Un gioco per pedine grigie: Game of Thrones oltre il fantasy manicheo

La conclusione di Game of Thrones, la serie televisiva che più ha segnato il decennio, invita a riflettere sul lascito che questo prodotto trasmette al futuro del fantasy, tanto sulla carta quanto sullo schermo. Tra gli aspetti più significativi di tale eredità figura un decisivo raffinamento del profilo morale dei personaggi, che supera il manicheismo di fondo caratteristico del genere. Dal bilancio emerge anche come nelle ultime stagioni vengano meno progressivamente alcune delle ragioni del fascino originale della serie, che ha sacrificato parte della propria identità allo scopo di consacrarsi nel dominio del mainstream.
 
La messa in onda dell’ottava e ultima stagione di Game of Thrones, celeberrima e pluripremiata serie televisiva ispirata al ciclo di romanzi A Song of Ice and Fire di George R.R. Martin, è stata senza dubbio l’evento mediatico più atteso e risonante dell’anno scorso, capace di abbattere ogni record di pubblico e di monopolizzare per settimane il dibattito tra gli spettatori, impegnatissimi nel valutare ogni dettaglio delle sei puntate cui è spettato l’onere di sigillare il poderoso dedalo narrativo che li avvinceva ormai dal 2011.
Per dare un’idea della portata del fenomeno, i numeri pubblicati da Hbo, casa produttrice dello show, rivelano che solamente negli Stati Uniti circa 20 milioni di spettatori hanno seguito sui circuiti autorizzati la diretta dell’episodio conclusivo, dato che lascia immaginare un’audience effettiva ben più cospicua. Tuttavia, nonostante il successo in termini quantitativi, l’ottava stagione di Game of Thrones è risultata a conti fatti più deludente che divisiva, lasciando dietro di sé una lunga scia di critiche, principalmente convogliate contro gli sceneggiatori David Benioff e Daniel Brett Weiss: emblematico in questo senso è stato il lancio di una petizione online finalizzata alla realizzazione di una versione alternativa della stagione, iniziativa che conta ad oggi quasi 2 milioni di firmatari.
In effetti è difficile abbandonare l’impressione che la chiusura della serie getti delle ombre piuttosto lunghe sulle stagioni precedenti, alla luce della banale constatazione che un prodotto a forte narratività come Game of Thrones sia valutabile anche in funzione dell’efficacia del suo finale: in questo gli sceneggiatori, divergendo giocoforza dalla saga letteraria di Martin, ancora in fase di completamento, avevano sulle spalle un’enorme responsabilità.
Pur mettendo sulla bilancia una tesi interessante come quella dello scrittore Stephen King, che in un tweet ha suggerito l’ipotesi che il malcontento generale abbia in realtà origine in un rifiuto incondizionato e aprioristico di qualsiasi finale, una sorta di risposta viscerale al senso di vuoto causato nel pubblico dalla mancanza di un what’s next? cui aggrapparsi, restano molte perplessità sulla bontà delle scelte di Benioff e Weiss. Considerando a grandissime linee l’arco narrativo della serie, vale la pena di provare a mettere insieme qualche riflessione sull’eredità lasciata da Game of Thrones, che è certamente consistente, anche se significativamente depauperata dalle ultime due stagioni.
Una delle ragioni del successo dirompente dello show risiede nella sua struttura policentrica, uno sterminato arazzo narrativo che fa largo uso dell’entrelacement e che costituisce il tentativo più significativo di attraversamento dell’ingombrante modello rappresentato da The Lord of the Rings di J.R.R. Tolkien, archetipo del genere fantasy e riferimento irrinunciabile per tutti i suoi successori, Martin compreso: Game of Thrones sancisce con una certa veemenza la caduta dell’impostazione fondamentalmente manichea di molta narrativa simile e diversa – si pensi anche alla saga di Harry Potter –, nonché di alcuni fortunatissimi franchise cinematografici (Star Wars, per dirne uno), imperniati sull’opposizione tra le limitate forze del bene, le cui fragili speranze di vittoria dipendono dal successo individuale del protagonista, e un male dilagante e apparentemente incontrastabile, regolarmente capitanato da un signore oscuro.
Al netto dei numerosi personaggi moralmente ambigui presenti in queste opere, questa struttura di fondo viene meno in definitiva solamente in Game of Thrones: la decapitazione di Eddard (Ned) Stark, personaggio che reca tutte le stimmate dell’eroe buono designato a farsi carico dell’immedesimazione positiva degli spettatori, segna alla fine della prima stagione un radicale cambio di passo della serie, che in seguito dimostrerà di poter fare ripetutamente a meno di personaggi che fino a un momento prima sembravano essenziali ai fini dell’intreccio, uscendone ogni volta più forte nel ribadire la centralità dell’ordito nei confronti dei singoli fili: una vittoria per il romanzesco che dovrebbe dare di che riflettere. La morte di Ned Stark pone fine all’illusione di poter leggere questa serie in base a facili dualismi, avviando un programmatico raffinamento dello schematismo morale imperante nel genere.
Dovendo presentare in poche parole la serie a un neofita direi che si tratta di una narrazione di genere ibrido, un miscuglio tra un fantasy ad ambientazione medievale e un thriller politico sulla natura del potere: in un mondo immaginario diviso in due continenti, uno occidentale – principale teatro delle vicende – e uno orientale, un ristretto numero di nobili casate, ciascuna contraddistinta da un emblema e un motto caratteristici, combatte per il predominio sui Sette Regni, reificato in quel Trono di Spade sul quale molti personaggi aspirano a sedersi.
George R.R. Martin ha imbastito attraverso i suoi libri una narrazione corale dalla portata inedita e perfettamente adattabile per il piccolo schermo, cesellando con sapienza il profilo morale di decine di personaggi, che determina il loro personale modo di partecipare o meno al “gioco dei troni”, che è sempre un gioco al massacro. Così nella serie si assiste a una moltiplicazione delle posizioni che lo spettatore può assumere, fatto che complica di parecchio la cernita di buoni e cattivi in un genere narrativo in cui questa divisione è sempre stata abbastanza esibita. Fanno eccezione figure come Joffrey Baratheon e Ramsay Bolton, la cui cattiveria consiste di un sadismo gratuito e compiaciuto, quasi congenito.
L’inedito affollamento delle pedine sulla scacchiera è un innegabile punto di forza delle prime stagioni della serie, nelle quali tenevano banco le avventure e gli intrighi dinastico-politici fra i numerosissimi personaggi ovunque sparpagliati lungo i Sette Regni, ciascuno impegnato nella realizzazione dei propri obiettivi personali e di casata. Ancora a questa altezza il ritmo della storia permetteva di apprezzare l’evoluzione interiore dei personaggi e la progressiva complicazione della loro fisionomia, come se lo sviluppo delle vicende prevedesse l’adozione di un punto di vista mobile, capace di svelare barlumi di luce nelle figure apparentemente più nere quanto ombre inquietanti in quelle più bianche, obbligando lo spettatore a mettere in questione la sensatezza stessa della divisione e a ridiscutere di continuo la cornice di valori entro cui leggere e valutare i singoli profili.
A garantire l’ampia disponibilità di opzioni etico-morali in campo, sta il fatto che nell’universo narrativo della serie prevalgano culti politeistici (il Culto dei Sette e gli Antichi Dei) su quelli monoteistici, salvo alcune eccezioni. A causa di ragioni che possono essere individuate in fattori estrinseci (la volontà degli sceneggiatori e della produzione di chiudere la serie in otto stagioni) quanto intrinseci (su tutti la difficoltà congenita nel chiudere un intreccio a vocazione centripeta e progettato per poter durare all’infinito) molti degli aspetti che avevano contraddistinto in positivo Game of Thrones sono andati via via degradandosi con conseguenze rilevanti.
Ad esempio, la crescente necessità di radunare molti personaggi in uno stesso ambiente ha di molto semplificato la complessità delle loro interrelazioni e ne ha reso più schematiche le psicologie, costringendo gli sceneggiatori a una serie di scelte discutibili a livello di trama, principalmente dettate dalla fretta. Personaggi che impiegavano intere stagioni per completare una quest ora si catapultano da una parte all’altra del continente in pochi minuti di girato. Gli idoli del pubblico, che nelle prime stagioni cadevano come foglie in autunno – ma si è accennato al fatto che ciò era parte del godimento –, ora sono forti di una plot armor che li fa uscire indenni da situazioni in cui nessuno potrebbe sopravvivere: l’inizio di questo cambio di politica coincide simbolicamente con la “resurrezione” di Jon Snow – un caso di deus ex machina a tutti gli effetti –, il personaggio più eroico e determinante della serie, nella seconda puntata della sesta stagione.
Questa sbrigatività va a compromettere quello che era uno dei maggiori punti di forza dello show, ossia la presenza parsimoniosa di elementi più spiccatamente fantastici: tra essi rientrano gli Estranei, spaventose creature umanoidi votate all’annientamento della razza umana, guidate dall’agghiacciante quanto imperscrutabile Re della Notte – questo sì un cattivo “vecchio stampo” –, capace di animare i morti.
La sapiente gestione di questa armata delle tenebre, che avanza inesorabile dall’estremo Nord del mondo conosciuto verso le terre degli uomini, pronta a fare di ogni vivente uno zombie da aggregare alle proprie file, sta nel fatto che è mostrata immediatamente allo spettatore, il quale è conscio della minaccia, ma solo gradatamente ad alcuni personaggi tramite segnali ed episodi via via sempre meno equivocabili, mentre la grande maggioranza è ignara della minaccia e impegnata in questioni che paragonate a questo pericolo sembrano scaramucce tra bambini.
Ebbene questo magnifico crescendo di terrore e apprensione, che nel corso di sette stagioni si carica di aloni inquietanti e di epiche promesse – il motto della casata Stark «Winter is coming» allude proprio a questa situazione –, prefigurando lo scontro finale tra vivi e morti, viene risolto in malo modo nella terza puntata della stagione finale, ridimensionando fortemente un nemico presentato in precedenza come quasi invincibile e creando l’imbarazzo di riaccendere a forza in chi guarda una suspense ormai estinta per affrontare le ultime tre puntate.
Molte delle critiche che hanno travolto il finale della serie riguardano la liquidazione di altri snodi cruciali della trama, i quali avrebbero destato tutt’altra impressione se fossero maturati con maggior calma: uno su tutti la prevedibile trasformazione di Daenerys Targaryen – una delle candidate più serie a sedere sul famigerato trono una volta per tutte –, da eroina liberatrice di oppressi a tiranna folle e sanguinaria, si è svolta in modalità così sbrigative da ridurre uno dei personaggi cardine della serie a una macchietta, che in un contesto come quello americano, più attento del nostro nell’additare gli stereotipi di genere in prodotti di questo tipo, ha causato più di qualche risentimento.
Con il dissolversi della minaccia degli Estranei, i quali comunque rappresentano un male disumano e senza scopo – il Re della Notte è muto e i suoi propositi restano misteriosi –, la grossolana metamorfosi di Daenerys e l’inconsistenza finale di Cersei Lannister, forse il personaggio migliore della serie e certamente il più spietato, fanno rimpiangere la presenza di una figura come quella di Petyr Baelish (Ditocorto), astutissimo e machiavellico manipolatore, dotato di un’ampia visione degli eventi e di una capacità di macchinare a lungo termine che non si è riscontrata in nessun altro personaggio.
A parziale giustificazione di queste involuzioni, sta il fatto, non abbastanza enfatizzato in sede di dibattito, che Game of Thrones è nato come un prodotto sì molto ambizioso, ma pensato inizialmente per agganciare gli appassionati del genere. In seguito, sull’onda di un successo massiccio quanto sorprendente, l’impressione è che la serie abbia cercato di aprirsi a tipologie di pubblico fra loro molto diverse, tentativo di per sé non biasimevole, ma che per farlo si sia snaturata e abbia diluito molte delle caratteristiche che avevano contribuito a consacrarla, pagando un prezzo molto alto in cambio dell’ingresso nell’olimpo del mainstream.
Tuttavia, in quest’epoca di algoritmi e amplificazione social, ha senso chiedere a un prodotto televisivo, il cui scopo principale è quello di raggiungere più spettatori possibile, di non cedere alla tentazione di adattarsi ai continui feedback del mercato e del successo numerico? Forse no. Detto questo, Game of Thrones rappresenta una pietra miliare nella storia delle serie televisive con la quale molti dovranno fare i conti; la delusione di milioni di fan è solamente proporzionata all’altezza delle promesse iniziali: come dire, l’inverno è arrivato, ma in molti rimpiangono l’estate.