Il buon libraio. Intervista a Romano Montroni

Le idee del presidente del Centro per il libro e la lettura Romano Montroni sul mondo del libro sono chiare: la prossimità con il cliente è il valore aggiunto della libreria, gli sconti non servono a vendere più copie, l’identità – soprattutto nel caso delle librerie di catena – è un valore fondamentale e non può essere barattata con la “quantità”. E per quanto riguarda il digitale, il giudizio è netto: gli editori farebbero bene a curare attentamente le proprie opere in cartaceo; per l’affermazione degli e-book deve passare ancora molto tempo.
 
Un buon libraio, come un buon redattore, è sempre anche un buon lettore. Quante volte i gusti del lettore Montroni sono andati di pari passo con le esigenze del venditore Montroni?
Moltissime volte. Io non riesco a suggerire libri che non mi abbiano suscitato dell’emozione. Se un libro mi ha emozionato, sono – senza falsa modestia – un venditore fantastico; altrimenti, pur non sdegnando alcun titolo, non riesco a cavalcarlo fino in fondo.
 
Qual è il successo più inaspettato che le è passato fra le mani?
Sicuramente Open, di Andre Agassi, un libro stupendo soprattutto per i giovani, ma all’inizio non credevo sarebbe andato così bene. Come anche Stoner e La verità sul caso Harry Quebert.
 
E il libro su cui ha puntato molto e le cui vendite non si sono rivelate all’altezza delle aspettative?
Danza delle ombre felici di Alice Munro, che era in libreria quando l’autrice ha vinto il Nobel, e Resistere non serve a niente di Walter Siti, vincitore dello Strega. Con i premi può capitare: quei libri riempiono le librerie e tutti sono entusiasti della qualità, poi per qualche motivo non sempre hanno il successo atteso.
 
Crede che ridurre il prezzo del libro possa essere utile per ampliare la cerchia dei lettori?
No, gli sconti non fanno vendere di più: c’è una corsa all’accaparramento dei libri da parte dei lettori forti, ma poi nei due mesi successivi quei lettori forti non comprano più nulla. In parte diverso è il caso dei collaterali ai quotidiani: quei libri hanno seminato un po’ di curiosità in chi non leggeva o leggeva poco, con ricadute anche sulle librerie. Capitava per esempio che, stimolati dai volumi visti in edicola, i lettori che passeggiavano in libreria comprassero quegli stessi titoli (che il bravo libraio aveva prontamente messo in vista nelle edizioni tascabili), e spesso non si trattava di frequentatori abituali.
 
Nell’epoca degli store online, in cui è possibile trovare tutto quello che c’è in commercio e acquistarlo comodamente da casa, perché un lettore dovrebbe ancora andare in libreria? Qual è il valore aggiunto che deriva dal rapporto tra libraio e cliente?
Il primo valore aggiunto è la relazione. L’essere umano ha bisogno per natura di relazionarsi con gli altri: come bambini appena nati, anche i lettori hanno bisogno di sentirsi “riconosciuti”. Oggi, la libreria che si dà un’identità e un modo di essere socialmente apprezzabile per chi entra è una libreria vincente, che distoglie il cliente dallo strumento freddo e insignificante che è lo schermo di un computer. Certo, Internet può offrire una gamma di proposte e una quantità di titoli che la libreria non potrà mai garantire, però sono convinto che, salvo casi sporadici, solo il cliente maniacale è disposto, pur di avere a disposizione tutto e subito, a rinunciare a muoversi in un ambiente confortevole dove è riconosciuto, dove c’è una relazione e dove può prendere in mano i libri. E sicuramente vero che, se di un libro si conoscono autore e titolo e lo si è già visto in libreria, ordinarlo su Internet può risultare più semplice e comodo; ma se c’è bisogno di maturare idee mentre si guarda un settore – quello della narrativa, per esempio –, Internet non è paragonabile alla libreria. Io, e come me molti lettori, ho bisogno di vedere i volumi fisicamente, uno per uno, di leggere il risvolto di copertina, di sapere cos’altro ha scritto l’autore… Tutte queste informazioni si possono trovare anche in Rete, è vero, ma non è la stessa cosa. Nel film Lei, per esempio, il protagonista – innamorato di una voce – nel finale stringe una relazione con una donna in carne e ossa: la fisicità è un valore. Come dice Umberto Eco, la ruota è nata tonda, ancora non hanno inventato un’alternativa! Naturalmente, questo non vuol dire che non si possa avere un’integrazione tra le due tipologie di libreria. Quanto agli e-book, rimane il fatto che una casa senza biblioteca fisica sarebbe impensabile. Provi a immaginare un ragazzo che ha un iPad e scarica solo libri digitali: la bellezza delle edizioni dove la mettiamo? E i libri d’arte con le loro immagini meravigliose?
 
Negli ultimi anni si sente sempre più spesso dire che gli editori non hanno più un’identità forte, un progetto al centro della loro produzione editoriale. Pensa che lo stesso possa dirsi delle librerie?
È vero per molte librerie di catena. Sono stato per decenni in una catena – la Feltrinelli, fondata da Giangiacomo Feltrinelli – dove l’identità era fortissima, ma oggi l’identità viene spesso confusa con la quantità. Io invece credo che sia legata al progetto d’impresa che ci si dà. Penso, per esempio, che un editore di grande prestigio e spiccata identità come Mondadori, con una produzione che spazia dagli «Oscar» ai «Meridiani», avrebbe potuto usare meglio la sua forza propulsiva dandosi un’identità altrettanto forte nelle librerie. Dalle Feltrinelli sono passato alle librerie.coop. Le Coop – delle quali, prima di essere coinvolto nell’avventura delle librerie, nove anni fa, conoscevo solo i prodotti alimentari – avevano un progetto fantastico: quando è stata messa in piedi, la catena si ispirava al principio della qualità, lo stesso che ispira tutti i prodotti e le iniziative a marchio Coop. I giovani assunti hanno frequentato corsi di formazione e sono stati seguiti perché diventassero veri librai; abbiamo voluto assortimenti ampi e profondi. Non so come andrà a finire, però il nome Coop rimane sinonimo di qualità. Oggi le Feltrinelli sono cambiate perché è cambiato il loro progetto: puntano sulla verticalità, non sull’estensione. Ma non bisogna dimenticare che, quando si toglie al libraio la facoltà di prenotare, di essere protagonista del proprio assortimento, lo si priva di una funzione primaria. Questo non significa che non si possa concentrare le prenotazioni per determinati titoli o in occasione di determinate campagne, ma al libraio bisogna lasciare il compito di scegliere, valutare e poi prenotare. Pensiamo al caso Waterstones, in Inghilterra: alla guida dei 320 megastore hanno chiamato James Daunt, libraio di tradizione, che li conduce come conduceva la sua piccola libreria. Ogni libraio dovrebbe ragionare a seconda del territorio di pertinenza: non si può centralizzare, non si può gestire una libreria come un ipermercato. E se il libraio non è partecipe, se non espone il libro giusto, al posto giusto, al prezzo giusto, la libreria non può avere successo: per gestire con efficienza, però, il libraio deve anche capire meccanismi e realtà della libreria, e questo avviene solo se riceve una formazione adeguata, che tra l’altro lo porta a razionalizzare i rapporti con editori e distributori. I tedeschi fanno due anni di formazione e hanno le migliori librerie del mondo, le più belle: è evidente che le due cose sono legate.
 
A proposito di formazione, da trentadue anni la Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri forma le nuove generazioni di librai, così come dal 2006 fa la Scuola librai italiani. Anche i master in editoria negli ultimi anni hanno avuto grande attenzione da parte delle case editrici. A suo parere, quanto è importante in questo settore la formazione professionale?
Moltissimo! La formazione è fondamentale. Io auguro a tutti i ragazzi dell’incontro odierno [gli studenti del Master in Editoria promosso dall’università degli Studi di Milano, Associazione italiana editori, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori. N.d.R.] di avere la possibilità di lavorare in casa editrice. Ho avuto la fortuna di insegnare per sei anni al Master in Editoria Cartacea e Multimediale dell’università di Bologna, diretto da Umberto Eco, e gli studenti di quei corsi ancora mi ringraziano per le molte ore di lezione sulle librerie. Chi fa libri deve sapere come ragionano i librai. Un libraio non è un passa-titoli ignaro: è naturalmente un commerciante, ma sa qual è il libro giusto da esporre, e se un libro non è adatto alla sua zona e alla sua clientela, non lo tiene. Non si può bombardarlo di libri senza discernimento. Quando lui prenota un libro, d’altro canto, deve avere ben chiara quale sarà la sua utenza. Quindi, per un libraio l’identità è decisiva, ed è solo attraverso la formazione che può darsela. Le librerie oggi devono assumere una forte identità nella proposta: la genericità non è più sostenibile, perché a quel punto le librerie online risultano più attraenti. L’impegno vero, per i librai, è prestare un’attenzione minimalista a operazioni quotidiane come manipolare gli scaffali e i tavoli, spolverare, selezionare ed esporre le recensioni ecc. e, in generale, al servizio al cliente. In un Paese dove si legge poco come in Italia, puntare sull’identità e sul servizio è a mio parere la carta vincente. Lo dimostra il fatto che le librerie che scelgono questa linea non regrediscono nel fatturato: e più spesso sono le indipendenti, a fare questa scelta, perché nelle librerie di catena – se non ci sono precise indicazioni in tal senso – è più difficile ritagliarsi spazi di autonomia.
 
C’è qualche falso mito che ritiene gli editori debbano affrontare e risolvere rapidamente?
Gli editori in questo momento sono primariamente orientati a curare gli e-book, pensando che da qui a pochi anni possano rimpiazzare i libri cartacei. Io invece penso che farebbero bene a curare le edizioni tradizionali: nella carta, nel formato, nella grafica, negli argomenti. Nel tempo la qualità ha sempre pagato, lo dimostrano case editrici come Adelphi, Sellerio, Guanda, Einaudi, solo per citarne alcune: i loro libri sono così belli e curati che suscitano la voglia di possederli. O si pensi, per il passato, alla «Medusa» di Mondadori, alla cura con cui venivano scelti gli autori, all’eleganza della veste grafica, alla cura redazionale… Sono convinto che gli editori dovrebbero entusiasmarsi meno per i fenomeni nuovi – che non significa ignorarli – e battere costantemente la strada della qualità. Detto questo, non bisogna snobbare nulla, se ha mercato; Fabio Volo, per esempio, interessa un gran numero di lettori deboli che altrimenti non leggerebbero affatto. A Bologna, alla presentazione in libreria del suo ultimo romanzo c’erano oltre 1500 persone, soprattutto ragazzine, e sono state vendute 800 copie. E una semina che dà frutti!
 
Da aprile scorso lei è stato nominato presidente del Centro per il libro e la lettura: cosa si propone di ottenere da questo incarico, in ottica libraria?
Ho assunto questo incarico con l’ottimismo che mi contraddistingue. Il Centro ha due funzioni: sviluppare l’interesse intorno ai libri e promuovere la lettura. Per quanto riguarda la prima, in collaborazione con editori e librai allestiremo una serie di librerie di piazza in varie città – penso soprattutto al Maggio dei libri e al settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale – per far conoscere la produzione editoriale italiana a un pubblico il più vasto possibile, e possibilmente per stimolare la vendita di libri: l’Italia, infatti, oltre ad avere il 57% di non lettori, ha anche zone in cui mancano vere librerie, belle, grandi, di qualità. Per quanto riguarda invece la promozione della lettura, in collaborazione con i ministeri dei Beni Culturali e dell’istruzione stiamo organizzando un grande evento di letture ad alta voce nelle scuole, con l’idea di avviare poi un programma sistematico e a lungo termine. Siamo convinti che è nella scuola dell’obbligo che dobbiamo investire tempo, energie e risorse, per far conoscere ai più giovani la gioia che i libri possono dare e per creare e radicare in loro l’abitudine alla lettura. Perché, come diceva il grande Ezio Raimondi: «Il rapporto con la cultura è sempre un rapporto col nuovo che ci permette di conoscere e, nello stesso tempo, di imparare ad accettare i nostri limiti e a combatterli».