Il buon funzionamento di una storia dipende in buona misura dalla figura del cattivo. Se è vero che non si dà trama senza la necessità di superare un ostacolo, identificare l’ostacolo con una volontà individuale, cioè con una persona in carne e ossa, è una delle strategie compositive più efficaci. Ma oltre a svolgere la funzione di antagonisti nell’intreccio, i cattivi risultano spesso attraenti, se non addirittura simpatici. Quali sono le ragioni di questo fenomeno? E come cambia, nel tempo, la distanza fra personaggi positivi e personaggi negativi? Forse i primi decenni di questo secolo segnano anche una nuova tendenza alla polarizzazione. Forse è finito il tempo in cui si trovava sempre qualcosa dell’eroe nel cattivo e qualcosa del cattivo nell’eroe. Sono tornati i cattivi-cattivi?
Cosa sarebbe Otello, senza Jago? o Edmond Dantès, senza Danglars? Cosa sarebbero Renzo e Lucia, senza don Rodrigo? o Tosca e Cavaradossi, senza Scarpia? Se i giusti sono il sale della terra, i cattivi sono il sale della letteratura. E non della letteratura soltanto. Su questo punto Alfred Hitchcock e François Truffaut concordavano: migliore il villain, migliore il film. E non è difficile riscontrare lo stesso principio chiacchierando con gli attori: i personaggi più interessanti da interpretare sono i cattivi. Le ragioni sono molteplici. La più lusinghiera per un attore è che la cattiveria è estranea alla sua indole: da ciò deriva che fare il personaggio del cattivo costituisce, professionalmente parlando, una sfida. La più oggettiva è che molti cattivi sono personaggi ambigui, complessi, sfaccettati, mentre la bontà è monocorde. E in verità, se ci mettiamo dal punto di vista del lettore o dello spettatore, la bontà è certamente meno interessante della cattiveria, perché dai buoni non occorre difendersi. Con i buoni, non bisogna stare in guardia: ci si può abbandonare. Ci si fida.
Però, a ben vedere, le questioni in gioco sono almeno due, abbastanza diverse fra loro. La prima riguarda la narrazione in generale: perché una storia catturi l’attenzione dei destinatari è necessario che qualcosa – almeno all’inizio – vada male. Senza una disgrazia, o un’ingiustizia, o una mancanza, la storia non decolla. Potrà essere uno stato iniziale, una disgrazia o una perdita, una condizione di penuria, persecuzione, prigionia, malefizio; oppure, data una situazione di equilibrio, potrà subentrare un danneggiamento in una fase successiva, come effetto di un’iniziativa o di un evento che a un certo punto si verifica. Ma, in ogni caso, la narrazione si impernia su un elemento negativo: un problema da risolvere, una difficoltà da affrontare, una minaccia da sventare, un torto da risarcire. Al limite, un guasto da riparare. Lo scorso anno ricorreva il cinquantesimo anniversario del primo sbarco sulla Luna; ebbene, non è un caso che quell’epica impresa non abbia prodotto opere di rilievo. Il grande film sulle imprese spaziali è Apollo 13, di Ron Howard (1995): non la celebrazione di una conquista, ma il resoconto di un avventuroso salvataggio. Insomma: le storie richiedono guai. Come ha scritto un romanziere americano, Charles Baxter, «Hell is story friendly», l’inferno è amico delle storie. Se volete una storia avvincente, collocate il protagonista in mezzo ai dannati. C’è una sintonia, sostiene Baxter, fra i meccanismi della narrativa e quelli dell’inferno. Con il paradiso è diverso: «Il Paradiso non è una storia. È quello che succede quando le storie finiscono».
Quali siano i meccanismi infernali, in verità, non ci è (ancora) dato sapere con esattezza. Ma di certo, se per mettersi davvero in moto la storia richiede un elemento negativo, non importa se cronico o episodico, sia esso povertà o pericolo, sciagura o sopruso, è quasi inevitabile vi sia implicata un’intenzione umana, una soggettiva volontà. Non mancano, è vero, storie anche assai coinvolgenti in cui il negativo non è personalizzato, o è spalmato su una pluralità di personaggi nessuno dei quali merita la qualifica di “cattivo” in senso stretto. Di norma, però, all’agire del protagonista fa riscontro l’agire (previo o seguente) di un antagonista. Che è, appunto, il cattivo – the villain, le méchant. Lo scioglimento della trama potrà poi risolvere, in via provvisoria o definitiva, il conflitto. In linea di massima, mi sembra di poter affermare che la probabilità di una completa sconfitta delle forze del male è tanto più alta quanto più i cattivi hanno connotati disumani. Se al genere umano non appartengono affatto, scommettere sul loro successo significa buttar via i soldi: mostri e orchi sono destinati a perdere. Degno di nota è però che l’esito opposto, cioè la disfatta di un protagonista positivo, di rado coincide con il trionfo personale di un cattivo. Molto più probabile è che il negativo prevalga nella forma di un assetto generale del mondo, di una mentalità dominante, di un’iniquità diffusa, di un clima – non del singolo soggetto identificabile come villain. Un esempio eloquente è la conclusione dell’Adelchi manzoniano: se il traditore Svarto prospera, la sua sorte rimane però sullo sfondo: in primo piano è l’imporsi dell’universale ingiustizia, incarnata semmai dai regnanti, Carlo e Desiderio. Allo stesso modo, la disfatta di Winston Smith, nel 1984 di George Orwell, nella sua agghiacciante assolutezza, non è presentata come il successo personale di O’Brien.
Detto in altre parole, le figure dei cattivi sono ben lungi dall’esaurire la presenza del negativo. Il cattivo può rappresentare la quintessenza di un sistema, il genius di un luogo apparentabile (se si vuole) con l’inferno: ma può essere anche un isolato, un battitore libero. A caratterizzarlo è sempre il dato personale, una vocazione specifica alla malvagità. Inoltre, non è frequente il caso che il cattivo sia l’assoluto protagonista; e sintomatica è da considerarsi l’eventualità del suo successo finale, come nel controverso American Psycho (1991) di Bret Easton Ellis.
E qui siamo alla seconda questione, che investe più direttamente la natura dei personaggi. Spesso quella del cattivo è una figura complessa, articolata, multiforme: una figura che da parte del lettore o dello spettatore non suscita soltanto avversione, ma anche qualcos’altro. Che cosa? Qui si apre un ventaglio assai vasto di possibilità. Il personaggio negativo può risultare, in molti modi, affascinante. Innanzitutto, per la sua stessa malvagità: una nequizia iperbolica ha, come tutti gli estremi, qualcosa di magnetico. E ammettiamo pure che si tratti di un’attrazione ambigua, mista di sgomento; rimane comunque difficile negare che la cattiveria, al pari della crudeltà, può piacere di per sé, semplicemente, tanto a chi scrive o recita, quanto a chi ascolta o legge. Il villain di turno si comporta come a volte, consapevolmente o no, vorrebbe comportarsi il destinatario (il romanziere, il drammaturgo, l’attore). Dal Tieste di Seneca al romanzo contemporaneo, attraverso la revenge tragedy dell’età elisabettiana e giacobita, l’oltranza dell’efferatezza ha una indiscutibile efficacia estetica. Che in tale efficacia covino tendenze patologiche non è tema che si possa affrontare in questa sede: ma andrà ricordato, en passant, che la categoria aristotelica di «catarsi», introdotta per illustrare come si fa ritorno al mondo reale dopo aver (ri-)vissuto le vicende inscenate dal mythos tragico, si situa all’incrocio fra la dimensione sacrale (catarsi come purificazione, decontaminazione, lustrazione rituale) e quella medica (catarsi come purgazione, disinfezione, pulitura).
Oltre alla cattiveria, il cattivo può avere altri moventi e altri tratti psicologici capaci di renderlo seducente. Può essere condizionato da uno stato generale delle cose, di cui è o si sente semplicemente interprete. Può nutrire anche, più o meno in segreto, sentimenti collaterali innocenti e positivi. Può provare qualche forma di rimorso; o anche, più banalmente, può non essere contento di sé e di quello che fa. Può essere stato a sua volta, in passato, vittima della malvagità altrui. Può, in generale, essere tormentato, diviso fra pulsioni contrastanti. Ma può anche avere risvolti grotteschi o ridicoli, che ne sdrammatizzano l’immagine. In tal modo, a maggior ragione può diventare simpatico. E qui si pone anche un problema di prospettiva. Visto da vicino, nessuno è cattivo, e ciascuno lo è. Per questo ciò che poi alla fine conta è la concreta funzione entro la compagine di un intreccio.
Resta il fatto che, simpatici, molti cattivi finiscono per esserlo. Con chi preferireste farvi una birra, con il trovatore Manrico o con il Conte di Luna? Con Peter Pan o con Capitan Uncino? Diceva Mark Twain: «Go to Heaven for climate, to Hell for company». Appunto. Chi legge può cercare anche, in un certo senso, calore o refrigerio; ma cerca soprattutto compagnia.
Ciò detto, dal nostro punto di vista il problema è come l’opposizione buoni/cattivi venga di fatto a declinarsi in termini storici. Come cambia, nel tempo, la distanza tra personaggi negativi e personaggi positivi? Sono identificabili fasi di polarizzazione, in cui l’antitesi viene messa in crescente risalto, e fasi di confluenza, in cui i contrasti si sfumano e si relativizzano? Non c’è dubbio, ad esempio, che all’epoca del feuilleton ottocentesco l’opposizione sia sottolineata con grande enfasi. Tuttavia, in quell’equivalente televisivo tardonovecentesco del romanzo d’appendice che sono le telenovelas, un effetto della serialità è l’attenuazione del divario. Dopo decine e decine di puntate, per mantenere vivo l’interesse dei telespettatori può risultare opportuno far emergere lati oscuri nei personaggi positivi e tendenze encomiabili nei villains, al limite dell’inversione di ruoli (qualcosa del genere si avvertiva già nella madre di tutte le soap operas, Dallas, dove J.R. arrivava a mostrarsi non tanto peggiore degli altri componenti della famiglia Ewing). Per questa via la produzione narrativa destinata al grande pubblico può trovarsi (paradossalmente?) a condividere tendenze della letteratura più esigente e sorvegliata, che a lungo, nel corso del XX secolo, si è dedicata a esplorare le sfaccettature psicologiche dei cattivi. Stiamo ancora proseguendo su questa strada? O siamo forse al revival dei cattivi-cattivi? Forse i tempi che viviamo insinuano – anche in chi legge e in chi scrive – un sottile bisogno di misurarsi con la cattiveria. Di affrontarla e/o di assaporarla. Perché, come ha scritto Orwell, «nell’insieme gli umani desiderano essere buoni; ma non troppo buoni, e non per tutto il tempo».