategia utilizzata per l’e-reader), sia per tutto ciò che il marchio Amazon rappresenta ormai per i lettori – come sintetizzato da Roncaglia nel suo La quarta rivoluzione a proposito del successo del Kindle, «Amazon non è semplicemente un negozio on line di libri: è uno dei principali protagonisti della svolta rappresentata dal collaborative filtering, il filtraggio collaborativo dei contenuti [il sistema attraverso il quale, per esempio, Amazon ci suggerisce i titoli per noi più interessanti, sulla base dei nostri precedenti comportamenti d’acquisto e di navigazione all’interno della sua libreria o di quelli degli acquirenti con gusti simili ai nostri]», sicché il Kindle «non è percepito solo come un lettore per e-book, ma anche come un canale per restare sempre connesso, nella selezione dei testi e nella loro lettura, alla casa madre».
«Al momento il tema delle App è molto interessante a livello teorico» sostiene Furlan «così come nell’ambito della ricerca e dello sviluppo: la situazione attuale è in sostanza una situazione di non mercato, gli editori, chi più chi meno – e sempre meno a mio parere –, continuano a fare sperimentazioni, ma non tanto per affrontare un mercato di vendite, quanto appunto per sperimentare nuovi tool da inserire nel futuro nel mercato editoriale. Non c’è stata una vera risposta di pubblico a riguardo, e personalmente mi resta il dubbio che questo tipo di prodotti ipertestuali possano avere un reale interesse per il lettore.»
Sempre rimanendo nel campo degli ipertesti multimediali, anche gli enhanced book non se la passano in effetti meglio: «nell’iBookStore Usa hanno cominciato recentemente a vendere enhanced book a 2-3 euro in più rispetto all’e-book-fotocopia, ma al momento i risultati non sono granché soddisfacenti» conclude Furlan. Del resto, nemmeno in questo campo le novità americane sono poi molte per il comparto fiction e non fiction trade, e da noi il primo editore italiano a mettere sul mercato questo tipo di libri digitali, Newton Compton, dopo aver annunciato che avrebbe commercializzato 70 titoli all’inizio del 2011, alla fine dell’anno ne conta in catalogo poco più di 50 (cifra molto vicina a quella di partenza, nel Natale 2010).
«A mio avviso» ci dice Roncaglia «gli ipertesti non lineari sono adatti quando abbiamo una lettura funzionale alle scelte», per esempio nelle guide turistiche e nelle opere di reference, nella manualistica didattica, e anche nella varia e nell’educational, ma non per la fiction o per la saggistica divulgativa. In questo senso è quantomai indicativo, ci sembra, che la quasi neonata società Push Pop Press, venuta alla ribalta per aver creato quella che è l’App finora certamente più conosciuta, Our Choice di Al Gore, cesserà di produrre App di libri. La società è stata infatti acquistata lo scorso agosto da Facebook, non per un suo interesse nei confronti dell’editoria digitale (così secondo la dichiarazione ufficiale di Palo Alto), quanto per utilizzare quelle competenze e abilità nella ricerca verso «nuove forme di interazione con gli utenti» – per l’interfaccia, insomma.
Il dubbio se invece una fiction non lineare e «multipla», come quella teorizzata da Henry Jenkins, potrebbe fiorire grazie alla Millennial Generation – ossia a coloro che, nati dopo il 1993 (anno in cui vennero creati i protocolli www, http e html), hanno sviluppato comportamenti di apprendimento tipicamente non lineari – viene immediatamente spento dal professor Paolo Ferri, professore di Teoria e tecnica dei nuovi media, in Italia uno dei principali studiosi dei cosiddetti nativi digitali: «Dalla fine degli anni ottanta a oggi, tutti i tentativi di narrativa ipermediale sono falliti, disattendendo il patto costitutivo implicito alla base della narrativa: un narratore che racconta una storia a un lettore. Per quanto mi riguarda, avremo senz’altro per la fiction una transizione di supporto dalla carta al digitale, ma non un successo di massa degli ipertesti… in questo senso credo piuttosto che i videogiochi (il cui mercato ha da tempo superato quello editoriale) potrebbero diventare nel futuro il nuovo romanzo popolare. Un po’ diverso rispetto alla fiction» puntualizza poi Ferri «il discorso per l’infanzia (dove l’elemento ludico-esperienziale ha un valore maggiore) e radicalmente diverso per la scolastica e l’università, e per gli illustrati: per l’educational e l’edutainment si aprono spazi molto ampi. L’offerta di questo tipo di mercato è destinata senza dubbio a diventare analogica e digitale, prima, e poi sostanzialmente digitale (digitale di lettura in unione a digitale interattivo)». Pur in accordo con questa visione, anche in questo campo Roncaglia non prevede una grande crescita delle App: «Non credo granché nel futuro delle App di libri, perché come soluzione non sono l’ideale. Presentandosi come tante monadi, ciascuna in sé conclusa e autosufficiente, non offrono la possibilità di creare una biblioteca trasversale. Se pensiamo all’ePub 3, esso permette già di creare un testo multimediale, pur restando nell’ambito di uno standard condiviso: in questo modo, un editore può pubblicare un enhanced book e un altro soggetto può vendere un servizio legato a quello stesso titolo». Per l’altro verso, si potrebbe aggiungere, anche dal punto di vista del lettore, trovarsi di fronte a un oggetto ogni volta diverso, con modalità d’uso variabili, potrebbe essere percepito più come un ostacolo che come un’opportunità. Eppure per prodotti dallo standard qualitativo molto alto le book-App – con la loro maggiore duttilità e interattività – potrebbero ritagliarsi un proprio spazio nel mercato. Ne è convinto Claudio Somazzi, cofondatore di Applix – società nata nel 2009 per la realizzazione di Applicazioni immersine book native, fra le quali Virtual History: Roma, l’unica App italiana citata fra dieci da Steve Jobs nel discorso di varo dell’iPad «L’aspetto più interessante di questi prodotti è che sono globali e plurigenerazionali, adattissimi all’educational, piacciono al bambino italiano così come allo studente universitario americano: in questo modo i possibili utenti dell’editoria libraria tradizionale aumentano esponenzialmente».
Molte delle App realizzate finora – sia detto en passant, ma nemmeno poi troppo – non sono state realizzate dall’editoria libraria tradizionale, e la preoccupazione per i nuovi soggetti imprenditoriali è grande fra molti editori: «L’apertura al digitale» continua Ferri «implica investimenti tali da portare verso economie di scala più grandi, giocate da player molto più strutturati o integrati: assisteremo quindi a fenomeni di acquisizione e ulteriore concentrazione (i piccoli editori o i nuovi piccoli soggetti che stanno emergendo sono destinati a essere assorbiti, o ne verranno assorbite le competenze), vedremo alleanze fra grandi gruppi e player dell’lCT Web [Tecnologie dell’informazione e della Comunicazione], colossi come Google e Amazon».
Per concludere, nonostante le diverse interpretazioni del fenomeno, tutti sono d’accordo su un punto: siamo all’alba della quarta rivoluzione – che è una rivoluzione, come giustamente ci ricorda Frédéric Martel, globale e digitale assieme, dove però, come ha aggiunto nella sua lectio magistralis dello scorso maggio a Milano, «sono i giovani, non gli adulti, a detenere il sapere». Il che, a pensarci, ha qualche implicazione…