Retoriche dell’expat

Diversi, nell’ultimo anno e mezzo, i libri di autrici che hanno raccontato la propria esperienza di vita all’estero o che hanno messo in scena personaggi sospesi fra paesi, lingue e immaginari diversi. E se talvolta le loro storie sembrano assecondare i cliché legati all’idea di un mondo globalizzato e di una generazione «in fuga», in altri casi le risorse del romanzo storico e di un saggismo “personale” favoriscono esiti originali, lontani dalla retorica giornalistica dell’espatrio generazionale.
 
«È un paese per donne», scriveva su Tirature ’19 Giuseppe Sergio, a suggerire come siano ormai molte, anzi moltissime, le donne di origine straniera che una volta arrivate in Italia scelgono di raccontare le loro storie di migrazione e, spesso, integrazione.
Il rilievo, in realtà, non dovrebbe più di tanto stupire. Come del resto ricorda lo stesso Sergio, sono ormai trascorsi trent’anni da quel 1990 in cui si indica solitamente l’inizio di una letteratura italiana della migrazione, e in fondo si può dire che da allora, sebbene con notevoli resistenze, una sensibilità in senso lato postcoloniale ha iniziato ad attecchire anche in Italia.
A stupire, semmai, potrebbe essere un fenomeno opposto a quello appena ricordato. Mi riferisco al fatto che nell’ultimo anno e mezzo sono stati pubblicati alcuni libri di scrittrici italiane che hanno scelto di vivere all’estero, e che dall’estero hanno scritto della loro esperienza, o di quella di personaggi che vivono “a cavallo” fra l’Italia e il paese in cui si sono trasferiti più o meno stabilmente. Ricorrendo a un neologismo giornalistico, si potrebbe parlare di expat delle lettere italiane, di autrici che dall’Italia hanno «espatriato», allontanandosene per lavoro, per studio, o comunque per motivi personali salvo poi farvi ritorno spesso e volentieri, all’insegna di un pendolarismo esistenziale che è insieme cruccio e virtù di molti giovani (e meno giovani) cittadini del mondo globale, come sempre più spesso ci viene ripetuto. Del resto, basta una rapida ricerca in Rete per verificare come siano sempre di più i testi sull’argomento (fra gli ultimi, Migranti per caso. Una vita da expat di Francesca Rigotti, Raffaello Cortina, 2019), ma anche le comunità online i cui utenti condividono le loro esperienze di vita all’estero o gli articoli che fra le altre cose forniscono liste di expat books da non perdere, spiegano come scrivere un perfetto expat novel o aggiornano sull’iter produttivo di The Expatriates, la serie tv basata sull’omonimo romanzo dell’anglo-hongkonghese Janice Y.K. Lee.
Come che sia, si tratta di una categoria da maneggiare con cautela, sia perché rischia di spostare l’attenzione su aspetti legati più alla biografia di chi scrive che non ai suoi testi, sia, soprattutto, perché i modi in cui le scrittrici in questione raccontano la propria esperienza o quella di personaggi che vivono sospesi fra due culture possono essere molto diversi, e non solo dal punto di vista dei contenuti.
Intanto, nella cinquina di finalisti dell’ultimo premio Strega figuravano due testi collocabili su questo sfondo, benché fra loro, appunto, abbiano pochissimo in comune. Da un lato, Il rumore del mondo (Mondadori, 2018) di Benedetta Cibrario, classe 1962, da tempo trasferitasi a Londra e già autrice di tre romanzi, con il primo dei quali, Rossovermiglio (Feltrinelli, 2007), nel 2008 aveva vinto il Campiello; dall’altro lato, La straniera (La nave di Teseo, 2019) di Claudia Durastanti, classe 1984, anche lei da tempo trasferitasi in Inghilterra e anche lei al terzo romanzo.
Senza troppi giri di parole, e a dirne in breve, quello di Cibrario si presenta in tutto e per tutto come un romanzo storico. Non un romanzo neo-, meta-, post-storico, e via dicendo, ma un “classico” romanzo storico, con tanto di ricerca sulle fonti documentata a fine volume e la precisazione che per esigenze narrative l’autrice si è talvolta discostata dalla storia ufficiale. Siamo nel 1838, quando Anne Bacon, figlia diciannovenne di un ricco mercante di seta, si trasferisce dall’Inghilterra in Italia per seguire il marito, ufficiale dell’esercito sabaudo. O meglio, dalla Londra avamposto del commercio mondiale si sposta verso una Torino contesa fra rivendicazioni da ancien régime e slanci verso un “nuovo” ancora non bene a fuoco. Di mezzo, un viaggio in cui contrae e sconfigge il vaiolo (ma non le cicatrici che la malattia lascia sul suo corpo) e poi, una volta arrivata, il confronto quotidiano con una lingua nuova, con un marito tutt’altro che devoto, un suocero fieramente conservatore e i costumi di un’alta società dalla quale sistematicamente si ritrae.
Soprattutto, però, lungo il romanzo ci sono gli effetti del «vento del secolo», delle idee che in particolare grazie a quotidiani e riviste iniziano a circolare per tutta Europa, riducendo virtualmente le distanze fra popoli e nazioni. Il narratore onnisciente che dall’alto tiene le redini della storia si piega continuamente verso i personaggi per registrarne timori, speranze e reazioni di fronte a un mondo in rapido cambiamento. Così, il marito della protagonista che a Londra fa «indigestioni di modernità» una volta tornato in Italia assume posizioni ultraconservatrici; viceversa, il suocero accetta di investire i suoi capitali per produrre seta nelle campagne torinesi, mettendosi così al passo delle manifatture londinesi; la stessa Anne gradualmente si ambienta, tanto che quando lo Statuto albertino verrà approvato si unirà alla folla festante realizzando che nel giro di dieci anni il paese in cui è arrivata ha raggiunto «d’un balzo quello in cui è nata». C’è addirittura un personaggio, la signora Theresa Manners, che spostandosi da Londra a Torino non solo scopre il piacere del viaggio – tanto che si reinventa compilatrice di guide sull’Italia a uso dei turisti inglesi –, ma arriva a dire: «tutto ciò di cui siamo fatti, l’Inghilterra e io, riesco a vederlo con chiarezza soltanto quando ne sono lontana».
Insomma, sullo sfondo di uno dei decenni decisivi per la storia d’Italia è raccontata la storia di una lenta negoziazione identitaria, il tentativo di sincronizzarsi con i ritmi di un altro paese, di trovare il proprio posto in una realtà lontana da quella di partenza.
Tutt’altro è invece il discorso portato avanti nella Straniera. Quello di Durastanti, per cominciare, non è un vero e proprio romanzo, nonostante sia stato considerato e apprezzato in quanto tale (è stato per esempio primo nella sezione Narrativa della tornata di maggio 2019 delle rinate Classifiche di qualità – ex premio Dedalus-Pordenonelegge). Di eventi “avventurosi” non ce ne sono, né sembra esserci alcunché di inventato. Se proprio, si potrebbe parlare di un romanzo autobiografico, o forse, come oggi si dice spesso, di un personal essay, di un saggio poco rigoroso dal punto di vista argomentativo e più portato a mettere in risalto la soggettività di chi scrive, l’esperienza personale dell’autrice. E l’esperienza, in questo caso, è anzitutto quella di un costante straniamento linguistico e identitario.
Nata a Brooklyn da genitori italiani, entrambi peraltro sordomuti, la protagonista rientra a sei anni in un paesino lucano «in cui c’erano più capi di bestiame che persone», per poi però fare spesso ritorno negli Stati Uniti, e solo una volta maggiorenne stabilirsi prima a Roma e poi a Londra: che però non è la città cui guardare con quel misto di soggezione ed entusiasmo che brillava negli occhi dei personaggi del Rumore del mondo, ma la città degli attentati a London Bridge, in preda alle politiche dell’austerity, in cui «Dopo Brexit, gli expat sono diventati immigrati come gli altri» e «solo per sentirsi più eleganti ci si definisce stranieri». A legare il tutto, in un libro che procede non cronologicamente ma per argomenti, mescolando ricordi a citazioni da telefilm, articoli di divulgazione scientifica, brani pop e opere d’avanguardia, una serie di riflessioni sul senso di estraneità che si prova nello stare in bilico fra due culture, sul sentirsi sempre e comunque fuori posto e sulle frizioni del sé che ciò comporta.
Appunto: le cose non potrebbero stare in modo più diverso. Se da una parte le risorse del romanzo storico sono piegate al racconto di ciò che significa sentirsi a casa in un’altra cultura, dall’altra le risorse sono invece quelle di un saggismo disinvolto ma a suo modo molto cerebrale che attinge ai riferimenti più diversi per raccontare l’impossibilità di mettere radici, il tentativo di definirsi a partire dagli scarti fra lingue, paesi e immaginari diversi.
Eppure, è proprio fra questi due estremi che si collocano altri libri pubblicati nell’ultimo biennio.
La storia raccontata in Lux (Neri Pozza, 2018) da Eleonora Marangoni – studiosa di Proust e freelance nel mondo della comunicazione, milanese d’adozione ma a lungo di stanza a Parigi – sembra in effetti riprendere quella del Rumore del mondo. Anche in questo caso si viaggia dall’Inghilterra all’Italia; e anche in questo caso le ragioni del viaggio sono familiari, visto che a muovere l’intreccio è un’eredità, nella forma di un albergo scalcagnato in una remota isola italiana, di cui il protagonista si deve fare carico. Solo che qui siamo in pieni anni duemila, il tragitto dura solo poche ore e il tempo per adattarsi a un nuovo contesto è poco. Posto che ci si debba effettivamente adattare. In Lux, di fatto, l’Italia quasi non c’è. Il romanzo si svolge principalmente nell’albergo in questione, il colore locale è legato a dettagli residuali, l’isola stessa che fa da sfondo alla storia potrebbe trovarsi ovunque in Italia. Né la cosa sembra turbare più di tanto i personaggi. Del resto, il protagonista (un trentenne light designer anglo-italiano) ha conosciuto in aeroporto l’attuale compagna (una chef che lavora con gli scarti delle verdure), e a Londra il loro cruccio principale consiste nello scegliere in quale ristorante etnico andare a cena. L’esatto opposto, insomma, della Straniera, e insieme una perfetta allegoria dello straniamento culturale, ovvero della sua assenza, all’epoca di Ryanair e Airbnb – e infatti quasi subito ci viene detto che la coppia protagonista fa parte «della generazione di europei che è stata adolescente all’epoca dei voli low cost e ha iniziato a lavorare quando i mercati globali dettavano già la legge da un pezzo».
Stessa generazione ma storie ben diverse quelle delle protagoniste del Pieno di felicità (minimum fax, 2019) di Cecilia Ghidotti e di Città irreale (Ponte alle Grazie, 2019) di Cristina Marconi, il primo un’autofiction non dichiarata (ma facilmente riconoscibile in quanto tale, e comunque, con ogni probabilità, più auto che fiction), il secondo sì un romanzo, ma in cui è probabilmente filtrata l’esperienza personale dell’autrice, corrispondente da Londra per «Il Messaggero» e «Il Foglio». Sia per Cecilia che per Alina il percorso è contrario a quello tracciato in Lux, dato che dall’Italia si vola in Inghilterra. Ma soprattutto, tutt’altre sono le ragioni che le spingono a spostarsi. Dopo avere studiato a Bologna, Cecilia si trasferisce a Coventry assieme al fidanzato, e come lui prova a proseguire nella carriera universitaria tentando un secondo dottorato, quindi cavandosela come può in un mondo della ricerca fatto di paper, application, convegni ma soprattutto di quotidiane microscopiche frustrazioni. In Italia, intanto, le amiche si sposano, diventano mamme, alcune iniziano addirittura a fare carriera: insomma provano a mettere radici, mentre lei sembra arrendersi a una sorta di “fuorisedismo” esistenziale, all’idea che la vita adulta possa riprodurre con variazioni minime quella dello studente universitario (e infatti nella provincia bresciana dove vivono i genitori la protagonista può tornare ogniqualvolta ne sente il bisogno).
Alina, invece, da Roma vola a Londra, e una volta arrivata, rimboccandosi le maniche, ce la fa per davvero, trovando un buon lavoro, l’amore della vita, e un equilibrio nella fluidità di una città che non perde occasione di magnificare, sottolineando come lì torni a intravedersi quel futuro che in Italia sembra scomparso. Specularmente a lei, d’altra parte, il fratello laureato che ha scelto di rimanere si barcamena fra contratti senza sbocchi e lavoretti saltuari, vittima suo malgrado di un paese «che trattava i giovani come postulanti molesti», diffidente «verso quelle forme di sperimentazione, anche folle, che altrove portano al successo» (ma Cecilia, nel Pieno di felicità, lo aveva detto più chiaramente: «Però che ci hanno rubato il futuro è vero»).
Ora, come si può intuire, il rischio a cui i romanzi appena passati in rassegna si espongono è di cedere a una sorta di doppia retorica: quella, da un lato, di una generazione cosmopolita ovunque a suo agio; e quella, dall’altro, del precariato umano e intellettuale, di una generazione «in fuga», che ha appreso sulla propria pelle, come i protagonisti di Lux, che «poltrire mentre tutti lavorano è la rivincita dei liberi professionisti che non conoscono weekend», che come la protagonista di Città irreale passa le giornate «a riempire fogli Excel, serate a guardare serie televisive su un lettino singolo e scodelle di zuppe giapponesi al venerdì come unico diversivo», o che nell’Ikea, come la protagonista del Pieno di felicità, trova un «punto di riferimento per orientarsi e sentirsi a casa». Non per caso, proprio nel Pieno di felicità si allude a Teoria della classe disagiata (minimum fax) di Raffaele Alberto Ventura, che all’altezza del 2017 (ma i ragionamenti alla base del libro circolavano da tempo in Rete) aveva tracciato il profilo di quella classe «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per poterle realizzare». E d’altra parte, proprio come nella Teoria di Ventura, che si apre affermando che «Questo libro inizia da me, come dire che inizia da noi», sia nel romanzo di Ghidotti che in quello di Marconi si ricorre spessissimo al “noi”, si parla della «nostra generazione di italiani delusi», di “noi” si dice che «eravamo cosmopoliti, europei, solidali, antirazzisti», come se il vero protagonista delle storie raccontate fosse una prima persona plurale in cui il lettore è invitato a riconoscersi. E a una logica non del tutto diversa risponde in Lux l’azione di un narratore onnisciente (molto più classicamente, ovvero invadentemente onnisciente rispetto a quello di Cibrario) che astrae e generalizza ciò che i personaggi vivono, quasi fosse mosso dall’ansia di ricondurli a una sorta di modello generale e in ultima analisi di rassicurarci del fatto che noi tutti thirty-something dell’Occidente globalizzato siamo sulla stessa barca (o meglio, sullo stesso aereo low cost).
Che poi, a ben vedere, non è nemmeno il peggiore dei mondi possibili, e con un po’ di buona volontà ce la possiamo fare, un equilibrio nella precarietà si può trovarlo, e non solo perché – alla peggio – mamma e papà continueranno comunque ad aiutarci. Del resto, in Lux il protagonista riesce a mettere a frutto, cioè a reddito, la sua eredità; nel Pieno di felicità per Cecilia si apre uno spiraglio per tornare in università a Bologna, e comunque il fidanzato, alla fine, a “entrare” ce l’ha fatta. In Città irreale, addirittura, la protagonista non solo ritrova l’amore inglese che l’aveva lasciata e diventa mamma, ma si riconcilia anche con la Roma amatodiata. E pazienza se per farlo le conflittualità vanno annullate, se per esempio lo spettro della Brexit dev’essere messo da parte, soltanto vagheggiato nel corso di un dialogo in cui la protagonista sta nel mezzo, capendo peraltro benissimo le ragioni dei leavers (ma d’altra parte, anni prima il fidanzato aveva rinunciato a manifestare contro il G8 di Genova perché – parole sue – aveva troppo da studiare).
Certo, le cose possono essere lette in modo diverso. I personaggi di Marangoni, in fondo, mostrano che è possibile reagire positivamente alle contraddizioni imposte dalla globalizzazione; e l’ostinazione che muove le protagoniste di Ghidotti e Marconi è in fondo un modo di rispondere affermativamente a un’altra retorica, cioè quella vittimistica di chi accetta passivamente la propria condizione, imputandola ad altri.
Anche se forse, in questo senso, finiscono per risaltare tanto più le operazioni di Cibrario e Durastanti, il loro tentativo di dare forma a storie non esemplari, irriducibili a una condizione condivisa. A suggerirlo è fra le altre cose un dettaglio apparentemente accessorio, cioè le colonne sonore dei libri in questione, la musica che nelle loro pagine circola. Se in Città irreale Alina si strugge ascoltando Johnny and Mary di Robert Palmer, una canzone che avrebbe messo nostalgia «anche a un neonato», e se il protagonista di Lux stacca dal lavoro riascoltando classici del rock e non solo (dagli Oasis ai Pink Floyd, da Philip Glass a Bach), nel Rumore del mondo la colonna sonora consiste tanto nel rumore dei grandi eventi che muovono la storia quanto nel brulichio delle idee che agitano i personaggi; e mentre nel Pieno di felicità l’educazione musicale della protagonista sembra ricalcare quella di un’intera generazione di venti-trentenni più o meno blandamente di sinistra – i concerti di Afterhours e Subsonica a diciott’anni, poco dopo Vasco Brondi e il suo esordio «oscenamente generazionale», poi il rock e il folk alternativo, per così dire, di National, Sufjan Stevens, Bon Iver –, nella Straniera la musica sembra al contrario ricondurre a un’esperienza privata, che non può essere “cantata” e condivisa. Così, l’autrice capisce come un limite, o come nel caso dei suoi genitori un handicap, possa essere trasfigurato artisticamente ascoltando I am Sitting in a Room, la performance di Alvin Lucier in cui l’artista incide più volte su nastro lo stesso testo recitato, rendendo infine la sua voce puro suono e annullando così, anche se solo provvisoriamente, la sua balbuzie; e che per provare a collocarsi nel mondo sia necessario anzitutto sforzarsi di ascoltare è suggerito da un disco a suo modo estremo e provocatorio, e cioè Sounds Of Silence, pubblicato dall’etichetta milanese Alga Marghen e costituito soltanto da silenzi tratti da brani di artisti contemporanei.
Metaforicamente (intermedialmente?), è come se da parti opposte fosse indicata la possibilità di raccontarsi sottraendosi a ciò che riconduce a una dimensione collettiva, non urlando e testimoniando a gran voce la propria condizione ma al contrario mettendosi in ascolto di quanto avviene dentro e intorno a noi, come in fondo invita a fare anche l’ultimo romanzo vincitore del premio Pulitzer, tradotto in italiano con un titolo molto simile a quello del libro di Cibrario, e cioè Il sussurro del mondo (La nave di Teseo, 2019) di Richard Powers.
Allo stesso tempo, a essere suggerita è forse anche la possibilità che per raccontare l’esperienza di chi sta nel mezzo, sospeso fra due paesi, due lingue, due culture, le soluzioni a cui attingere non debbano essere necessariamente il frutto di commistioni fra generi e modi di raccontare. Esteriorizzare in personaggi altri, lontanissimi nel tempo, la propria storia personale e raccontarla a partire da risorse saggistiche senza distorcerla finzionalmente sono due soluzioni diversissime, a rigore incompatibili. Ma forse, in tempi di sociologismi a ogni costo e di elogi sperticati dell’ibridismo letterario, rappresentano anche due delle strade più proficue.