Lo sdraiato e l’intellettuale in crisi

Michele Serra torna alla narrazione romanzesca e affronta la crisi della figura paterna nell’era del digitale. Il racconto delle difficoltà quotidiane nel rapporto padre-figlio non si limita però al frusto intreccio di scenate domestiche e ribellioni adolescenziali; l’incomunicabilità tra i due sembra andare molto oltre le semplici dinamiche intergenerazionali. Per descriverla, Serra alterna dettagli comico-grotteschi e riflessioni paterne; crucci e affondi ironici. Una voce ingombrante, quella del narratore, che lascia il dubbio che il libro, più che il mancato dialogo con il figlio, voglia indagare l’inquieta interiorità del padre.
 
Voce influente dell’opinione pubblica progressista da almeno cinque lustri, Michele Serra ha fin da subito affiancato alla presenza giornalistica, alla satira politica e poi al lavoro di autore televisivo un’attività di scrittura di indole più marcatamente letteraria: si ricordano a proposito alcune incursioni negli ambiti della versificazione ludica, con intenti di satira civile (Poetastro, 1993; Canzoni politiche, 2000) e due raccolte di racconti (Il nuovo che avanza, 1989; Cerimonie, 2002), tutti editi da Feltrinelli. A lambire la forma romanzesca, a sedici anni dalla prova di Ragazzo mucca (1997) Serra è tornato l’anno scorso con Gli sdraiati, sempre per Feltrinelli. A un anno dall’uscita l’opera ha venduto 320.000 copie, mentre tredici sono state le ristampe. Il sostanzioso gradimento dei lettori si è accompagnato all’interesse degli opinionisti e della colleganza giornalistica, che hanno gratificato il volume di attenzione sia sulla stampa periodica sia sul web.
Il tema, di per sé, si presenta intrigante e innegabilmente attuale: Serra si interroga sulla crisi dell’autorevolezza paterna, raccontando la distanza tra un padre e il figlio tardoadolescente all’epoca della rivoluzione digitale e dell’egemonia culturale postideologica. Da questo presupposto, saggistico in senso lato, scaturisce l’esilità narrativa dell’intreccio e la fisionomia composita dell’opera; merito dell’autore è aver saputo sfruttare questi aspetti a fini comunicativi, per rafforzare l’intonazione accattivante e la scorrevolezza della lettura.
Una prima felice invenzione riguarda la postura della voce narrante: a parlare è un padre, che presenta tratti fisiognomici sovrapponibili a quelli dell’autore reale Michele Serra, e che si rivolge direttamente a un tu filiale. La pagina è orchestrata così all’insegna di un’attitudine dialogica che poi il racconto stesso si incaricherà, come vedremo, di negare. Le parole su cui il libro si apre non potrebbero essere più rivelatrici a proposito: «Ma dove cazzo sei? Ti ho telefonato almeno quattro volte, ma non rispondi mai».
L’impianto complessivo della narrazione sembra parimenti deputato a facilitare il contatto con il lettore. Gli sdraiati è un testo breve, che non supera il centinaio di pagine, prestandosi a un consumo veloce; a snellire ulteriormente i processi di lettura provvede poi una struttura franta, scompartita in quattordici brevi capitoli numerati.
All’interno di questa compagine, si possono individuare tre livelli costruttivi, tra loro distinti: un primo livello, il più corposo, mette al centro il rapporto tra padre e figlio alla luce di una serie di episodi quotidiani e delle riflessioni che essi suscitano nell’io narrante. Veniamo così informati delle abitudini del ragazzo, dei suoi orari sballati, della sua patologica incuria per l’igiene e l’ordine dell’ambiente domestico, dei suoi amici, dell’abbigliamento, ma soprattutto e specialmente dei commenti e delle meditazioni paterne a riguardo.
Il secondo livello, che si intreccia al primo, è quasi un racconto nel racconto, ma assai meno riuscito e quasi posticcio: il narratore vagheggia di scrivere un poderoso romanzo epico-fantascientifico, in realtà umoristico-grottesco, intitolato La Grande Guerra Finale, incentrato su un futuro, sanguinoso conflitto tra Giovani e Vecchi, e ce ne offre qualche stralcio. Infine, il discorso è ulteriormente inframmezzato da inserti brevissimi, non numerati, dove il padre-narratore supplica il figlio di accompagnarlo alla scalata del Colle della Nasca, una passeggiata che egli usava compiere in gioventù. I reiterati inviti alla gita diventano così un tormentone comico, in un crescendo paradossale tutto giocato sulla sproporzione tra l’ordinarietà della faccenda in questione e i toni vieppiù accorati e iperbolici della preghiera: «Se non vieni con me al Colle della Nasca, sento che potrei morire di crepacuore».
La costruzione del discorso per segmenti eterogenei e il suo andamento episodico danno luogo a una modalità di scrittura vicina alla vena dell’autore: assai più a suo agio con la misura breve, di matrice giornalistica, e con le arguzie aforistiche della pratica satirica, rispetto alle volute aperte di una narrazione di vasto respiro.
D’altra parte, la studiata frammentazione del discorso risponde a evidenti ragioni di calibratura espressiva. L’autentica e costante cifra formale di Gli sdraiati è infatti l’iperbole, ed è noto che il suo uso protratto non tollera un discorso ampiamente articolato, pena la perdita di efficacia.
Volutamente iperbolica, o meglio apocalittica, è infatti la tesi su cui si regge l’intero libro.
Secondo Serra, la ferrea incomunicabilità quotidianamente sperimentata tra l’io narrante e il suo adorato figlio maschio esula dai fisiologici conflitti intergenerazionali e dalle ordinarie dinamiche psicosociali in seno all’istituzione familiare borghese. Chi legge, sembra suggerirci l’autore, non si aspetti dunque la solita, trita vicenda di scenate domestiche e ribellioni adolescenziali. Anche perché il ragazzo in questione non è affatto un ribelle, né a quanto siamo edotti noi lettori – manifesta nei confronti della figura paterna qualcosa di più di una sovrana indifferenza. E appunto uno sdraiato, tendenzialmente abulico e incurante delle minime regole di convivenza domestica, ermeticamente chiuso in una bolla inaccessibile, fatta di linguaggi, riti, pratiche del tutto incomprensibili e misteriosi agli occhi del suo scandalizzato e lamentoso genitore. La distanza tra padre e figlio è tanto assoluta da indurre addirittura il narratore a ipotizzare un «cambiamento dell’assetto neuronale» e «una separazione definitiva tra il passato e il futuro degli esseri umani».
Come raccontare allora la frustrante incapacità di stabilire qualsivoglia contatto pratico o emotivo, se la minima quotidianità familiare è vissuta come qualcosa di mostruosamente inedito, sconvolgente e “mutageno”, sia rispetto al movimento storico, sia rispetto all’esperienza umana di chi racconta? Ecco allora l’autore sfruttare la nota verve comica e grottesca nel tratteggiare situazioni ai limiti dell’inverosimiglianza, fitte di dettagli sì realistici, ma tanto caricaturalmente accentuati da muoverci al riso: «Calzini sporchi ovunque, a migliaia. A milioni. Appallottolati, in virtù del peso modesto e dell’ingombro limitato, non tutti per terra. Alcuni anche su ripiani e mensole, come palloncini che un gas misterioso ha fatto librare in ogni angolo di casa».
Si tratta di una tecnica per molti aspetti simile a quella già abbondantemente sperimentata da Serra in Breviario comico (2006, seconda edizione ampliata 2011), compendio di una fortunata rubrica su «l’Espresso», dove gli aspetti più vistosamente deteriori del costume sociopolitico nazionale erano tratteggiati con iperboli feroci.
In Gli sdraiati, tuttavia, l’autore allestisce un’operazione più articolata. Le tonalità screziate del comico tendono a prevalere quando si tratta di mettere a punto il ritratto del ragazzo, satireggiandone la biblica indolenza, l’inquietante simbiosi con i dispositivi tecnologici, la corporeità giovanile marcata da tatuaggi e pantaloni cascanti che paiono a chi scrive spassosamente antiestetici, per non dire destituiti di funzionalità alcuna.
L’affabulazione si fa invece più seriosa e riflessiva quando al centro della pagina si accampano le debordanti riflessioni paterne: ecco allora prevalere le note struggenti del rimpianto, del rovello esistenziale, del senso di colpa per quella che viene percepita come una fatale mancanza di autorevolezza virile nei confronti del figlio. Che questo sia un punto nevralgico del discorso lo apprendiamo d’altronde, ancora una volta, fin dalle prime pagine, quando alla telefonata andata a vuoto segue il compendio dell’angoscia del genitore: «una fragilità materna, non preventivata, rammollisce il mio aplomb virile».
La perdita di autorevolezza lamentata dall’io narrante deriva tuttavia da una certa qual nebulosità dei suoi stessi presupposti. A questa voce paterna, tanto pungente, spiritosa e spesso disinvoltamente forbita, è negata anzitutto l’attitudine all’ascolto: l’impianto dialogico del discorso cela in realtà una propensione pervicacemente monologante. Conosciamo ogni sfumatura dei giudizi e delle riflessioni del narratore, ma del figlio non ci giunge molto più che la caricatura esteriore: l’alternarsi del registro comico e di quello saggistico trova qui la sua origine. L’universo mentale del ragazzo è per postulato inaccessibile a chi scrive e a chi legge, dunque non resterà che sbeffeggiarne con umori agrodolci i bizzarri comportamenti. Al contrario, tutte le risorse dell’investigazione psicologica e sociologica sono dirette sull’inquieta interiorità paterna: è di lui, di questo «borghese di sinistra», come si autodefinisce, che il libro anzitutto ci parla, non di suo figlio.
Il cruccio attorno a cui il «dopopadre esitante» si arrovella non è dunque tanto l’incomunicabilità intergenerazionale, come sembrerebbe di primo acchito, bensì, prima ancora, la possibilità di trasmettere un patrimonio di valori: difficile non dedurne che a essere percepita come malferma è anzitutto l’identità intellettuale e sociale di chi narra. Oltre a lamentare la propria scarsa dimestichezza con l’assertività, e con il potere che da essa deriva, questo padre tormentato non può fare altro che appellarsi querulamente a assunti etici ed estetici che è poi il primo a mettere sottilmente e ironicamente in dubbio.
Ecco allora che l’insistenza con cui nel testo si presentano i riferimenti al godimento delle bellezze della natura, a cui gli adolescenti sdraiati sembrerebbero disperatamente sordi, appare nient’altro che la sublimazione di costumi sociali e dettami di gusto di cui si avverte con sgomento la perdita di funzione. Il ragazzo e i suoi amici se ne fregano di partecipare al rito della vendemmia nella tenuta dell’amica di famiglia nelle Langhe, la muta fidanzatina Pia rimane indifferente alla grandiosità del temporale sul Tirreno che si ammira dalla terrazza della casa al mare, il figlio stesso si mostra comprensibilmente recalcitrante all’idea di accompagnare il genitore a scarpinare sul Colle della Nasca. La passeggiata tanto ossessivamente evocata è del resto così importante perché simboleggia un rito di passaggio e di iniziazione all’universo adulto: il narratore vi ci era stato portato, manco a dirlo, dal proprio padre. Ora, di fronte alla generazione degli sdraiati, si sente davvero «l’ultimo anello di una catena che si è spezzata», appartenente postumo «all’ultima epoca in cui il conflitto tra Giovani e Vecchi avveniva sul medesimo campo di battaglia». Parimenti, non stupisce che il pensiero più “futile” ma al tempo stesso più “lacerante” che assilla l’angosciato genitore riguardi il più borghese dei vessilli, ovvero la proprietà privata domestica, qui rappresentata sotto le trasparenti spoglie dei vasi di portulache che adornano la casa di vacanza: «Chi curerà questa terrazza quando non ci sarò più?».
Per quanto ce ne racconti la crisi, tuttavia, Serra sceglie di chiudere il libro all’insegna di un’autorivendicazione della propria identità socio-culturale. Gli interrogativi sui valori trasmissibili alle nuove generazioni trovano infine una risposta aperta, e nondimeno consolatoria: nelle pagine conclusive, quando avrà finalmente luogo la scalata di padre e figlio al famoso Colle della Nasca, sarà il ragazzo ad arrivare in cima prima del genitore.