Piccolo o della sindrome di Homer Simpson

Francesco Piccolo è uno scrittore di successo e un intellettuale progressista, autore di racconti, romanzi, reportage e articoli giornalistici. In quasi tutta la sua produzione il protagonista incontrastato è il narratore omodiegetico, suo scoperto alter ego, che non esita a mettere in scena le proprie vicende, anche le più intime, e la propria visione del mondo. Sono precisamente i contenuti espressi attraverso questa schiettezza psicologica, sentimentale e ideologica a prospettare un dibattito riguardo al settore di sinistra del campo intellettuale.
 
Quando di un autore si dice che, a ben guardare, scrive e riscrive sempre lo stesso libro, si sta parlando, absit iniuria verbis, anche di Francesco Piccolo. È ammirevole la costanza con cui da anni lo scrittore di Caserta trapiantato a Roma, classe 1964, si esercita sul medesimo terreno, tentando graduali messe a fuoco di urgenze tematiche ricorrenti: tutte riconducibili al rapporto del narratore interno protagonista con il mondo circostante, inteso sia come minima realtà quotidiana e individuale, sia come realtà politica e collettiva. Ed è pregevole l’equilibrio che ha così raggiunto tra racconto autobiografico, meditazione introspettiva, riflessione storico-culturale e socio-politica. Equilibrio retto da una voce che si esprime sempre in modo affabile, ma senza cadere in sciatterie, a esclusione di qualche cedimento a usi giornalistici assunti passivamente. Sin dagli esordi, Piccolo, autore di fiction e reportage, nonché pubblicista, ha fatto di una schiettezza morbidamente cinica, francamente egocentrica e provocatoria, il proprio marchio, la costante tonale dei propri testi, contraddistinti da una dominante a volte narrativa a volte aforistica, e spesso da entrambe congiuntamente. In ogni pagina il lettore avverte con soddisfazione il brio piacevole e appuntito con cui Piccolo racconta e si racconta, piegando la narrazione in glossa e discorso esplicativo.
Antonio D’Orrico, anche per questo, di recente ha parlato di «morettismo», facendo implicitamente riferimento alla lunga collaborazione del Piccolo sceneggiatore con il regista romano. Venendo alla letteratura, si potrebbe scomodare il nome di Umberto Saba, se non altro per l’attenzione indulgente e per il connesso desiderio di identificazione con cui è osservato l’ingenuo, il banale, il volgare della vita di tutti i giorni; una consonanza, con tutta probabilità involontaria, testimoniata anche dal libro vincitore del Premio Strega 2014, il cui titolo, Il desiderio di essere come tutti, è sì un’eco della prima pagina dell’«Unità» apparsa in occasione dei funerali di Enrico Berlinguer (così spiegano Piccolo e i suoi recensori), ma richiama, insieme a un intervento di Natalia Ginzburg citato in epigrafe al romanzo, anche la poesia sabiana Il borgo’, «il desiderio dolce / e vano / d’immettere la mia dentro la calda / vita di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni». La contiguità con il poeta triestino tuttavia si ferma qui. Spostandoci più dentro il Novecento, andrà osservato che l’impiego di un narratore interno in grado di muoversi con disinvoltura tra diario personale, saggio breve, narrazione aneddotica, affreschi sociologici, rimandi letterari e filmici ricorda un po’ il Bianciardi della Vita agra, ma un Bianciardi come pacificato, disinnescato, ottimista, e diciamo pure buonista, non volendoci spingere fino all’etichetta di «paraculo» che qualche recensore ha affibbiato a Piccolo e alla sua scrittura.
Siamo di fronte a un narratore che ha trovato presto la propria voce. Eccezion fatta per alcuni racconti del giovanile Storie di primogeniti e figli unici (1996) e per Il tempo imperfetto (romanzo socio-sentimental-fantascientifico del 2000, alquanto sui generis nella produzione piccoliana), che sono condotti da un narratore extradiegetico, Piccolo è sempre rimasto fedele a un alter ego testimoniale chiamato a riferire vicende che in un passato più o meno lontano lo hanno visto muoversi nel proprio contesto familiare, affettivo o amicale, oppure a svolgere al presente, con atteggiamento oscillante tra la critica acuminata e l’arrendevole disponibilità, il resoconto di una serie di esperienze vissute dentro la società contemporanea. Al primo gruppo appartengono le opere maggiori dell’attività di Piccolo, quelle dotate di una più autentica vocazione narrativa (E se c’ero, dormivo, 1998; La separazione del maschio, 2008; Il desiderio di essere come tutti, 2013); al secondo quelle che potremmo definire preparatorie: non a caso inframmezzate alle precedenti con precisa regolarità, sembrano costituire una loro messa a punto con un profilo ancora informativo-giornalistico (Allegro occidentale, 2003; L’Italia spensierata, 2007; Momenti di trascurabile felicità, 2010). A ogni modo, come accennato, proprio a causa della presenza di un narratore assai ingombrante, nei libri di Piccolo è difficile segnare il confine tra fiction, confessione e pamphlet. Anzi, le opere di più ampio respiro trovano il loro ubi consistam e uno dei loro aspetti più originali proprio in questo poliforme bilanciamento, nel gioco di incastri tra un’oggettività attendibile e una sottintesa finzionalità, tra erudizione e rifiuto di qualsivoglia boria intellettuale. Il tutto compreso in un perimetro orgogliosamente e ostentatamente antigerarchico, anti-ideologico (e, potremmo dire, postmodernista), che si dilata senza remore e soluzione di continuità in accenni a Italo Calvino e a Sophia Loren, a Milan Kundera e a Pippo Baudo, a Federico Fellini e a Raffaella Carrà, al rapimento di Aldo Moro e ai campionati di calcio e basket.
Di tale modus operandi il primo esito compiuto è La separazione del maschio (da ora in poi soltanto Separazione), incentrato sulla poligamia sessuale e sentimentale dell’io narrante, nonché sulle sue puntigliose opinioni al riguardo: come nel successivo Il desiderio di essere come tutti (da ora in poi Lutti), le considerazioni di matrice psicoemotiva, introspettiva e sociologica non corrono il rischio di risolversi in un colto divertissement grazie alla robustezza del discorso che fa da fulcro ai due libri: nel primo caso l’amore, nel secondo la politica. Non solo per un furbo ammiccamento autobiografico, il protagonista della Separazione è un montatore di film e documentari: le sue vicende sono assai bene assemblate in un’alternanza di ragguagli erotici e teneri quadretti familiari, teorizzazioni più o meno dotte e una descrittività vivace e spigliata, come la lingua che la veicola. Al polo opposto si colloca l’esile volume di “scorciatoie” e “raccontimi” intitolato Momenti di trascurabile felicità, in cui Piccolo ha assecondato, senza opporvi alcun contravveleno, il proprio gusto per la divagazione spiazzante applicata a decine di questioni banali e quotidiane, dalla singolare longevità sul mercato italiano di prodotti come il Voltaren, il Topexan e il Super Santos al piacere provato parcheggiando l’auto in seconda fila o ascoltando le canzoni di Sanremo.
In quasi tutti i libri di Piccolo c’è soltanto un esile filtro a distinguere l’autore in carne e ossa e l’io narrante, tanto è vero che a quest’ultimo non viene mai assegnato un nome, ad accentuare ulteriormente la sovrapposizione. Questo io, che ha la fisionomia di un intellettuale di sinistra, di estrazione borghese e provenienza meridionale e provinciale (in alcuni libri precisamente casertana), si è trasferito a Roma per ottenere un impiego nella pubblicistica di ambito letterario. Contraddistinto da una vitalità energica e ottimistica, è in grado di completare e realizzare se stesso unicamente nella relazione con l’altro: con la famiglia, gli amici, il partito, la società e soprattutto le donne. Da un libro al successivo si riscontrano svariati rimandi tra le vicende narrate e vaste zone di sovrapposizione nei giudizi e negli atteggiamenti dell’io che di volta in volta regge il discorso. Si potrebbe dire che il narratore omodiegetico dei testi di Piccolo, quasi sempre uguale a se stesso sul piano dell’identità e delle dinamiche narratologiche, interpreti sempre la medesima parabola, o per lo meno sia alle prese con un ordine estremamente coeso di questioni. A conferma del fatto che la letteratura di Piccolo consiste in una progressiva messa a fuoco del medesimo materiale narrativo, esistenziale e concettuale, la cui struttura di fondo si configura come un romanzo di formazione che torna circolarmente su di sé.
Uno snodo decisivo nel cammino dell’alter ego finzionale di Piccolo va riconosciuto nel rapporto d’amore con una compagna di liceo, variamente descritto in almeno un racconto – Quando il dito indica la luna, inserito in Storie di primogeniti e figli unici, in cui la ragazza si chiama Francesca – e in due romanzi –E se c’ero, dormivo, in cui il suo nome è Claudia, e Tutti, dove invece è Elena. E a partire da qui che si dipana il filo delle esperienze sentimentali del protagonista, di cui si dà conto in primis nella Separazione, in cui non ha cittadinanza l’antinomia tra il ruolo di padre e marito innamorato e quello, altrettanto innamorato, di amante plurimo, anzi ipertrofico: «Vivo […] con la donna che amo, ho una figlia meravigliosa, amo più o meno tre altre donne, scopo moltissimo e scopo con altre ancora: non ho rimorsi né sensi di colpa. L’unica egoistica paura che ho è che tutto ciò mi venga sottratto» (p. 70).
L’esperienza che lo ha spinto ad assumere tale atteggiamento (simile a quello che fa capolino, ma dietro lo schermo eufemistico dell’espressione inconscia, nell’harem felliniano di 8 ½, non a caso il film prediletto da Piccolo; e qualcosa di analogo si potrebbe dire di un’altra opera da lui molto amata, L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera) si trova appunto in quella dolorosa esperienza adolescenziale, dopo la quale il protagonista non ha fatto altro che imporre alle donne ciò che era stato costretto a vivere dalla sfuggente e contraddittoria Francesca/Claudia/Elena, che gli ha negato una volta per sempre la possibilità di darsi con fiducia, e in maniera univoca, dell’altro: «La mia filosofia d’amore, dal momento in cui lasciai Claudia, cominciò a essere complicata, con un accumulo di postille. In pratica […] se pure mi fidanzavo, continuavo a sostenere che non ero fidanzato; se pure tradivo, continuavo a sostenere che non avevo tradito» (E se c’ero, dormivo, p. 165). Un’identica presa di posizione si trova nel libro di quindici anni dopo, ’Tutti, in cui viene descritto un sentimento amoroso inevitabilmente impostato sulla «rivalsa», sulla «vendetta», sul «riscatto», in assenza di qualsiasi esitazione nel provocare dolore, perché «ero in credito illimitato con la sofferenza […]. Ne ho diritto perché ho sofferto in modo inconsolabile quando ho amato la prima volta» (p. 129). Suona perciò come un’excusatio non perita, e vale piuttosto come prova e contrario, il bilancio sentimental-esistenziale che l’io, malamente travestito da progressista, tenta nel finale di Tutti: «ho concepito come “reazionario” anche quel […] rimanere legati al primo amore come la forma unica e vera dell’amore; e ancora di più se quell’amore non si è compiuto, se rappresenta un’astrattezza. Come se l’innamoramento della prima volta fosse l’unica forma di amore autentico» (p. 257).
Ma non si tratta solo di amore. L’intellettuale marxista che Francesca/Claudia/Elena aspira a essere (siamo alla fine degli anni settanta) influenza la visione del mondo del personaggio-narratore e ha grosse conseguenze sul suo rapporto con l’intorno politico-sociale: «per lei tutto quel che succedeva nel mondo succedeva a lei personalmente. Ed era quello che avrei voluto accadesse anche a me. […] Ma allo stesso tempo, dovevo ammettere, non ero riuscito a diventare così fino in fondo» (Tutti, p. 78). Il ritornello che percorre gran parte della produzione di Piccolo, “(non) essere come…” come la compagna, come gli amici, come gli altri, come «tutti» –, e dunque “(non) venire accettato” e “(non) accettare” l’altro, ha la sua origine proprio nella relazione fallimentare con quella ragazza: «era comunque finita, […] non era mai nemmeno cominciata perché non mi avrebbe mai perdonato di non essere come lei, era questo in fondo che non mi perdonava» (E se cero, dormivo, p. 135).
La giovane è un’attivista della sinistra extraparlamentare, mentre il protagonista è un borghese solo a tratti insofferente del proprio ambiente e dei propri amici cattolici e di destra; un borghese che sostiene di aver raggiunto la consapevolezza di essere comunista vedendo in tv, all’età di nove anni, il gol segnato da un giocatore di calcio della Germania Est – la squadra dei «più poveri» e «deboli» (Tutti, p. 37) – alla Germania Ovest – i più forti e favoriti da ogni pronostico. La fulminea conversione al comunismo avvenuta sotto forma di fanciullesca intuizione buonista e grazie all’intrattenimento spettacolare è un dato rivelatore: sta come a significare che la svolta consumista incombeva già sull’opzione comunista del ragazzino, che infatti da adulto con candore avrebbe affermato: «ero comunista, ma ero in sintonia con gli anni Ottanta» (p. 92); e ancora: «al contrario di Berlinguer, pensavo a divertirmi» (p. 99). Del resto, sarebbe diventato un intellettuale moderatamente riformista. Più a fuoco è una glossa introspettiva del libro-inchiesta sui divertimenti dell’Italia di oggi, in cui Piccolo accenna all’esistenza in lui di un contraddittorio moto pendolare:
«Tutta la mia vita è stata un elastico tra la coscienza e l’abbandono. Tra la capacità di ragionare su quello che vedo e la volontà di perdermi nella partecipazione» (L’Italia spensierata, p. 5).
Il fallimento della relazione amorosa e il rifiuto oppostogli dagli ambienti politici della ragazza apre nell’io narrante una riflessione sul rapporto che è in grado di stabilire tra la verità istintiva della propria condizione individuale (data dall’estrazione sociale e dalle peculiarità personali, a partire dalle debolezze e dalle vigliaccherie inconfessate) e una coscienza razionale della giustizia. L’esito del rovello non lascia spazio a dubbi: «tutti questi anni passati a inseguire un me migliore, sono stati molto faticosi e hanno ottenuto poco o niente»; e insomma tanto valeva «affrontare le cose dalla strada opposta: ammettere chi ero, da dove venivo – tutti i miei limiti […]. E meglio rendersene conto: se come si è, e come si dovrebbe essere, non riescono a coincidere, allora la sincerità è più fruttuosa del senso di giustizia» (Tutti, Perciò pensa bene di abbandonare «il senso del giusto a favore della verità» (Separazione, p. 161), la quale, in quanto soggettiva e debole (in senso postmodernista), non può che essere egoistica e interessata: «La purezza, il senso di giustizia, non sono state mai più il mio criterio, nemmeno come amico, o come amante» (Tutti, p. 183).
Queste sono le posizioni di ordine morale e politico alla base dell’intera produzione di Piccolo, la quale infatti è in larga parte dedicata all’elogio della “superficialità” (vera e propria parola chiave piccoliana), al racconto dell’umile epopea di un intellettuale di sinistra compiaciuto di amare gli aspetti di triviale rilassatezza del mondo di oggi. Molti degli apprezzati Momenti di trascurabile felicità muovono, senza alcuno schermo ironico, proprio da qui, dall’idea che «ci sono alcune […] cose che non mi dovrebbero piacere ma mi piacciono» (p. 22): come parcheggiare l’auto in seconda fila, prendersela con i ciclisti che pedalano in città, non cedere il proprio posto a sedere sui mezzi pubblici, guardare Il grande fratello («comprese alcune ore notturne in cui loro dormivano e io ero sveglio a guardare loro che dormivano», Tutti, p. 234), mandare un sms per votare il cantante favorito a X Factor. Gli sforzi di Piccolo sembrano programmaticamente – verrebbe da dire, a mo’ di contrappasso, “ideologicamente” – tesi a mostrare che quella attuale, se pure non è la migliore delle società possibili, va accettata, vissuta e amata, non giudicata e soprattutto non rifiutata sulla base di astratti principi etici: «è più vitale, ed è più utile, il desiderio di far parte di un mondo fragile, peggiore – se si è deciso che è peggiore –, pieno di problemi complessi ma che fa parte del presente» ( Tutti, p. 181).
Se lo stimolo primario del Piccolo scrittore è consistito, come detto, nella difficoltà di essere nel mondo, di collocarsi alla giusta distanza dal mondo per poterlo comprendere e per poterci vivere in maniera serena, possiamo ben dire che il percorso si è compiuto in maniera positiva: «Io mi sono sempre sentito diverso da quelli che guardano Domenica in o Natale a Miami o si infilano negli ingorghi delle vacanze. […] Poi queste certezze hanno cominciato a vacillare quando ho capito che c’è una correità in ogni cosa che accade in un paese, e di questa correità mi sono fatto carico attraverso un percorso di sincerità» (L’Italia spensierata, p. 117). Una corresponsabilità declinata più che altro in termini di superficiale appagamento, di autoreferenzialità godereccia: «Dentro di me c’è un germe di quello che sono stato sempre sicuro che non ci fosse. E vaffanculo, questo germe me lo coltivo e lo osservo e me lo godo e così capisco un po’ di più di me e del mondo. Voglio capire, e quando voglio capire già mi basta, già sono disponibile e contento di starci» (ibidem).
Anche Edgar Morin, in un famoso saggio del 1962, Lo spirito del tempo, invitava l’osservatore della nascente cultura di massa a partecipare «all’oggetto della sua osservazione», ad «aver piacere a introdurre una moneta in un juke-box, divertirsi con le macchine a gettone, seguire gli incontri sportivi alla radio e alla televisione, canticchiare l’ultima canzonetta» (p. 38). Ma, appunto, era il 1962 e per uno studioso che volesse armarsi degli strumenti adatti a sondare, con spirito schiettamente progressista, gli inediti fenomeni in corso era imprescindibile squarciare il velo snobistico opposto loro dall’intellettualità tradizionale. Oggigiorno, accertata la bontà di un approccio “alla Morin” ai prodotti culturali della società dei consumi (e per quanto riguarda l’Italia sarà doveroso fare almeno il nome di Antonio Gramsci, pioniere di questo genere di indagine), quella di Piccolo, più che una doverosa opzione conoscitiva, finisce per sembrare l’ennesima laudatio del presente e una mal celata captatio della pancia del pubblico. E non sentivamo il bisogno né dell’una né dell’altra, vista la prepotenza tutt’altro che innovatrice con cui dominano il panorama letterario, massmediatico e ideologico. Leggendo Piccolo, rischia di venire alla mente, anziché le premonizioni metodologiche di Gramsci e Morin, l’enorme successo dell’apparentemente ingenuo e incolto Mike Bongiorno: la cui popolarità era dovuta, secondo l’intuizione di Bianciardi ripresa e sistematizzata da Umberto Eco, al fatto che lo spettatore aveva finalmente modo di identificarsi senza complessi di inferiorità con un personaggio noto, e addirittura di sentirsi superiore a lui. In modo non dissimile, ai lettori di Piccolo – per lo meno alla porzione, senz’altro maggioritaria, dei suoi lettori di area progressista – è consentito godere della rasserenante mediocrità etica ostentata, con sincero compiacimento, da un autorevole scrittore di sinistra: possono così arginare il proprio senso di inadeguatezza rispetto ai valori in cui, almeno a un livello astratto, ancora si riconoscono e che ancora idealmente difendono.
Si potrebbe insomma indirizzare a Piccolo lo stesso invito che Nanni Moretti, in Aprile, rivolgeva a Massimo D’Alema: «Di’ una cosa di sinistra!». Ma c’è dell’altro. Qualcuno, per esempio, potrebbe sorprendersi constatando che nell’Italia dei primi anni duemila l’approccio al reale teorizzato e praticato da un intellettuale progressista tende qua e là a sovrapporsi a quello di Homer Simpson, la più celebre incarnazione della medietas umana occidentale, contraddittoriamente in bilico tra meschinità e innocenza, ignoranza e furbizia. In modo non troppo diverso dai protagonisti di Piccolo, Homer è ingordo e cinico eppure estroverso, è perfido ed egoista eppure affabile e bonario. Anch’egli schiavo felice dei propri appetiti – come dice il suo creatore Matt Groening, è «dominato completamente dai suoi impulsi» –, risulta comunque nutrito da un invincibile amore verso la vita e, sia pure in maniera a volte ipocrita e bugiarda, da un vivo affetto per la sua famiglia. E uomo mediocre, con atteggiamenti eticamente discutibili, ma è anche onesto, anzitutto nei termini in cui non cela le proprie vigliaccherie. Pare di poter intravedere la sua corpulenta figura pronunciare l’affermazione di Piccolo riportata poco sopra: «E vaffanculo, questo germe me lo coltivo e lo osservo e me lo godo».
Non è in discussione la legittimità, sostenuta ovunque nei libri di Piccolo, della singola esperienza ludico-ricreativa o anche “homerica”, ovviamente in senso simpsoniano. E, a differenza di quanto si legge in Tutti, non è nemmeno un problema di nostalgia per un mai esistito «passato migliore, in cui le persone si occupavano, tutte, di questioni importanti» (p. 255). Ma ci si potrebbe domandare se tra le aspirazioni di uno scrittore di area progressista si debba oggi includere quella di risultare confermativo dello status quo\ se il suo compito debba essere assolversi e assolverci, farci guardare con pieno consenso ai momenti in cui ci gioviamo, alimentandole e perpetuandole, delle porzioni di realtà che, almeno in teoria, vorremmo combattere e trasformare.