Un coro a poche voci: il “madrigale” di Andrea Tarabbia

In Madrigale senza suono Andrea Tarabbia ritrova strutture e temi dei suoi precedenti romanzi (il racconto polifonico, l’indagine sul male e la bellezza), ma cambia radicalmente scenario, affrontando la vicenda tormentata di Carlo Gesualdo da Venosa, madrigalista e uxoricida. Tra manoscritti ritrovati e scenari gotici, il romanzo si incaglia in una serie di stereotipi di genere e finisce per farsi testimonianza di una verità universale, ma per questo poco incisiva: l’arte riscatterà l’uomo.
 
Vincitore dell’ultima edizione del premio Campiello, dove ha superato di misura i romanzi di Giulio Cavalli, Paolo Colagrande, Laura Pariani e Francesco Pecoraro, Madrigale senza suono (Bollati Boringhieri, 2019) arriva a concludere un percorso iniziato da Andrea Tarabbia quasi dieci anni fa con il libro che lo aveva rivelato a lettori e addetti ai lavori: Il demone a Beslan (Mondadori, 2011). Il memoriale dell’unico attentatore sopravvissuto all’immane strage della scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord (386 vittime nell’arco di due giorni nel settembre 2004), era stato poi seguito da un altro “romanzo russo” (d’altra parte Tarabbia è slavista di formazione), nuovamente imperniato sulla testimonianza-confessione di un pluriomicida, Andrej Čikatilo, il cosiddetto “mostro di Rostov”, protagonista del Giardino delle mosche (Ponte alle Grazie, 2015). Anche Madrigale racconta una storia di morte e di demoni, ma in tutt’altro contesto e in tutt’altra chiave, più letteraria e al tempo stesso più accessibile, tanto da far breccia nelle preferenze della giuria del premio veneziano più di quanto non fosse riuscito al libro precedente (anch’esso arrivato in cinquina).
Ma andiamo con ordine. Madrigale senza suono narra la vita di Carlo Gesualdo principe di Venosa, figura oscura della musica moderna, madrigalista e tessitore di epoche – l’originalità del Rinascimento con la reinvenzione del Barocco –, sperimentatore di melodie inattuali, capace di incuriosire un genio contemporaneo come Igor Stravinskij, a cui si deve la riscoperta novecentesca del compositore, oltre che il capolavoro Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD Annum. Nel corso dei secoli la figura artistica di Gesualdo è stata in parte oscurata – ma in parte anche ingigantita – dal delitto di cui si macchiò: l’uxoricidio nei confronti della bellissima moglie Maria d’Avalos, colpevole di tradimento con Fabrizio Carafa, anch’egli ucciso. Un omicidio necessario per la legge dell’onore invalsa a quel tempo, una vendetta che doveva restituire la dignità al marito e mettere a tacere i pettegolezzi; un assassinio che tuttavia avrebbe tormentato per sempre il suo artefice, scavando nella sua anima un pozzo nero, da cui però – e qui sta l’ipotesi romanzesca di Tarabbia – sarebbero nate le cose più complesse e raffinate della sua produzione musicale.
Se anche in questo caso Tarabbia decide di muoversi nel campo largo, e sempre più frequentato in Italia, dell’ibridazione tra storia e invenzione, adottando un modulo narrativo in cui i punti certi della biografia del personaggio sono intervallati da ampi affondi psicologici necessari a restituircene i rovelli, la vicenda di Madrigale si radica in un passato lontano e per certi versi anche poco conosciuto, in cui storia e leggenda si confondono a tal punto che – come ha ammesso lo stesso autore – documentarsi non è sufficiente per comprendere cosa sia effettivamente successo. Proprio per questo, molto più che nei libri precedenti, Tarabbia decide qui di premere sul pedale del romanzesco, e per farlo convoca strutture, caratteri ed espedienti di due generi “tipici” del romanzo moderno: il gotico e lo storico.
Madrigale senza suono è infatti una storia di castelli e di prigioni, di riti alchemici e di stregonerie, di omicidi e di agnizioni, restituita al lettore da un manoscritto ritrovato sulla cui attendibilità non è consigliato scommettere. È stato Gioacchino Ardytti, servitore personale di Carlo Gesualdo, suo alter ego deforme e fantasmatico, a tenere una cronaca della vita del padrone, in cui non mancano fatti al limite del soprannaturale e segreti inaccessibili a chiunque non ne sia il detentore. Delle contraddizioni di questa testimonianza si accorge naturalmente Igor Stravinskij, seconda voce del romanzo, che incappa nel manoscritto in una libreria antiquaria di Napoli e, incuriosito dal suo titolo (Cronaca della vita di Gesualdo Principe di Venosa), decide di acquistarlo e farlo tradurre in breve tempo, così da poterlo leggere. Questa cronaca viene poi inviata al professor Glenn E. Watkins, «il più grande conoscitore di Gesualdo che l’America possieda», con un avviso: «forse, il modo migliore per avvicinarla è leggerla come un romanzo». Watkins è anche il destinatario dei commenti a margine che Stravinskij mano a mano trascrive, durante la lettura che lo porterà alla decisione di reinterpretare i madrigali dell’ombroso musicista per un’occasione storica: la prima esecuzione del Monumentum alla Fenice di Venezia, nel 1960.
La figura del compositore russo ha il compito di accompagnare la lettura del manoscritto e così di attualizzare il personaggio di Gesualdo, colmando la distanza che separa il lettore contemporaneo da una vicenda vecchia di secoli, che dicerie e leggende hanno ormai consolidato nella vulgata del “genio uxoricida”. Stravinskij restituisce vitalità a quella storia, e al tempo stesso consente al lettore di toccarla con mano senza bruciarsi al fuoco della violenza e della colpa del madrigalista. Accade così che su Stravinskij, più che su Carlo, convergano le istanze di immedesimazione del lettore, pronto a riconoscersi nell’animo sensibile di chi, con piena lucidità, si lascia insidiare dai sentimenti e dai tormenti altrui, soprattutto quando conducono alla creazione sublime: «Ecco, lui non lo sa ancora, ma adesso che l’ha uccisa sta per entrare nel momento più fulgido della sua vita di musicista. È un paradosso, ed è ancora più paradossale il fatto che io senta più di prima di dover fare qualcosa per lui».
Insieme a Stravinskij, allora, si entra, senza timore di esserne travolti, nell’animo di Carlo, abitato da un demone che lo tormenta e lo condanna a una vita di paradossale eremitaggio, che nessuna amicizia e nessun amore (né quello legittimo per la seconda moglie Eleonora d’Este, né quello fomentato da stregoneschi intrugli con la domestica donna Aurelia) riusciranno a consolare: «le minacce non vengono da lontano, da nemici esterni, ma da un demone che abbiamo o che possiede chi ci sta accanto, e che ci frolla l’anima per insediarvisi, e masticarla». È il dolore ciò che definisce l’esistenza di Carlo: quello provato nell’uccidere Maria e il suo amante, quello provocato dalla morte dei suoi figli maschi. Ma il dolore è anche ciò che legittima la sua arte, ciò che la motiva e la rinnova, fino a trasformarla nella musica dissonante che esce dallo zembalo dove Carlo si rinchiude per giorni (e dove morirà) e che perturba tutti coloro che ne avvertono anche solo qualche nota. Tanto è il dolore provato in vita che la musica a cui Carlo affida la propria stessa vita dovrà essere unica e definitiva: «Voglio che in me si esaurisca tutta la musica possibile».
Carlo ambisce a una musica oltre la quale non potrà esserci che imitazione: solo così potrà sublimare il senso di colpa (che trova incarnazione in un segreto inquietante e orribile, tenuto nascosto nelle cantine del castello), eternandolo in un’opera che celebri l’amore e il suo annullamento. Interessa poco, a questo punto, se Carlo abbia effettivamente raggiunto il suo obiettivo, se la sua musica rappresenti davvero una novità assoluta oppure il gioco illusionistico di un manipolatore di note e di coscienze («fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione»), o ancora la stonata follia di un uomo consumato da un «abisso di cupezza». Quel che conta è che il tormento morale ed esistenziale ha trovato una valvola di sfogo, un esito che, pur non felice, lascia senz’altro intravedere una via di fuga: l’arte come cura del male e sua trasfigurazione su un piano ulteriore, della memoria, della gloria, addirittura della storia della civiltà.
Se è vero che questo romanzo conclude, in maniera forse un po’ sbilenca, il percorso intrapreso da Tarabbia con i due romanzi russi, allora possiamo dire che il cerchio effettivamente si chiude, perché l’ultimo tassello offre una soluzione alla lunga riflessione sulla colpa, sulla necessità del male, e anche sul rapporto tra orrore e bellezza, condotta lungo tutto il trittico. E però, verrebbe da dire, proprio perché questo libro sembra fornire qualche risposta definitiva, per questo appare meno convincente dei precedenti, in cui la sospensione del giudizio sui narratori-carnefici e sulla loro “versione” della storia attribuiva un ambiguo fascino al racconto.
Colpa forse dei tanti espedienti di genere adottati da Tarabbia, “strumenti” utili a definire l’atmosfera del racconto, ma che finiscono per irrigidirne la trama, chiudendola in una gabbia fatta di formule tipiche che difficilmente riescono a parlarci, se non con il sorriso sardonico del gioco postmoderno. Colpa forse di quello stesso Stravinskij che avremmo voluto parlasse di più e non si limitasse a cauterizzare la figura controversa di Gesualdo risolvendola nel genio artistico, ma si facesse carico dei suoi dubbi, lasciandosene tormentare e prolungandoli anche oltre gli esiti della sperimentazione musicale. Tarabbia ha deciso in Madrigale di porre esplicitamente, più che in passato, la propria scrittura sotto il cappello della letteratura – tra ibridazioni di genere, ribaltamenti della prospettiva narrativa e dichiarazioni metaletterarie –, ma nel momento in cui apre il racconto a una riflessione su se stesso, resta a metà del guado, non riuscendo a dare forza critica alla cornice ragionativa e ingigantendo, al contrario, la porzione citazionistico-imitativa, che finisce per esaurire presto le proprie potenzialità.
Può essere utile ricordare, al lettore digiuno di competenze musicali, che il madrigale è una composizione pensata per una pluralità di voci, e che nell’opera di Gesualdo queste si intrecciano con particolare complessità e raffinatezza. Misurarsi con la vita e la morte di questo artista significa inevitabilmente confrontarsi con la dimensione polifonica della sua musica. E però, rispetto ai precedenti romanzi, dove rendeva indecidibile la posizione – morale e ideologica – del lettore, la composizione polifonica del racconto in Madrigale senza suono sembra essere utilizzata con la sordina da Tarabbia. La coralità tragica si stempera in un duetto che, tra dichiarazioni enfatiche e scenari macabri, celebra il potere salvifico dell’arte, facendo propria una verità senza tempo e per questo sempre attuale – l’arte non si esaurisce negli individui e ne riscatta le azioni, continuando a vivere nei posteri. Una verità che, tuttavia, s’impone sempre quando si preferisce ritrarre Medusa, piuttosto che lasciarsene impietrire.