I “bei donnini” della Littizzetto

Il modello femminile proposto da Luciana Littizzetto nei suoi libri va verso una riappropriazione del principio di realtà nella rappresentazione della donna: contrapponendosi polemicamente alle adamine perbene” della linea Marchesa Colombi-sorelle Parodi, i “bei donnini” della Littizzetto espongono le proprie imperfezioni con schiettezza e umorismo; la determinazione con cui affrontano problemi e sconfitte del quotidiano è, anzi, un tratto distintivo. Nella relazione con il partner le protagoniste assumono un ruolo paritario e spregiudicato, consapevolmente rassegnate a convivere con i propri e gli altrui difetti.
 
Tanti anni fa il modello era quello, sobrio e didascalico, della benemerita Tu donna (1969), l’enciclopedia Fabbri per la donna «modernamente partecipe» della vita moderna; oggi, invece, è l’ego patinato di casa Rcs («Io donna») a riassumere in un pronome il diritto di lei all’autonomia a tutto campo: esistenziale, affettiva, professionale. Il passaggio dal vecchio “tu” un po’ Tarzan all’“io” libertario conosce sfumature infinite, e molteplici – ma di norma poco originali – sono le declinazioni pubblicistiche dell’istanza di emancipazione. Perdura ai giorni nostri il galateo à la Marchesa Colombi (La gente perbene, 1877), nella variante democratica delle sorelle Parodi, che hanno soppiantato il bon ton salottiero delle Sotis o Donne Letizie (Cristina), e promosso i surgelati a buona cucina (Benedetta). Le riviste pour elle, dal canto loro, sfornano fantasie occupazionali a base di art e fashion, per tacere dell’immaginifico startupper.
Un ritorno non alla caverna ma al principio di realtà è offerto – a lei e ai lui curiosi del mondo di lei – dai libri di Luciana Littizzetto, la quale, bisogna dirlo, non perde occasione di ricordare alle «damine perbene» là fuori che non sempre, anzi quasi mai, Sei perfetta e non lo sai (Cristina Parodi, Rizzoli 2014). Sa benissimo, la nostra Litti, che «rendersi incantevole è un lavoraccio», e che quando «si è soli sul cuore della terra trafitti da un raggio di sole, è subito… herpes» (Sola come un gambo di sedano).
Le disavventure quotidiane non le hanno comunque impedito di scalare le classifiche di vendita e, soprattutto, la scrivania di Fabio Fazio (Che tempo che fa), fono a sovvertire il cliché sessista per eccellenza: la segretaria preda indifesa del capufficio. Dal pulpito di Rai3 o, per meglio dire, semisdraiata sulla plancia di un Fazio che nulla più comanda, tutte le domeniche Luciana commenta «gli aspetti privati delle faccende pubbliche e quelli comuni delle nostre vite private» (Licergination). Per i fortunati che vivono sotto la Mole, l’appuntamento è anche in edicola: su «Torino-Sette», il magazine della «Stampa», la poliedrica Litti tiene al venerdì una rubrica tutta sua, Il pensiero debole. E dal 2001 pubblica per Mondadori, a cadenza più o meno biennale, volumetti che riassemblano, secondo una formula ormai consolidata, i testi scritti per giornali e tv: duecento pagine, una vaga scansione temporale (da Natale alle vacanze, dalla solitudine alla convivenza), pezzi brevi e intensamente umoristici.
Una siffatta disinvoltura mediatica, che vanta sortite pure in radio, su grande schermo e dvd (i Che Litti che Fazio del 2007 e del 2010), è resa possibile e credibile dalla coerenza ventennale, quasi da matrioska piemontese, delle maschere littizzettiane: la Lucianina alla corte di Fazio è la versione matura, evoluta e agguerrita – ma in fondo sempre un po’ “balenga” – delle Lolite, Ciao Ciciu e Minchia Sabbry che affollavano la periferia torinese degli esordi. «Dopo anni di sbattimenti, spettacoli nelle bettole e trasmissioni invedibili (in tutti i sensi)» spiega l’autrice nell’Intro della prima silloge mondadoriana «le cose sono cambiate. Le persone giuste si sono accorte finalmente di me e adesso moltissimi apprezzano il mio talento. Da imbecille a genio. Ma io non mi sento affatto cambiata.» Chi parla, scrive o recita, insomma, è sempre la solita “nana di Cit Turin”, che ogni tanto fa cinema e ogni tanto, come dice sua madre, fa tant cine, cioè fa storie, brontola e si arrabbia come tutti. La dote prodigiosa della “catarsi comica”, il diritto a commentare le pazzie del comportamento umano («adesso mi capitano le cose più strane, […] mi si chiede il parere su qualsiasi cosa», Sedano), le viene riconosciuto proprio in virtù del fatto che l’Italian star (così si presenta nell’appello a Bill Gates in La Jolanda furiosa) non dimentica mai di essere figlia di un lattaio, una ex “profila” di Lettere in scuole sgarrupate e, come ricordano Gino e Michele nella prefazione a Li amo bastardo! (Zelig Editore, 1998), un’artista che si è fatta le ossa nei teatrini di provincia.
Nulla di più lontano dall’altra nana dell’immaginario collettivo, la Carrie bassotta di Sex and thè City, che propone una “Walterschauung” (I dolori del giovane Walter) sì disinibita ma solida e concreta come il castello di Biancaneve: vive curando una rubrica settimanale, indossa scarpe Manolo Blahnik, perdona Mr Big dopo che lui l’ha abbandonata sull’altare. Questo per dire che non è necessario assistere al rito domenicale officiato da Fazio, per apprezzare la comicità lucianesca: i lettori danno credito alla voce narrante in forza di un confronto spontaneo con i modelli di femminilità desunti dai media. Tanto più che la scena televisiva tende forse a sbilanciare la satira della Littizzetto sul versante politico, a privilegiare lo sberleffo ai referenti parlamentari e pubblici del conservatorismo, nonché ai censori in agguato a viale Mazzini, quando in realtà la sua verve di opinion maker si esercita al meglio sulle piccole ipocrisie della vita quotidiana, slegate dalle contingenze polemiche. L’apostrofe irriguardosa al Potere L’Emineeeeems rivolto all’ormai quasi dimenticato Camillo Ruini) dura lo spazio di una stagione politica; un “pirla” al maschio di turno è buono invece per tutte le stagioni.
I Berlu(sconi), Gianfry (Fini), Mont(i) Blanc e Giò(vanardi) tratteggiati dalla penna di Litti sono figurine di contorno, già sbiadite dal tempo e schiacciate dal protagonismo dell’io che racconta, un io che non è sufficiente definire “donna”, perché rivendica l’appartenenza esclusiva a una sottocategoria tradizionalmente negletta, quella dei “bei donnini”: coloro che, pur avendo ricevuto in sorte un fisico da “cane volpino”, affrontano con spirito pugnace le difficoltà dell’esistenza.
Il bel donnino non nasconde ai donnini coetanei che «per gli uomini è diverso, perché con l’età guadagnano punti», mentre «noi donne più diventiamo vecchie e più diventiamo grasse»; niente lacrimucce, però: semmai, una pacata rassegnazione («siamo noi che baciamo i rospi e quelli diventano principi. Non il contrario, purtroppo», Sedano) e qualche sacrosanta ripicca. Alle Carle Bruni che lamentano infanzie da ranocchio o delusioni intellettuali per colpa di allupati corteggiatori, Luciana non perdona nulla: facile la vita, troppo facile per loro che sono «nate gnocche» o «nate ricche» o entrambe le cose (Madama Sbatterflay). Tuttavia il terreno della riscossa è un altro: quello dei rapporti con lui, il maschio che fu dominante e ora è socio alla pari di una partnership equilibrata, laica e, se sarà il caso, a tempo determinato («ti posso giurare che ti amerò più che posso, ma non per sempre», Sedano). Sta qui, nella proposta di un romanticismo serenamente anarchico ma non sovversivo, il contributo della Littizzetto al dibattito odierno sulle relazioni tra i sessi: «Io voglio rimanere una donna normale. Che non si fa mettere i piedi in testa ma sa tollerare. Invece adesso serpeggia tra il gentil sesso sta mania della rivincita. Vogliamo avere sempre ragione. […] Non essere felici» (Colcavolo).
Perché normalità si sposi finalmente con felicità bisogna rinnovare il concetto stesso di famiglia, estirpando alla radice un’ipocrisia propedeutica alle corna: l’istituto del matrimonio. Non più marito, il lui che sta con lei potrà allora assumere nuove diciture: scartate le etichette da tempo delle mele («ragazzo», «compagno»… di scuola) e le denominazioni volgari («il mio uomo lo usa solo Carmen Russo»), vetuste («compagno»… di partito) o ideologicamente incoerenti («fidanzato»), Litti ripiega sull’esterofilo boy (Colcavolo). Senonché nomina sunt consequentia rerum: boy evoca suggestioni peterpanesche («tu a volte ritorni bambino» cantava Arisa a Sanremo «ti stringo e ti tengo vicino»), fantasie regressive diffusissime in un’epoca come la nostra, in cui il ricambio generazionale procede a fatica. Nel nido di Luciana vige un matriarcato soft, rispettoso delle esigenze di un maschio bambolone. Se moglie è oggi «nome comune di cosa», e l’orologio biologico funziona sì e no («quando mi piglia il solito tramestio ormonale, mi ripeto la vecchia storia della signora di Viterbo che ha partorito a sessantatré anni», La principessa sul pisello), lei sarà materna nei confronti di lui, sarà una madre affettuosa ma all’occorrenza bella tosta, una «concubina-cuoca» che sbuffa, comprende e lascia correre… entro certi limiti. Non stupisce, quindi, che le silhouettes maschili siano caratterizzate da un infantilismo psichico disarmante: lui è un «piedone puzzone» («adora pastrugnarsi le estremità, dito per dito»), si fa comperare le mutande dalla mamma biologica («perché lei sa») e compatire da quella adottiva («Lu? Ho deciso. Mi compro un fucile ad aria compressa per sparare ai piccioni»), mangia solo schifezze («più sono luride e più gli piacciono», Rivergination), vive di PlayStation e di mali immaginari («i maschi hanno la solidità psicologica di un crème caramel», Walter), «fa brum brum» con la crosta della pizza (Principessa).
Inutile però attendere aristocratici pretendenti su destrieri immacolati. Nessun principe azzurro, spiega Litti, citofonerà al portone o posteggerà il cavallo bianco di lato al cassonetto (Principessa); «sappi che non ci sarà mai quello giusto, quello perfetto» (Walter). E per scacciare le paturnie, nel momento in cui ci si scopre «sconfinatamente single», non servono i fiori di Bach: basta osservare i «trogloditi» al seguito di mogli e fidanzate (Principessa). Ciò che conta, alla fine, è raggiungere un punto di equilibrio tra la ricerca del meno peggio («è la materia stessa del maschio, ad essere scadente», Walter) e la consapevolezza dei propri e altrui difetti. Questa è la morale che Luciana somministra ai «donnini ebeti», alle ingenue Shahrazàd che inseguono il primo Sultano capitato a tiro, per poi pentirsene amaramente (Principessa). Si tratta di figurine appena abbozzate, semplici nomi in trasferta dalle vignette della «Settimana enigmistica» (Linda, Elvira, Rosadele, Milly, Bice, Clotilde). Su tutte campeggia Molly, «la duchessa di Windsurf», l’amica masochista e grulla che «preferisce mal accompagnarsi piuttosto che stare da sola» (Colcavolo).
Lo spazio concesso ai cuori spezzati tende in realtà a restringersi di libro in libro, man mano che aumentano la risonanza mediatica della narratrice-protagonista e la sua naturale inclinazione a occupare il centro della scena, nonché il «rischio di usura insito in un repertorio fatalmente circoscritto» (Elisa Gambaro, tirature ’09). Così come sfuma in secondo piano l’altro comune denominatore dei primi titoli: la fenomenologia della noia, l’«uffa» delle domeniche passate alla Casa del Mobile (Col cavolo). Nessuna palinodia, sia chiaro, nessun dietrofront conformista: a imporre un cambio di rotta alla barchetta che «veleggia giuliva nel mare aperto del “per sempre”» (Principessa) è una forma di maternità surrogata, la decisione cioè di prendere due bambini in affido. Ne deriva un’assunzione di responsabilità che salvaguarda il rifiuto del matrimonio e la scelta di non avere figli (o l’impossibilità) da qualsiasi sospetto di individualismo edonistico, e che risulta immune dal narcisismo fuori tempo massimo delle gravidanze di «nonna Nanni» («Giannona [Nannini]? Ti ricordo solo che hai cinquantotto anni», Madama Sbatterflay).
Luciana e il suo «Godzilla» Davide si propongono come una coppia moderna e spregiudicata, ma tutt’altro che insensibile ai bisogni più o meno espliciti del consorzio civile di cui fanno parte. Ce lo conferma indirettamente, nella Jolanda furiosa, la presa di distanza dall’ipotesi di una copertura sanitaria nazionale per cani e gatti, simbolo delle nevrosi affettive di un Paese in stallo demografico, dove i Gatti castrati che vivono al massimo è il titolo di un seguitissimo gruppo facebook, e la propaganda politica si affida ai Gattini per Ovati’. «Io sono una cagnara accanita» scrive Litti «ma una mutua per le bestie mi sembra una follia».
Lonely at the top, Luciana non ci è arrivata: dopo anni passati a controllare se il «principe era azzurro o tendeva al verde rospo», ha raggiunto sia la vetta del successo che un centro di gravità sentimentale. Con la complicità sorniona di Franca Valeri, «signorina perbene» di estrazione socioculturaltemporale antitetica, ha poi riassunto l’esperienza dei suddetti mille baci ai batraci in L’educazione delle fanciulle (Einaudi, 2011), un gustoso «inventario dei comportamenti tipici di maschi e femmine», osservati da prospettive che più diverse non si può. E l’opposizione, a ben vedere, è anche geografica: Franca – ci fa notare il risvolto di copertina – è nata a Milano ma vive a Roma, Litti rimane fedele alla natia Torino. Una città che s’incontra sui libri di scuola e sulle spiagge della Liguria, una piccola metropoli in crisi d’identità nell’Italia duemillesca: in altre parole, un’alternativa straniante al solito duopolio milanese e romano.
Alla fine di ottobre (2014), Luciana Littizzetto ha compiuto cinquant’anni: verrebbe da chiederle, citando un film di Aldo Giovanni e Giacomo, se sia felice. Ma crediamo di sì.