La ginestra di Magris

In un dibattito civile e politico rabbuiato dai preoccupanti rischi di eclissi dell’intellettuale, Claudio Magris eleva un messaggio che, senza naturalmente rinunciare alla critica, mostra nonostante tutto una fiducia umanistica nella perfettibilità dell’uomo e del mondo in cui vive. E ci conforta sul fatto che, come si dice nel dramma Le voci, «Forse c’è ancora qualche vera voce in giro, quel che conta è non arrendersi».
 
Non se la passano bene gli intellettuali. Anzitutto per ragioni di carattere ambientale, correlate all’odierno, ipertrofico sistema mediale in cui è difficile farsi sentire, figuriamoci ascoltare. Dall’estremizzazione della participatory culture (Henry Jenkins) è infatti scaturito un blob di messaggi in gran parte indistinti e perciò spesso insignificanti, un basso continuo in cui – anche per il grossolano equivoco fra ciò che è cultura e ciò che è espressione di una determinata cultura – le gerarchie dei valori sbiadiscono e possono fino invertirsi. Così è accaduto per il valore mediatico, che si è scisso da quello culturale e ha preso il sopravvento su di esso. Se ciò è in parte imputabile ai detentori del valore culturale, che raramente hanno saputo adeguare i loro vecchi linguaggi ai nuovi mezzi, non stupisce allora che gli intellettuali con maggiore presa sull’opinione pubblica siano quelli che spiccano, insieme e prima che per ciò che dicono, per la forma che utilizzano, perché breviloquente e arguta (Serra), comica (Crozza, Littizzetto), ironica e strafottente (Travaglio), trasgressiva (Busi), faunesca (Sgarbi) ecc. E quelli che restano tendono a occuparsi di valori astratti, a rimanere sul generico, a impegnarsi piuttosto nel dibattito etico che in quello politico e civile, chiudendo gli occhi davanti a un’eclissi colposa, che emargina e delegittima la cultura dalle forze politiche in gioco.
È in risposta a una sollecitazione superegoica che Claudio Magris si è cimentato nella saggistica e nel giornalismo (il suo primo articolo appare nel 1958 sul «Messaggero Veneto», mentre dal 1967 collabora in modo stabile con il «Corriere della Sera»). Se questi sono gli ambiti in cui può più schiettamente esplicarsi la militanza di intellettuale, essa in realtà circonfonde tutta la sua opera, robustamente intrisa di succhi etici e politico-civili.
Magris si è confrontato con diversi tipi di scrittura, che hanno delineato una fisionomia intellettuale tanto eterogenea nelle forme praticate – del romanzo, del saggio, dell’articolo giornalistico, della traduzione, dell’opera teatrale –, quanto coesa nei temi e coerente nelle categorie di pensiero impiegate. L’impressione di poliedricità organica e osmotica, spugnosa, che accompagna la lettura di Magris deriva certo dall’intertestualità tematica (anche se una stessa traccia, ricomparendo in più opere, viene sogguardata da angolazioni peculiari e declinata con diversi linguaggi), ma soprattutto da un’ostinata e partecipe tensione conoscitiva di fondo. Questo è, secondo la mia esperienza di lettura, il marchio più caratterizzante della pagina di Claudio Magris, ravvisabile tanto nei drammi teatrali e nei romanzi (esemplarmente, in Danubio) quanto negli articoli di giornale, come vedremo in modo più ravvicinato, e nei saggi; la raccolta L’anello di Clarisse è al proposito esemplare di un modello di critica letteraria coinvolgente, riscaldata dal dialogo e dal rapporto “personale” che lega il critico ai temi e agli autori studiati. La scrittura di Claudio Magris è intrinsecamente professorale: anche quando ci racconta qualcosa, non lo fa per il puro gusto di intrattenerci, ma piuttosto per farci capire qualcosa e forse per capirlo lui stesso. Parimenti, nelle sue opere letterarie più raffinate si impara e si riflette; ciò che appare straordinario è come il maestro riesca a tenersi ben alla larga da ogni boria omiletica e precettistica grazie a una sensibilità, che sentiamo empaticamente partecipata, al detto o raccontato.
Che intenda la letteratura come sforzo di comprensione e come tentativo di cambiare il mondo, Magris l’ha ammesso in diverse occasioni: da ultimo, nelle conversazioni con Mario Vargas Llosa, La letteratura è la mia vendetta, e con Gao Xingjian, Letteratura e ideologia, entrambi pubblicati nel 2012; insieme a numerosi suoi critici, ha allo stesso modo riconosciuto come a sé particolarmente congeniale il «genere intermedio», ovvero quel «narrare senza fare a meno delle idee» esemplarmente avveratosi nei vagabondaggi fisici e intellettuali, geografici e memoriali, che sono Danubio e, più in piccolo, Microcosmi. L’altra faccia di questo ibridismo, cioè quella del saggio che traborda nel romanzo, si coglieva d’altra parte già nel primo libro di Magris, quel Mito asburgico nella letteratura austriaca moderna tratto dalla sua tesi di laurea, in cui la severità di certi giudizi veniva addolcita dalla forma seducente e musicale della pagina, facendo intravedere una «vena semiclandestina di scrittore» (Ernestina Pellegrini).
A un «genere intermedio» possono essere ricondotte anche le pagine di giornale, dove al fatto di attualità, alla segnalazione libraria, alla contingenza politica Magris frammischia più ampie riflessioni etico-filosofiche o più minuti aneddoti personali. Come accennavamo, la scrittura giornalistica è quella che per l’intellettuale triestino meglio risponde a un imperativo etico di impegno di cittadinanza attiva. In Magris la consapevolezza di poter incidere nell’opinione pubblica, in virtù della sua autorevolezza e del potente altoparlante del «Corriere della Sera», non assume mai forme autoritarie: le ferme prese di posizione e i toni perentori non mancano, come è naturale che sia in una scrittura a caldo, reattiva, qual è quella giornalistica, ma vengono sempre argomentati. Gli snodi del ragionamento sono esplicitati grazie alle forme asseverate della doppia negazione (non può non, non è e non può essere) e al frequentissimo ricorso alla stringa non x, ma/bensì y, che prima sgombra il campo e poi afferma. Pure ricorrenti, e necessari alla chiarezza del ragionamento, sono il procedere dilemmatico e l’esplicitazione di tutti i distinguo del caso, anche a costo di un didascalismo poco giornalistico (per esempio: «Anzitutto, quando si parla di trasgressioni a scuola, occorre distinguere tra le ripugnanti violenze […] e quella giocosa in disciplina […]», Livelli di guardia). Questa decisa disposizione chiarificatrice, sintatticamente inarcata su di una misura media che però non rinuncia affatto all’ipotassi, sfocia volentieri nella vera e propria definizione di parole e concetti che possono venir ambiguamente intesi, quali per esempio tolleranza (implicante un’assunzione di superiorità da parte di chi tollera), ragione (diversa dalla «razionalità calcolante»), laicità e laico («Il termine “laico” non è un sinonimo di ateo o miscredente ma implica rispetto per gli altri e libertà da ogni idolatria. Laicità significa tolleranza, dubbio […]», Livelli di guardia). Per dirla con Magris, in un’epoca in cui «trionfa una sgrammaticatura linguistica, concettuale ed etica» è prioritario intendersi sui termini arginando l’«analfabetismo concettuale e morale» (La storia non è finita). Se in questo modo diventa difficile dissentire da Magris, d’altro canto l’autore torna a più riprese sull’irrazionalità del voler avere ragione a ogni costo e sui limiti della ragione stessa, soprattutto di quel «modello di ragione universale» (Dietro le parole) che sopprime o non tiene in debito conto valori diversi, cultural-specifici.
Già queste caratteristiche bastano a mostrare come la scrittura giornalistica di Claudio Magris sia pienamente comunicativa, tesa a centrare il punto senza divagazioni né concessioni estetico-letterarie. E una scrittura razionale o meglio, come forse preferirebbe Magris, ragionevole, tesa a comprendere ed esprimere un senso del mondo, ed eventualmente a giudicarlo. Al proposito l’autore cita, a sua volta traendoli da Ernesto Sabato, due diversi tipi di scrittura: quella diurna, più lucida e meditata, cui sono ascrivibili le pagine giornalistiche e saggistiche, e quella notturna, tipica dei testi romanzeschi e teatrali, che sgorga da un fondo istintivo, in parte subconscio, e che può trascinare lo scrittore indipendentemente dalla sua volontà (altre coppie oppositive chiamate in causa, con valore pressoché analogo, sono quella di scrittura apollinea vs dionisiaca e quella, ripresa da Wittgenstein, di scrittura della testa vs della mano).
Dalla lettura di un sostanzioso numero di articoli giornalistici, opportunamente valorizzati dalla ripubblicazione in volume da parte di Garzanti, risulta come Magris ponga sempre maggiore attenzione al lettore. A lui va incontro, con crescente frequenza, per mezzo di riformulazioni e di spiegazioni contestualizzanti, che invece in anni più addietro venivano tralasciate: per esempio la raccolta Dietro le parole (1978) è fitta di rinvii letterari, storici e filosofici che, solo episodicamente chiosati, fidano in un lettore supercolto.
Il ricorso intensivo alla citazione, che già Mengaldo considerava caratteristico del Magris saggista, rimane tale anche nella scrittura giornalistica. Le opere e gli autori citati sono disparati e numerosissimi, tanto che sarebbe qui impossibile rubricarli. Escludendo le citazioni di politici, giornalisti e scrittori occasionate dalle circostanze del giorno, fra i più menzionati, e limitandoci ai pezzi del nuovo millennio, possiamo arrischiarci a ricordare il Sofocle dell’Antigone, il Dante della Monarchia e della Commedia, Brecht, Ibsen, Tolstoj e Manzoni, i cui personaggi vengono chiamati in causa quali incarnazioni di universali comportamentali, come l’ottusità di don Ferrante o il delirio della virtù di donna Prassede. Nella fitta schiera di filosofi che hanno impregnato la cultura e le categorie interpretative di Magris (Bobbio, Croce, Erasmo, Herder, Kant, Moro, Nietzsche, Max Weber ecc.) spiccano i teologi (Karl Rahner, Ratzinger, Scola e molti altri) e frequentissime sono pure le citazioni bibliche: «le Scritture, e specialmente il Nuovo testamento, sono la chiave che più mi permette di capire la vita», ammette d’altronde Magris in una lettera aperta a monsignor Fisichella che lo invitava a non citare passi biblici (Livelli di guardia). Il citazionismo, se da un lato testimonia delle sterminate letture dell’autore, dall’altro, lasciato cadere sulla pagina con una certa nonchalance, non è esibito e presenta valore argomentativo, permettendo di poggiare ciò che viene detto sul credito degli auctores.
Risulta parimenti difficile dar conto di tutti i temi che pungolano Magris al «buon combattimento» paolino e che lo spronano a intervenire sulle pagine dei giornali. Mentre in anni addietro si cimentava per lo più in elzeviri e in segnalazioni librarie – soprattutto dei prediletti autori nordici, scandinavi e mitteleuropei, che ha contribuito a far conoscere in Italia –, più recentemente ha intensificato gli interventi su fatti di attualità (il bullismo e la violenza negli stadi, per esempio), di politica estera e interna (le guerre, la scuola privata, il matrimonio omosessuale, le intemperanze di Berlusconi), o quelli legati a questioni etiche e sociali (l’eutanasia, il perdono). Talune volte in modo esplicito, altre sottotraccia, si riaffacciano inoltre i temi “classici” di Magris: l’identità scissa dell’uomo moderno; la crisi del pensiero unico, che forniva un’immagine unitaria del mondo (già tema conduttore dei saggi raccolti nell’Anello di Clarisse); la Shoah; l’insofferenza verso i micronazionalismi; il tema del viaggio e delle frontiere, di vario genere; l’importanza e la difficoltà del dialogo; il possibile conflitto fra leggi positive e valori morali, ovvero le «non scritte leggi degli dèi» in nome delle quali Antigone sceglie la morte; la dialettica fra la pietosa comprensione e la necessità del giudizio, che possono entrare in contrapposizione e ostacolarsi a vicenda (questa era la sottotraccia del primo romanzo di Magris, Illazioni su una sciabola).
Lo spostamento dell’interesse tematico verso l’attualità agevola, sempre in prospettiva diacronica, una maggiore vivacità dei toni, ottenuta anche attraverso il ricorso alle prime persone grammaticali e all’aneddoto. Piuttosto pudico a proposito della propria vita affettiva, Magris deriva le schegge autobiografiche dalla sfera sociale e pubblica, semmai con una certa indulgenza verso sorrisi episodi scolastici o quadretti conviviali attraverso i quali egli esce dalla pagina e ci parla da vicino. Anche in questo caso l’aneddoto non è fine a se stesso, ma, sussunto sotto concetti di portata più estesa, svolge piuttosto, ancora, una funzione didattica e argomentativa.
La pressione dei fatti innalza l’espressività del dettato, specialmente nel comparto lessicale. Mentre il ricorso a un formulario colloquiale (cagnara, fare baracca “far confusione”, pizzicare “sorprendere”, infischiarsene ecc.) e alla coniazione neologica, ottenuta tramite suffissazione (liberaloide, radicaloide, sentimentaloide) e composizione (clima becero-giulivo, brutalità anarco-liberista, misticismo radical-rivoluzionario, assemblee politico-pulsionali), è riconducibile allo stile brillante tipico del giornalismo, una più individuante marca magrisiana può essere colta nell’aggettivazione perentoria, di segno negativo, incaricata di esprimere lo sdegno dell’autore nei confronti del raccontato. La schiera degli esempi è molto fitta (aberrante, abbietto, barbarico, becero, delirante, inaccettabile, indecente, inqualificabile, intollerabile, obbrobrioso, orrendo, fetido, ridicolo, turpe ecc.) e può abbassarsi ad alcuni blandi disfemismi (beota, ebete, idiota, imbecille, porco, stupido ecc.); alcuni di questi termini ricorrono con tale frequenza da divenire parole-testimoni dell’epoca che stiamo vivendo, come nei casi di Quel che più conta è che la severità di giudizio non cede mai ad arrendismi apocalittici o a vacue rampogne. L’intellettuale umanista, corroborato da energici innesti cattolici, esprime piena fiducia sulla migliorabilità dell’esistente e sulla praticabilità di valori che un’epoca di cieco pragmatismo e di perenne emergenza ha fatto passare in secondo piano, in aggiunta spesso sbeffeggiandoli. Claudio Magris sa bene che migliorabilità significa correzione infinita e non certo risoluzione: come sintetizzato nel binomio Utopia e disincanto, che dà il titolo a una sua raccolta di saggi, al primo termine, che deve dare la spinta all’agire, il secondo fornisce il senso del limite. Ma il messaggio è sempre e comunque di speranza, ostinata come quella ginestra abbarbicata alle pendici del vulcano.