Le peripezie del Salone di Torino

Nel 2012 il Salone del Libro festeggia 25 anni. Nato per l’iniziativa di due privati, si è affermato rapidamente come consuntivo periodico dell’editoria italiana e come fenomeno culturale, imitato da festival e altre manifestazioni. Dalla fine degli anni novanta, con una nuova gestione, accentua le sue finalità di pubblico servizio e oggi, di fronte ai mercati globali, affronta la sfida puntando sull’incontro tra pubblico e qualità.
 
«Una mattina vidi che l’ultima pagina del quotidiano era occupata interamente dalla pubblicità del primo Salone del Libro. […] Forse avrei potuto conoscere qualche scrittore. Uno a cui andasse di leggere i miei racconti». Così il torinese Giuseppe Culicchia ricordava, al suo esordio di romanziere, il primo Salone del Libro, che aveva scosso la sonnacchiosa città sabauda, già capitale dell’industrializzazione e decisamente avviata, come il resto dell’economia italiana, verso una più fluida economia di terziario. Emblema della mutata identità cittadina, la rifunzionalizzazione del Lingotto: un tempo fabbrica modello per la motorizzazione di massa, diventa, con l’intervento di Renzo Piano, officina della produzione immateriale. Eventi, contatti e relazioni, contenuti e idee hanno sostituito lamiere e motori.
Alla sua nascita nel 1988, però, il Salone non ha ancora la sede al Lingotto, dove invece celebra oggi, nel 2012, il venticinquesimo anniversario, con un tema significativo: i «nuovi linguaggi». Attualmente consolidato appuntamento dell’anno editoriale, e polo d’attrazione per centinaia di migliaia di visitatori, il Salone si è infatti tenuto, per i primi quattro anni, nei suggestivi spazi di Torino Esposizioni, di Pier Luigi Nervi. La paternità del Salone, dal punto di vista concettuale, va attribuita ad Angelo Pezzana, attivista politico, fondatore del Fuori negli anni settanta ma, soprattutto, libraio di lungo corso. Profondo conoscitore del mercato, e non solo nazionale, ben prima del 1988 Pezzana aveva lamentato l’atipicità della situazione italiana dove, alla pur vivace attività editoriale, non si accompagnava, in controtendenza rispetto al resto del mondo (e non solo a Francoforte), una fiera-mercato veramente degna di rilievo nazionale. Consigliere regionale per una lista d’opposizione, Pezzana si rivolge allora, nel 1987, a Torino Esposizioni, proponendosi di rimediare alla vistosa carenza: forte del proprio ruolo istituzionale e convinto del valore anche culturale della sua idea, Pezzana trova un interlocutore attento nel presidente Carlo G. Bertolotti, che accoglie l’idea, e la incoraggia con lo stanziamento di cento milioni di lire. Il progetto suscita anche l’attenzione, tra gli altri, di Giorgio Calcagno, all’epoca direttore dell’inserto librario del quotidiano «la Stampa», il prestigioso «Tuttolibri».
Insomma il concetto piace a molti, ma restano da convincere i più scettici che, ricorda Pezzana, erano proprio gli editori, e per molteplici ragioni. In primis, suscitava forti dubbi la formula della fiera aperta al pubblico, che si supponeva nel complesso poco interessato: l’illustre precedente di Francoforte, infatti, funzionava sostanzialmente come fiera per gli addetti ai lavori (autori, editori e agenti, librai e bibliotecari), e riservava uno spazio molto ridotto al pubblico. La sede torinese, inoltre, appariva troppo decentrata rispetto al vero fulcro del mercato librario, collocato a Milano, sede delle maggiori case editrici nazionali: la discussione sulla sede dà esca, fin dagli esordi del Salone, a una vivace polemica tra Torino e Milano, che rivendicano – e con particolare animosità tra la fine degli anni novanta e le prime edizioni del Duemila – il diritto esclusivo di ospitare l’evento. Last, but not least, dice Pezzana, gli editori non vedevano in che modo una merce come il libro, tutto sommato poco frequentata dai consumatori italiani, potesse attrarre un numero di visitatori paganti sufficiente a ripagare, in termini di vendite, lo sforzo economico e organizzativo dell’allestimento di uno stand per quattro o cinque giorni.
Editori diffidenti, dunque. Ma proprio da avvenimenti nel mondo editoriale arriva, all’ideatore, un suggerimento risolutivo.
In quegli anni lo storico editore torinese, Einaudi, era in difficoltà, e la casa editrice era stata rilevata, per una consistente quota, da Guido Accornero. Accornero era un noto commercialista torinese: nell’entusiasmo speculativo degli anni ottanta, si era lanciato in una serie di acquisizioni e risanamenti industriali che l’avevano rapidamente portato, come astro di prima grandezza, a brillare nel firmamento finanziario italiano. L’acquisizione del 33% della Einaudi, da parte di quello che sembrava solo un intelligente speculatore, convince allora Pezzana che Accornero non è mosso da interessi squisitamente economici: lo specifico valore culturale del catalogo Einaudi, infatti, sembrava difficilmente reinvestibile per soli fini di profitto. Dunque Accornero – che nell’88 diventerà vicepresidente dell’Einaudi – sembra il finanziatore più adatto per il progetto del Salone, di cui si fa carico, in effetti, con entusiasmo.
Si stabilisce così tra i due fondatori una collaborativa divisione dei compiti: se il libraio Pezzana si occupa degli aspetti culturali dell’impresa, e di conferire al nuovo Salone del Libro una sua specificità che lo distingua dagli altri colleghi europei, il finanziere Accornero, che ha solidi contatti con il mondo delle banche e dell’impresa, e con le istituzioni pubbliche, mette insieme una macchina finanziaria e organizzativa che decreta il successo dell’iniziativa. La quale fin nel nome, che nobilita la mercantile fiera in un più raffinato e colto salone, si colloca in una posizione eccentrica rispetto alle formule già frequentate fuori d’Italia: l’apertura al pubblico pagante, infatti, implicava la necessità di un appeal non esclusivamente commerciale, ma anche e soprattutto culturale, di avvenimento, secondo una formula che resiste fino a oggi, e che è stata il prototipo dei tanti festival che, da Mantova a Pordenone, animano il turismo culturale nella penisola. Se infatti da un lato il Salone si caratterizzava, per gli addetti ai lavori, come un luogo di incontro e confronto tra operatori, e di discussione, in convegni e dibattiti, dei problemi più tecnici della produzione, della distribuzione e della commercializzazione del libro, dall’altro il grande pubblico veniva richiamato dalla presenza di personalità di spicco del mondo culturale – premi Nobel, autori celebrati, figure del mondo della cultura, del giornalismo, dello spettacolo – nonché dall’opportunità di visionare, nei diversi stand affittati dagli editori, i cataloghi nella loro pressoché completa interezza. Specialmente quest’ultima opportunità costituiva – e continua a essere, nonostante Internet – un’occasione unica sia per i lettori forti, che possono visionare, raccolto in un unico luogo, un rifornimento sterminato di titoli, impensabile anche nella più grande libreria cittadina (dove i titoli sono, giocoforza, selezionati e volatili), sia per i lettori più deboli o i non lettori, che possono avvicinarsi al prodotto libro nel contesto desacralizzato e festoso di una manifestazione per il pubblico e, visti i numeri sempre crescenti, di massa. Il prestigio degli ospiti internazionali, invitati di volta in volta, getta le basi del progetto di internazionalizzazione del Salone, che verrà formalizzato con la presenza fissa di un paese straniero e, dal 2002, nella denominazione ufficiale di Fiera internazionale del Libro.
Per circa dieci anni, dunque, con il coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni, dell’Unione Industriale, di gruppi bancari importanti, di Torino Esposizioni, il Salone del Libro, cui si è affiancato dal 1996 il Salone della Musica, resta però sostanzialmente retto da una gestione privata. Dal 1994 l’amministrazione dei Saloni fa capo a PROSA, acronimo di Pro-Saloni, una società consortile a responsabilità limitata, fondata e amministrata da Accornero: la PROSA sarà al centro, alla fine degli anni novanta, di un’inchiesta della magistratura, sul suo uso del denaro pubblico.
Siamo così tra il 1997 e il 1998: anni cruciali per la nostra impresa, nei quali, sull’onda del sisma politico e finanziario che scuote l’Italia dopo il ’92, anche il Salone subisce una vigorosa ristrutturazione. Angelo Pezzana, rievocando gli ultimi anni del Salone suo e di Accornero, ricorda l’importanza e le dimensioni della loro creatura, che aveva assunto un valore tale da sollecitare gli enti locali, fino a quel momento finanziatori esterni, a entrare direttamente nell’impresa. Sarebbe sostanzialmente questa la ragione dell’estromissione di Accornero, e del passaggio della gestione nelle mani di una Fondazione, costituita da Comune di Torino, Provincia di Torino, e Regione Piemonte. Accanto a ciò, però, l’impressione è che, nella ricollocazione degli equilibri economici e politici tra Prima e Seconda Repubblica, la riconfigurazione del Salone si spieghi anche nei termini di un passaggio di sfere d’influenza. Accornero, che aveva già ricevuto avvisi di garanzia per questioni legate alla sua attività di finanziere, viene ora attaccato dalla nuova destra regionale, con l’accusa di sfruttare il Salone attraverso un affitto esorbitante del marchio, di sua proprietà.
Una fibrillazione che coinvolge anche Bea Marin. La Marin aveva collaborato per anni al Salone, come consulente per l’organizzazione dei convegni professionali tra operatori: fondatrice e direttrice del periodico «La Rivisteria», Bea Marin era – ed è tuttora – ben nota negli ambienti editoriali come una degli esperti più competenti. Come tale, e per ricucire i rapporti con alcuni gruppi editoriali polemici verso la gestione Accornero, era stata chiamata a dirigere il Salone per l’edizione 1998, al posto di Paolo Verri che lasciava, per occuparsi del solo Salone della Musica. Di fronte ai buchi del bilancio (un miliardo di lire del 1998), Bea Marin aveva proposto – tra le altre cose – di sbarazzarsi del costoso logo di Armando Testa, e di sdoppiare il Salone tra Torino e Milano, per accrescere le file dei finanziatori con le amministrazioni lombarde, obbligando però contestualmente gli editori a partecipare a due edizioni di seguito, onde evitare le prevedibili fughe degli standisti verso Milano. Ma chi tocca i fili muore: la reazione allarmata della gestione torinese, che vede nella proposta di Bea Marin il cavallo di Troia dei milanesi, da sempre tesi allo scippo della manifestazione, viene, nel nervosismo generale, fraintesa e amplificata da alcuni organi d’informazione. Osteggiata per la sua proposta da Accornero, di simpatie socialiste, la Marin, cui non si possono imputare inclinazioni destrorse di sorta, viene presentata, dal «manifesto», come complice delle spinte espansive della nuova destra regionale che, a sua volta, vedeva in Accornero e nel Salone un baluardo del potere culturale della sinistra, da indebolire. Tra le polemiche politiche, e i buchi di bilancio, dunque, il 1998 è un anno formidabile: vede la mancata conferma di Accornero alla presidenza, le dimissioni di Bea Marin, e la decisione di affidare la gestione e l’organizzazione delle successive edizioni a una struttura pubblica, la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura, che si occupasse del rilancio del Salone, e che attualmente lo porta avanti come il suo più prestigioso progetto.
Struttura pubblica in quanto i soci fondatori sono il Comune di Torino, la Provincia di Torino e la Regione Piemonte: il sindaco e i due presidenti costituiscono l’Alto Comitato di Coordinamento, e fanno inoltre parte dell’Assemblea dei soci fondatori, nella quale, in un secondo tempo, verrà rappresentata anche l’Associazione italiana editori (Aie), tutt’ora presente. Il consiglio di amministrazione della Fondazione – recentemente ristrutturato nei numeri, ma non nella sostanza – nomina il direttore del Salone, chiamato nel 1999 Fiera del Libro per mancati accordi con la precedente amministrazione, detentrice del marchio originario. Riconfermato anche nel settembre 2011, dal 1998 l’incarico di direttore è ricoperto da Ernesto Ferrerò, al quale abbiamo chiesto di spiegarci i rapporti tra Fondazione e – solo da qualche anno possiamo chiamarlo nuovamente così – Salone.
Spiega dunque Ferrerò che la prima mansione della direzione del Salone è di fungere da «interfaccia sempre attiva con il mondo dell’editoria, nelle sue varie articolazioni. E una funzione di ascolto, di dialogo, di collaborazione. Da questo canale discendono l’elaborazione del programma degli eventi, la scelta del tema conduttore, la messa a punto e la gestione del palinsesto, nelle sue varie declinazioni organizzative. Attraverso questo dialogo continuo, che comincia con la ripresa di settembre, vengono identificati i libri e gli autori, pubblicati o di prossima pubblicazione, che possono rientrare nella programmazione degli eventi». I progetti iniziali, continua Ferrerò, vengono «sottoposti al consiglio di indirizzo della Fondazione, discussi, elaborati e infine presentati al consiglio d’amministrazione, che delibera in via definitiva». La peculiare presenza di un esponente degli editori nel consiglio di amministrazione, e lo strutturale coinvolgimento del mondo editoriale, tra direzione – in particolare Ferrerò, che dal mondo editoriale proviene – e amministrazione, evitano le derive burocraticistiche possibili in una gestione squisitamente politica.
L’intenzione, infatti, è quella di lavorare in una sinergia che possa produrre una manifestazione di alto livello, senza lasciar prevalere interessi particolaristici, e nell’esclusivo interesse – in ultima analisi – del pubblico: spiega il direttore che «il cartellone è composto di eventi (anche musicali e/o teatrali) organizzati e gestiti direttamente dal Salone, che si fa carico dei costi relativi; di altri organizzati in collaborazione con gli espositori (in pratica, delle coproduzioni i cui costi vengono condivisi) e altri ancora, accolti in palinsesto, ma gestiti direttamente dagli espositori, e dunque a loro carico». Nonostante le sue peripezie, dunque, la formula attuale del Salone continua a mantenere, nello spirito, il concetto dei fondatori, vivo ancora nelle parole di Ferrerò: «Non è vero che pubblico sia sinonimo di cattiva qualità: qui, una volta tanto, si è dimostrato il contrario».
Ma niente trionfalismi. Se infatti sembra condivisibile la sensazione della tenuta del Salone nei confronti di Internet, per molti versi concorrenziale, ma non ancora in grado di offrire ai lettori il gusto dell’avvenimento, più perplessità lascia il fronte dei finanziamenti. La «manutenzione del lettore», per usare una felice espressione di Ferrerò, passa anche attraverso la cassa: è vero che la Fondazione si avvale dell’esperta presidenza di Rolando Picchioni, e che il Salone è sostenuto da istituzioni e sponsor di prestigio, ma gli equilibri, in epoca di drastici tagli alla cultura e agli enti locali, e nella crisi economica che sembra strutturale, risultano sempre più delicati.
 
 
Si ringraziano, per la cortesia e la disponibilità: Ernesto Ferrerò, Bea Marin, Paolo Verri.