Bachi piemontesi e leoni di Sicilia

I romanzi di Cibrario e Auci offrono un quadro capovolto del nostro Risorgimento: in Piemonte prevalgono gli aristocratici; in Sicilia, gli imprenditori borghesi. E I leoni conquistano i lettori soprattutto perché il racconto dell’impresa Florio, privo di ancoraggio storico, è proiettato sull’atmosfera da Belle époque e cadenzato sui toni avventurosi di una dynasty all’americana.
 
Sono arrivati sul mercato librario, quasi in contemporanea, Il rumore del mondo di Benedetta Cibrario (Mondadori) e I leoni di Sicilia di Stefania Auci (Nord): il primo è entrato nella cinquina dello Strega e poi è scomparso; l’altro, rimasto in vetta alla classifica per mesi, si è piazzato nella top 10 dei libri più venduti del 2019. Ad accomunarli le ampie strutture di genere della fiction storica: 730 pagine il primo, oltre 400 l’altro; la morfologia mista intreccia canonicamente personaggi d’invenzione e fatti realmente accaduti sullo sfondo delle lotte per l’indipendenza nazionale, ai due capi della penisola: al Piemonte sabaudo corrisponde la Sicilia dei Borboni. In entrambi i libri, gli elementi paratestuali della cornice specificano, con esattezza puntigliosa, il quadro delle dinamiche collettive: la prima sezione del Rumore del mondo si apre alla fine degli anni trenta – «Normandia, estate 1838» –, l’ultima si chiude in un anno cruciale per l’intera Europa, «Il principio di un’era nuova (1840-1848)». Il prologo dei Leoni di Sicilia è collocato a fine Settecento («16 ottobre 1799»), l’epilogo a Unità compiuta («settembre 1868»), e ogni capitolo copre, poco più poco meno, l’arco di un decennio («Seta / estate 1810-gennaio 1820»; «Pizzo / luglio 1837-maggio 1849»). Ad avviare, sempre canonicamente, le due vicende, una partenza: Anne, la protagonista del Rumore, lascia la casa paterna di Londra per raggiungere il marito militare piemontese; i due fratelli Florio abbandonano la Calabria per aprir bottega a Palermo. Il narratore, anzi la narratrice – la postura di chi racconta s’accorda con la figura autoriale – si avvale dell’onniscienza sovrana che tutto sa e comprende; e tuttavia, non solo l’intonazione nei due libri assume cadenze diverse, ma l’effetto finale di lettura è antitetico.
Nel romanzo di Cibrario, al di là delle sequenze epistolari, a varia penna e con molteplici destinatari, la narratrice segue passo passo le vicissitudini di Anne Bacon, che corrono parallele alle vicende storiche risorgimentali: l’ottica della protagonista, educata all’inglese e fedele ai valori dell’etica borghese – il padre è un ricco mercante di tessuti –, restituisce la dinamica dei conflitti economici e sociali che accompagnano le decisioni di casa Savoia e della antica nobiltà torinese. Anche grazie a questa scelta, la narrazione conduce a un esito sorprendente, ma efficace: chi legge apprezza il disincanto aristocratico del suocero, conservatore eccentrico, che fronteggia con burbera severità il figlio, pavido e vanesio, militare per nascita non per scelta. Il vecchio conte Casimiro Vignon, pur ostile alle “diavolerie” del nuovo – e poco importa se siano i commerci della seta o i rapporti con i francesi –, è l’unico capace di capire e confortare, in complicità d’affetti e d’affari, l’inglesina, lasciandola alla fine erede dei possedimenti terrieri e dei suoi preziosi giardini, mentre il marito Prospero muore nella giornata vittoriosa di Pastrengo, inverando il destino familiare dell’abbandono. In terra di Sicilia, per contro, a fronteggiare i Borboni è l’“impresa” dei Florio, nell’accezione di azienda borghese, che nulla spartisce con l’eroica spedizione dei volontari garibaldini.
Il confronto fra le due opere, dettato dalla consonanza di genere – romanzo misto di storia e invenzione –, aiuta a illuminare sia il capovolgimento paradossale del quadro collettivo sia soprattutto la ragione del successo strepitoso arriso ai Leoni.
Nell’anno di Brexit, il pubblico italiano sembra poco interessato ai rapporti di civiltà e cultura che la penisola ha intrattenuto e intrattiene con il Regno Unito, mentre continua ad appassionarsi alle vicende ambientate negli scenari esotici del nostro Meridione, come ben commenta Alessandro Terreni nell’Almanacco delle classifiche di questo Tirature.
A guidare la penna di Auci è l’ammirazione per i fratelli Paolo e Ignazio Florio e soprattutto per il più giovane Vincenzo, che si atteggiano anacronisticamente a veri capitani d’industria: dalla «aromateria» iniziale ai traffici marittimi fino alla tonnara di Favignana, tutto concorre al trionfo di una dinastia. A stravolgere la curvatura romanzesca, orientando la parabola d’intreccio, è la dominante avventurosa. Sin dall’incipit: il terremoto su cui si apre il romanzo, in consonanza con il proverbio che lo chiude «Di ccà c’è ‘a morti, di ddà c’è a sorti», non lascia dubbi sull’urto irrefrenabile che sulle vicende familiari imprime l’empito di natura, la cui acme è il colera che atterra la città di Palermo e che fa la fortuna di casa Florio, pronta a distribuire a buon prezzo dosi massicce di tannino.
Se ne deforma l’intero quadro su cui è allestita la scena: il lettore è subito calato in un’atmosfera borghese, tipica da Belle époque, affatto estranea al clima dei decenni pre- e postunitari. La scelta della copertina va nella stessa direzione: il Ritratto di signora con due adolescenti di Corcos, per colori e tonalità e soprattutto posa e sguardo della figura femminile, allude alla stagione signorilmente ovattata di primo Novecento. Iconografia da romanzo rosa, come è stato suggerito? No, anticipazione, semmai, della sfasatura anacronistica dell’orizzonte narrativo, in cui le vicende tumultuose della saga familiare s’accampano sulla pagina, assecondando i ritmi scomposti da dynasty all’americana. Ciò che più preme all’autrice, per sua stessa ammissione, è «il fascino dell’uomo solo, roso dalla vendetta», capace di riscattare la condizione di nativa miseria con l’ansia feroce d’ascesa sociale, su uno sfondo che annulla ogni riferimento alla Sicilia ottocentesca. Ben comprensibile, allora, che s’offuschino i richiami, da più parti avanzati, all’illustre tradizione letteraria isolana: nel racconto dello slancio imprenditoriale dei Florio, dei libri di Sciascia e Camilleri, e tanto meno del Gattopardo, non c’è traccia alcuna. E, d’altronde, la fortuna inaspettata del libro nasce appunto da quel profilo di virilità, «che su di me ha un fascino incredibile» (Auci), e di cui la scrittura, veloce e un po’ trasandata, offre la declinazione aziendal-borghese, condensandola nella cifra ostinata della famiglia: «Pazienza e rancore» (p. 184). La trama dei Leoni invita ogni lettore e soprattutto ogni lettrice a seguire la stessa inclinazione di empatia abbagliante, orientandola, ovviamente, a favore dei protagonisti che, nella loro foga ambiziosa, tutto travolgono, donne comprese.
Con buona pace dei suggerimenti offerti dalla bandella del libro, le figure femminili, che accompagnano le conquiste della dinastia, non hanno nulla d’eccezionale. Anzi, l’imborghesimento generalizzato del quadro ne accentua la distorsione anacronistica, rendendo ancor più sfasata la dimensione dell’intimità domestica: i ritratti delle “signore”, a qualunque generazione appartengono, sono schizzati con una convenzionalità poco credibile, a tratti molesta. Al nucleo familiare dei Leoni, in cui svetta la vecchia Giuseppina Florio, che ama riamata il cognato ma tutto sacrifica alla “ditta”, s’affianca, nell’altro campo, la nordica famiglia Portalupi. Non basta però quel cognome, che allude al principe degli architetti della buona borghesia ambrosiana novecentesca, per imprimere spessore di carattere alle sue donne: la madre, per la cui malferma salute è stato deciso il trasferimento dalle brume del Lombardo Veneto al fulgore di «luce e di sole» di una terra martoriata dal colera, è emblema di un familismo egoista e piagnucoloso; Giulia, a sua volta, la «giovane milanese» che diventa la moglie legittima di Vincenzo solo quando finalmente, dopo ben due bimbe, gli dà il «figlio maschio», be’ conquista il marito per una virtù unica e rara: «comprendere il valore del denaro e capire come questo denaro venga guadagnato» (p. 223).
Nell’epilogo, a Unità compiuta, quel rampollo, Ignazio junior, non solo riscatta le umiliazioni patite dagli avi, sposando una giovane di sangue blu, ma garantisce alla famiglia Florio un futuro splendente e a Stefania Auci, forse, il bis del successo con il sequel della saga, già in programmazione.