Di professione conduttore

Negli ultimi dieci anni Fabio Fazio si è imposto come uno dei principali mediatori dei consumi culturali del Paese, grazie soprattutto al programma Che tempo che fa. Il suo successo è stato costruito con una formula rimasta nel tempo coerente a se stessa: uri attenta selezione degli ospiti tra la cultura popolare e quella d’élite; un’atmosfera pacata e cordiale, nella quale l’intervista si trasforma in conversazione amichevole; l’utilizzo di un linguaggio “medio”, che evita allo spettatore difficoltà di comprensione anche in presenza di intellettuali importanti. Sullo sfondo emerge l’intento di proporre un’immagine della cultura come bene supremo, dai fondamentali aspetti didattici e educativi.
 
Era il settembre del 2003 quando faceva il suo esordio sulla scena televisiva italiana un personaggio che negli anni successivi si sarebbe dimostrato capace di intuire, convogliare e orientare le opinioni e i consumi culturali di una parte del nostro Paese. Questo personaggio, che per comodità chiameremo Fabio Fazio, è una figura collettiva che raccoglie il lavoro di un gruppo storico di autori, principalmente Pietro Galeotti, Marco Posani e Fabio Fazio, coadiuvati nel tempo da altri soggetti, tra i quali Michele Serra e Francesco Piccolo. Si presenta al pubblico televisivo sotto le spoglie dell’individuo Fabio Fazio, cinquant’anni, savonese, di professione conduttore tv, esordio in Rai nel lontano 1983, ed esercita la propria influenza principalmente, ma non esclusivamente, attraverso la trasmissione Che tempo che fa, messa in onda da Rai3, a seconda degli anni, nelle serate del sabato, della domenica e del lunedì.
Per essere precisi, questo Fazio collettivo non appare all’improvviso sul video in quel settembre del 2003, ma è figlio diretto di un personaggio che prende contorni più definiti a partire dal 1993, con la nascita di Quelli che il calcio, un programma che, diventando un piccolo classico della recente tv italiana, gli permette di acquisire rilevanza sul palcoscenico nazionale e di iniziare a definire le proprie modalità comunicative. In particolare, è qui che prende forma quel caravanserraglio pop di ospiti di diversa provenienza ed estrazione culturale il cui mix, perfezionato con l’esperienza e ricalibrato a seconda del contesto, diventa uno dei marchi stilistici di Fabio Fazio. Emblematiche le edizioni del Festival di Sanremo del 1999 e del 2000 dove, di fianco a Fazio, nel cast dei conduttori, comparivano il premio Nobel per la Medicina Renato Dulbecco, nel primo, e nel secondo il tenore Luciano Pavarotti, mentre tra gli ospiti estranei al mondo musicale sfilavano un astronauta, due calciatori, un regista premio Oscar, due comici, un premio Nobel per la Pace, un ex sciatore, due attori e un prestigiatore. Ovvero: Neil Armstrong, Roberto Mancini e Alessandro Del Piero, Michael Moore, Anna Marchesini e Teo Teocoli, Michail Gorbacev, Gustav Thoni, Leslie Nielsen e Darlene Conley, Aldo Savoldello (in arte Mago Silvan).
Fazio allestisce con cura il cast dei propri ospiti perché è attraverso il loro coro di voci, utilizzato come griglia interpretativa, che costruisce il proprio discorso sull’attualità, il quale attinge insieme alla cultura popolare e a quella d’élite e si modula nella prima fase principalmente sui toni surreali. Il calcio, la musica leggera o, in seguito, il clima, non a caso argomenti che hanno spesso una funzione socialmente fatica, sono solo pretesti tematici. L’operazione mostra un pericolo evidente: più la formazione del discorso, complicata dalla diretta, è imperfetta, più risulta impossibile riconoscerne, in fase di ricezione, il senso e distinguere, posto che sia uno degli obiettivi, il punto di vista dell’intellettuale in mezzo al rumore di fondo dell’intrattenimento.
Che tempo che fa, nato come una trasmissione intorno al clima, prende presto la forma di un talk show nel quale Fazio intervista individualmente una serie di ospiti, secondo una formula che resta più o meno invariata negli anni, pur lasciando spazio a qualche variazione come, per l’edizione attualmente in corso, la serata del sabato, che esibisce una conduzione condivisa e una scaletta più movimentata, aumentando il peso e la presenza di Massimo Gramellini, vicedirettore della «Stampa» e ospite fisso fin dal 2009.
A non mutare, nel corso degli anni, è lo spirito del programma: «Un’atmosfera pacata e cordiale è la caratteristica più evidente del talk show […] nel quale Fabio Fazio riesce a trattenersi con l’ospite più in una conversazione amichevole che in un’intervista formale e ad affrontare sempre temi di interesse e attualità, siano essi di politica, sport, musica, arte, letteratura, cinema, scienza, clima, ambiente», secondo la presentazione che ne dà l’ufficio stampa. E con queste chiavi che la trasmissione supera il traguardo delle 2.000 puntate, 62 nell’edizione 2013-2014, che si chiude con «una media di oltre 3 milioni e mezzo di telespettatori e puntate che hanno superato i 6 milioni, con picchi del 20% di share».
Sono circa 200 le ospitate dell’edizione 2013-2014, intendendo con questo termine i singoli incontri condotti da Fazio con uno o più ospiti contemporaneamente. La parte del leone, con 46 ospitate, la fanno i personaggi legati al mondo della musica, chiamati spesso a contribuire alla componente spettacolare del programma eseguendo in studio uno o più brani. Seguono la politica e il cinema, con 29 presenze ciascuno e la palma di personaggio più invitato: Matteo Renzi, con 3 apparizioni.
Il resto si muove tutto tra le 19 partecipazioni degli sportivi e le 14 degli scrittori, passando per personaggi di tv e spettacolo, giornalisti e ospiti legati alla cronaca, intellettuali e artisti di varia estrazione come architetti, fotografi, direttori d’orchestra. In coda, con 7 e 6 ospitate, teatro e scienza. Il pretesto per l’invito ha sempre a che fare con l’attualità: una notizia, quando si tratta di politici o giornalisti, un disco, un film o un libro in uscita per gli altri. A proposito di questi ultimi, sono 39 i volumi presentati nell’edizione 2013-2014, 12 dei quali di narrativa, spalmati tra gli ospiti di tutte le categorie.
È una campionatura grossolana, ma sufficiente a mostrare come, a parte una consistente, e forse inevitabile, aggiunta di personaggi provenienti dalla politica, il cocktail rimanga in linea di massima invariato, anche nelle dosi, con i comici ben attestati trasversalmente tra gli ospiti di cinema e tv. Certo, nella formula di Che tempo che fa non si tratta più di condurre un’orchestra, come in Quelli che il calcio, bensì di dirigere una serie di assolo, ma nel complesso, a fine puntata, il risultato è analogo: far risuonare gli argomenti d’attualità toccando più corde, da quella più farsesca a quella più tragica.
L’altro importante marchio stilistico di Fazio è la costruzione di quella «atmosfera pacata e cordiale» e di quella «conversazione amichevole» che da sempre polarizzano le opinioni degli ammiratori e dei detrattori.
Fazio affronta le interviste con un costante sorriso, a volte declinato in varianti pensose o preoccupate, e con una modulazione della voce pacata e sui toni bassi, che arrivano a essere sussurrati in occasioni come l’incontro con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 13 aprile 2014 al Quirinale.
Sul piano retorico, il dialogo con l’ospite si svolge in un’apparente assenza di conflitto, dopo una presentazione quasi sempre epidittica. Più che domande, Fazio porge all’ospite spunti di riflessione, inviti a raccontare aneddoti o a precisare e allargare dichiarazioni già fatte, citando altre fonti giornalistiche o riprendendo brani di un libro, quando l’occasione lo prevede. In pratica, nella maggior parte dei casi, l’intervistatore sembra cercare la chiave migliore per far aprire il proprio interlocutore, spingendolo a esprimersi distesamente e, dove possibile, a lasciar trasparire la sua sfera più privata.
Ciò non significa che la disposizione di Fazio nei confronti dell’ospite sia neutrale: basta il primo argomento introdotto per intuire il pensiero del conduttore. Un esempio particolarmente evidente è il diverso trattamento riservato a Graziano Del Rio e a Beatrice Lorenzin, impegnati nella stessa squadra di governo, il primo come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e la seconda come ministro della Salute, ma di area politica opposta. Del Rio, il 30 marzo 2014, viene presentato esponendo il caso di trentadue bambini del Congo adottati regolarmente da genitori italiani, ma ancora bloccati nel Paese africano, per i quali il governo ha promesso di trovare una soluzione, che gli permette, su queste fragili basi, una breve celebrazione dell’impegno del proprio partito e di ricevere in cambio un ringraziamento sulla fiducia. Beatrice Lorenzin, il 12 aprile 2014, prima di poter iniziare a parlare, con un’impostazione giocoforza difensiva, deve invece rassegnarsi ad ascoltare un elenco di disavventure giudiziarie più o meno rilevanti affrontate da ex compagni del partito dal quale da qualche mese è uscita.
Non si tratta soltanto di orientamento politico: ci sono ospiti con i quali Fazio lega meglio, per simpatia, confidenza o qualsiasi altra ragione, e altri con cui lega meno. Con i primi, svolge alla perfezione il proprio ruolo di spalla, dando continuamente piccole spinte al discorso per mantenere una buona inerzia; con i secondi invece arrivano a volte le interruzioni, più o meno timide o cordiali, e fanno capolino alcune sottolineature ironiche, che nei primi anni di Che tempo che fa erano più frequenti nel dialogare di Fazio. Un calo, questo, che va di pari passo con la crescita degli spazi riservati ai sodali Massimo Gramellini e Luciana Littizzetto. In pratica, è come se Fazio gradualmente delegasse loro alcune funzioni specifiche del proprio discorso: Gramellini darebbe così voce alla sua vena più moralista, fustigando personaggi e comportamenti disonorevoli senza però mai staccarsi da una medietà in grado di sortire facili consensi; Littizzetto alla sua vena più aggressiva, mirando bersagli più grossi ma in un preciso contesto retorico entro il quale l’attacco viene disinnescato dall’esibito parossismo verbale della comica e dal continuo controcanto di Fazio, in un copione che si ripete pressoché invariato da anni.
Sul piano lessicale, Fazio evita accuratamente termini complicati e tecnicismi, anche in presenza di scrittori o intellettuali, ma ciò, se da una parte rivela una evidente vocazione ad attenuare le possibili difficoltà di comprensione, dall’altra gli impedisce di approfondire il discorso critico intorno alle opere che propone al pubblico. Nella maggior parte dei casi, quando l’oggetto della conversazione è un libro, l’analisi non si spinge oltre una più o meno articolata esposizione dei contenuti o una riflessione sui temi che a volte, nell’eccesso semplificatorio, non evita di identificare la voce dell’autore con quella dei personaggi rappresentati. E ogni volta che si azzarda a sottoporre all’autore un’interpretazione, o un parallelo con un altro artista, forse temendo di travalicare il proprio ruolo, il conduttore indugia più facilmente in quella sorta di balbettio che costituisce una sua tipica manifestazione di pudore.
Tutto ciò sembra accordarsi a un’idea di cultura intesa come bene supremo, portatrice di un valore educativo, ben rappresentata dalla glossa di Fazio all’incontro del 25 febbraio 2014 con Alice Rohrwacher, fresca vincitrice del Grand Prix di Cannes con il suo film Le meraviglie: «Forse dovremmo adoperare il cinema di nuovo come uno strumento didattico, come uno strumento di riflessione, come un linguaggio che fa parte di tutti noi e che ci aiuta a crescere». La manifestazione più evidente di questa concezione si esplicita nel rapporto con Roberto Saviano, prima ospite ricorrente di Fazio e poi addirittura coautore di due programmi: Vieni via con me, trasmesso nel 2010 su Rai3 per quattro puntate con ascolti vicini ai 10 milioni di telespettatori, e Quello che (non) ho, andato in onda nel 2012 su La7 per tre serate con un pubblico in media intorno ai 3 milioni di spettatori.
Sono trasmissioni nelle quali il cast degli ospiti assume ancora una volta un peso preponderante. Nel primo caso le persone, molte delle quali selezionate tra il pubblico invitato a mandare i propri elenchi via web, intervengono per leggere un elenco, appunto, che ne definisca «i sentimenti, le passioni, i disagi, i problemi» o i valori; nel secondo una serie di ospiti sceglie una singola parola che risponda più o meno agli stessi requisiti. E una prospettiva che rivendica alla parola e alla cultura un ruolo centrale, rafforzata dalle “orazioni civili” di Saviano, monologhi in cui lo scrittore si configura come paladino della legalità e della moralità. Il risultato è una sorta di celebrazione laica di valori e riferimenti culturali che dovrebbero essere universali e che invece finiscono per tracciare confini e diventare codici di riconoscimento. Ovvero tutto l’opposto che popolari: elitari.