«Di quello che ero non resta più niente». Su Febbre di Jonathan Bazzi

Febbre, pluripremiata opera d’esordio di Jonathan Bazzi, incrocia senza sosta due binari narrativi: quello del resoconto della fanciullezza del narratore interno protagonista e quello della sua positività all’Hiv. Naturalmente entrambi i binari conducono alla figura predominante del narratore. Problematicità familiari e socioeconomiche, difficoltà ad affrontare l’ingresso nell’età adulta, l’esperienza dell’amore omosessuale e la rivelazione della malattia sono gli elementi primari di un panorama in bilico fra romanzo e autobiografia. Qui, come recita il luogo comune, toccare il fondo può significare rinascere. Meno ricche e intense sono le peculiarità espressive dell’opera, caratterizzata, da un lato, da un’estrema semplificazione linguistica e, dall’altro, da troppo scoperti meccanismi enfatizzanti.
 
La Rozzano delle classi umili (non quella di Fedez), l’omosessualità e l’Hiv: sono questi i protagonisti di Febbre, opera prima di Jonathan Bazzi. Ma bisogna subito correggersi: quelli ora elencati sono i co-protagonisti del libro, dove in realtà è il narratore interno protagonista a farla da padrone, a spadroneggiare da ogni lato. A stampa nell’aprile del 2019, Febbre propone in copertina l’autodefinizione di «romanzo», e in quanto testo narrativo ha vinto il premio Bagutta opera prima, è stato eletto Libro dell’anno nella trasmissione di Radio Tre Fahrenheit, gareggerà allo Strega 2020 ed è stato ristampato ed entusiasticamente recensito e commentato svariate volte. Non sarà superfluo osservare che la vicenda biografica dell’autore assomiglia sotto ogni aspetto (a partire dalle coordinate spaziali e temporali e dai dati anagrafici, compresi quelli dei personaggi-comparse) alla parabola esistenziale e relazionale della voce narrante: basta giustapporre, per rimanere sulla soglia del libro, il risvolto di presentazione della trama e quello dove si trova la biografia di Bazzi.
In Febbre quel sottile voyeurismo che Ulrich Schulz-Buschhaus ha individuato alle origini del successo del moderno genere romanzesco raggiunge un vertice considerevole: qualcosa di simile alla pressoché completa e volontaria esposizione di sé operante da un paio di decenni nei reality show e poi nei social network. La sensazione è davvero di spiare in quanto di increspato e indicibile ci sia in una vita ostentatamente offerta come reale e vera. Il piglio del narratore è quello di chi fa i conti con se stesso e il proprio passato davanti a un pubblico che, lungi dall’essere astratto e distante, tende a sovrapporsi alla cerchia (degli amici, dei follower?) di chi interagisce con lui abitualmente: «balbetto ancora adesso, anche se dite che non si sente» (p. 266).
Febbre è allora un romanzo o piuttosto una confessione autobiografica – o magari uno smisurato post di Facebook? (Sempre che a tali distinzioni si debba ancora attribuire un significato dirimente.) Al di là di queste incertezze, sarà il caso di rispettare l’indicazione editoriale e autoriale: dunque, romanzo sia, sebbene più schiettamente e piattamente autobiografico di quanto non siano mai stati i grandi paradigmi novecenteschi – si parva licet… – di questo genere ibrido, dalla Recherche alla Coscienza di Zeno fino alla Vita agra e oltre. A ogni modo, Febbre verrà qui esplorato come un romanzo autobiografico e di formazione (da non rinchiudere nei confini della cultura Lgbt), e il suo protagonista come una funzione del testo, un narratore intradiegetico che adotta una focalizzazione fissa su di sé.
L’elemento che caratterizza il libro sul piano strutturale è l’alternanza di capitoli dedicati alla «febbre» (dai primi sintomi dell’Hiv, nel 2016, alla diagnosi della malattia, dalla depressione post-traumatica al principio della cura e a una possibile rinascita) e di altri capitoli dedicati alle tappe fondamentali, altrettanto ardue, dell’infanzia e della giovinezza: dalla nascita “rozzanese” alle alterne fortune familiari e scolastiche, dalla rivendicazione dell’omosessualità agli amori sulle chat di incontri, fino alla relazione stabile con un compagno. Ciò che emerge è una sorta di doppio tour de force attraverso le dure prove che il protagonista ha affrontato sin dai primi anni di vita e che ancora, alla fine del libro, deve fronteggiare, sia pure con uno spirito del tutto nuovo. Potremmo dire di avere tra le mani un romanzo di formazione alquanto spietato, ma provvisto di un rinfrancante lieto fine: una personalissima via crucis che fiduciosamente termina con la canonica resurrezione.
A dare unità ai due filoni narrativi che si intrecciano è naturalmente lui, l’eroe-vittima, il protagonista braccato, debolissimo in apparenza, quasi inscalfibile nel fondo, vincitore ferito e nel contempo rinvigorito dalle fatalità. Lo slittamento continuo dal passato al presente e viceversa non è soltanto un valido escamotage per movimentare la narrazione: quel concatenarsi dei tempi, come vedremo, suggerisce l’esistenza di un sotterraneo legame, di una rispondenza fra la “malattia dell’anima”, l’avversaria dai mille volti che ha afflitto la giovinezza del protagonista, e la “malattia del corpo”, esplosa in lui sulla soglia dei trent’anni non senza effetti (terapeutici) sull’altra malattia. Seppure così diverse, queste patologie sono gli snodi decisivi di un destino da sempre in stato di emergenza.
Ma veniamo al linguaggio, a quel peculiare uso della lingua che dovrebbe contraddistinguere lo specifico letterario. In Febbre gli elementi primari sono due: la semplificazione e, con solo apparente contrasto, l’enfasi. La semplificazione agisce a fondo sulla sintassi: frasi brevi o brevissime e un’ipotassi assai attenuata sono gli ingredienti primari, in special modo nelle parti in cui l’io narrante rievoca la fanciullezza simulando a tratti la voce del sé di allora. In modo non dissimile il lessico si regge su una medietas che non pone al lettore alcuno ostacolo (e gli offre però poche emozioni), scostandosi dalla lingua standard quasi esclusivamente per il ricorso ad alcuni tic giovanilistici, come l’uso di «tipo» nel significato di “come”, “all’incirca”: «[i calendari] li appendo nell’armadio – tipo camionista» (p. 243).
L’enfasi punteggia le pagine, se così si può dire, senza dare troppo nell’occhio, ma a conti fatti caratterizza il libro. In Febbre si fa un uso peculiare degli a capo: la sintassi, così scarna e lineare, acquisisce una sorta di elementare magniloquenza per via dei frequenti a capo che isolano singole frasi, anche nominali: «Tumore delle cellule del sangue. / Proliferazione neoplastica. / Leucemia, non sanno ancora se acuta o cronica. / Non sanno ancora se si può fare qualcosa» (p. 206, corsivo nel testo). Anche grazie a questa esposizione grafica, alcune proposizioni accrescono quella sorta di tono epico, a tratti lugubre, a tratti latamente religioso, che già possiedono in grandi dosi: «A Rozzano si litiga sempre, si può anche ammazzare, si viene ammazzati. / È già successo, succederà ancora» (p. 25); «Un pellegrinaggio, da un ospedale all’altro. / Una processione senza fedeli» (p. 230); «Attraverso i vialetti alberati del Sacco sorretto da mia madre. / Pietà in movimento, piccola marcia di resistenti» (p. 261). Gli a capo, inoltre, amplificano il già robusto coté sentenzioso di questa scrittura: «Quando si ha paura davvero, la paura anestetizza anche se stessa» (p. 83); «Gli psichiatri si sa come sono, fanno in fretta» (p. 270); «Altra stirpe, altra razza. / Non è affatto tutto uguale il genere umano» (p. 201).
Nella medesima direzione, quella di una sottile ma insistente magniloquenza ottenuta con minimi mezzi, agiscono le ripetizioni. In questo caso ci imbattiamo in anafore (come si vede già in alcuni passi appena riportati), in duplicazioni di intere frasi (il titolo di ciascun capitolo deriva, come capita in poesia, dall’incipit del capitolo stesso), in agglomerati di aggettivi e sostantivi (per lo più tre, e ridondanti: «Rozzano è Sud sequestrato, incattivito, in cattività», p. 25; «sono depresso, esaurito, malato mentale», p. 252; «carcassa, straccio, bambola sgonfiata», p. 250), in elencazioni di verbi o brevi frasi scandite paratatticamente: «Sono carne vulnerabile, infestata: sono un contenitore di sangue impuro, alterato per sempre. Un ammasso di organi e vene e cavità» (p. 114). Su tutto ciò si innestano gli effetti, a loro volta non esenti da iperbolicità, del linguaggio figurato, in particolare metafore, analogie e similitudini: «sotto di noi si trova la radice incandescente delle corrispondenze: padre, figlio, sincronizzati, come in una brutta sceneggiatura» (p. 207).
La scrittura di Febbre è fondata, insomma, su un’estrema semplificazione linguistica (ottenuta con l’accostamento iterato di brevi e ordinari mattoni verbali) e su una ricercatezza che tende a sdrucciolare involontariamente nell’enfasi. È questa la formula che ingloba e fonde la brevitas di una dizione non paludata, anzi programmaticamente easy, smart, e insomma “giovane”, con l’esibizione di una certa acutezza dello sguardo e altrettanta sensibilità dello spirito.
Si è detto dell’iterazione, che però in Febbre non è solo una figura linguistica: è anche il meccanismo mentale più tipico di un narratore che descrive la propria storia ribadendo a più riprese il medesimo pattern autointerpretativo, quello della persecuzione subita. A partire dai natali a Rozzano si assiste a una lunga sequenza di iatture e sopraffazioni: «Rozzano l’ho odiata. / Perché sono nato lì? Io che leggo, scrivo, disegno. Io che sono il più amato dai professori. / Perché proprio a me? / Io con voi analfabeti, io non c’entro niente» (p. 31). L’elenco delle sventure è troppo lungo per fornirne un’esemplificazione esaustiva. Basti ricordare il padre assente e bugiardo, «morboso, ossessivo, maniaco dell’ordine e della pulizia» (p. 45) e la madre che in un’occasione cerca di prenderlo a bastonate: «Penso che mia madre, ora che sto diventando scomodo, voglia sbarazzarsi di me. / Madre ammazza il figlio, il compagno complice» (p. 156, corsivo nel testo). Si pensi anche ai maschi della sua famiglia, tutte figure negative e spesso violente, compresi i nonni: «Orso, orco, mazzabubù: se la gente sa che c’è lui, a casa nostra non si avvicina. / Neanche citofona. / Le amiche della nonna lo dicono sempre. / Quando c’è il nonno io devo stare attento a come mi muovo» (p. 80). Oppure si pensi ai coetanei che, in ogni ordine di scuola, lo deridono per la sua non taciuta diversità: «Ricchio’. / Femminiell’. / Frocio. / Frì Frì. / Alle elementari attacca una cantilena che non smette più» (p. 135).
Ci troviamo di fronte a un ragazzino che cresce fra sentimenti di abbandono e di diversità, fra solitudine, balbuzie, enuresi notturna e incapacità di difendersi dai coetanei e dagli adulti. Di tutto il buono che quell’infanzia ha racchiuso non emerge quasi nulla, se non per brevi e rari cenni. È significativo come, e con quale rapidità, venga rievocato il rapporto con la compagna divenuta la sua “fidanzata” fra la terza e la quinta elementare. Anche in questo caso c’è spazio quasi soltanto per il rammarico: «Dopo le elementari non ci vediamo quasi più. […] Era l’unica amica che avevo» (p. 148).
Non stupisce che la condizione oppressiva dimori non solo negli eventi esteriori, ma anche (o anzitutto) nella mente del protagonista. Costretto dalla conta fatalmente perduta con gli amici, deve recuperare la palla con cui giocavano, scendendo nei bui corridoi delle cantine del palazzo, luogo ideale per proiettare le proprie paure: «C’è qualcuno, aiuto, nonna, mi insegue. Arriva, mi prende, mi uccide» (p. 106). La medesima dinamica mentale si impone in rapporto al vicino del piano di sotto, che è sì un noto malvivente rozzanese, ma che certo non sta ad aspettare ad armi spiegate il nostro protagonista: «io ci devo passare davanti alla sua porta. Abito qui. E ogni volta che ci passo, da solo, ho paura che lui esca e mi spari» (p. 170). Del resto, l’evento più antico narrato nel romanzo, quello con cui si apre la lunga ricapitolazione dell’infanzia, è un tentativo notturno di irruzione nella casa popolare in cui il protagonista viveva: «Io e la mamma siamo da soli quando vengono a spaventarci» (p. 14). Infine, è questo – al capo opposto della cronologia del libro – il frutto del colloquio con una psichiatra: «Quindi io sentirei cose che non esistono, sintomi immaginari? / Somatizzo le storie che invento, manipolo l’incarnazione: sono un prestigiatore» (p. 272).
Su queste basi avviene il lungo e dolente contenzioso contro il reale, con cui il protagonista a ben guardare non ha mai inteso venire a patti. È precisamente questa la sua forza, al di sotto delle tentazioni vittimistiche: «a calcio non gioco – non ci voglio giocare» (p. 137); «Agli esami di quinta [elementare], il giorno del tema, io metto le Buffalo […]. Hanno la zeppa altissima, liscia, più alta del marciapiede. Unico, diverso, speciale. Le scarpe che non ha ancora nessuno, le scarpe delle Spice Girls» (p. 146). In parallelo, spende l’intera giovinezza a tratteggiare e a inseguire faticosamente un’immagine grandiosa di sé, sempre a distanza di sicurezza dalla mediocrità: «mi confermo speciale, mi so ancora distinguere» (p. 194); nella nuova scuola «sarò il più bravo. / Il più bravo di tutti» (p. 268); «Pratico yoga per essere venerato, come faccio con lo studio. Vi so sbalordire, guardatemi» (p. 306).
Ne deriva una condizione conflittuale, in cui il sentimento di emarginazione si combina angosciosamente alla consapevolezza del proprio valore inespresso. Ne derivano anche ansia e disperazione: quelle di chi alimenta fra sé e sé un ideale di grandiosità (dovendone però cercare sempre nuove conferme negli imprevedibili giudizi altrui) e si ritrova infine a misurare la quotidiana sfasatura fra quell’ideale e la realtà. E non bastano a risolvere questa contraddizione gli svariati tentativi del protagonista di “trovare se stesso”, contro tutto e tutti: dalla scuola di parrucchiere al liceo artistico, dalla cartomanzia all’amore, dalle costellazioni zodiacali allo yoga e così via. Febbre è insomma la radiografia di un’esistenza tormentata sin dall’inizio: il motto della voce narrante, sempre in bilico tra fallimento personale e torti altrui, potrebbe essere: «Voglio sempre le cose sbagliate: chi me l’ha insegnato?» (p. 108).
Tutto ciò fino alla diagnosi dell’Hiv, che è allo stesso tempo il vertice della fatalità del male e il punto di svolta verso un equilibrio fino ad allora sconosciuto. Com’è possibile che una tale diagnosi segni uno scarto positivo nel rapporto dell’io con la vita? «Non so più chi voglio essere, dicevo ogni volta. Ciclicamente, saranno vent’anni. Non so chi sono, non l’ho mai saputo. […] / Ora sono stato accontentato. / Anch’io ho una qualità stabile da esibire al mondo. Di cui non posso sbarazzarmi. / Il mio titolo di studio è un referto medico, l’esito di un prelievo del sangue.» (p. 308)
La malattia conduce il protagonista a un’identità stabilizzata, vale a dire a un’adulta accettazione del limite, da cui può finalmente muovere per costruire la propria maturità, al riparo delle precedenti velleità massimaliste. “Macchiato” dall’Hiv, si convince in un primo momento di aver perduto tutto. Ma dai drammatici mesi successivi esce rinvigorito e come liberato dai suoi passati, infecondi atteggiamenti: «Il sole è alto. L’aria è più calda. Nel piazzale di fronte all’ospedale mi sfilo la felpa: iniziativa, movimento, è una reazione. […] Di quello che ero, in ogni caso, non resta più niente» (p. 273). Torniamo così da dove siamo partiti, ossia dallo statuto ambiguo, fra romanzo e confessione autobiografica, di questo libro, che infine è esso stesso la prova tangibile e reale dell’esito positivo di una lunga crisi esistenziale iniziata a Rozzano e superata anche grazie alla malattia, qui intesa originalmente come processo di accettazione della propria fallibilità, ai propri occhi e agli occhi altrui.