I polemisti cattivi: Giordano, Forchielli, Paragone e Montanari

Siete disturbati da strani pensieri nel cuore della notte? Provate un senso di terrore perché «l’Italia non è più italiana»? Voi o i vostri familiari avete mai visto profughi, predoni o cervelli in fuga? Se la vostra risposta è sì, leggete pure i polemisti cattivi. Scoprirete che gli intellettuali «dalla parte del torto» rispolverano le idee e le pose, tutt’altro che nuove, del conservatorismo anarcoide, di cui forse è meglio diffidare.
 
Più di trent’anni sono passati, da quando un fiume di «melma psicomagneterica» invase New York, condensando in forma liquida le marachelle e i cattivi pensieri di milioni di persone (Ghostbusters II, 1989). All’epoca ci pensarono Peter, Egon, Ray e Winston, con i loro zaini protonici, a riportare il sorriso in una città incattivita, governata da politici pre-trumpiani («Trattare il prossimo come mota» sbraitava il sindaco «è sacrosanto diritto di ogni newyorkese!») e pervasa da istinti animali: «Una volta mi trasformai in cane» dichiarò un testimone «e loro mi aiutarono». Ma oggi, al tempo del cattivismo populista, se ti trasformi in cane nessuno ti aiuta, e anzi c’è il rischio che qualcuno ti esorti ad abbaiare più forte. Inutile citofonare agli intellettuali progressisti, ancora afoni dopo la Guerra Civile del ceto medio riflessivo (ultima battaglia: 4 dicembre 2016), o combattivi sì ma poco empatici: Carlo Calenda è bravo e sveglio, poi però ti confessa che a sedici anni aveva già fatto un figlio, un film e un sacco di soldi, e allora gauche caviar, adieu!
Una voce subdolamente amica, disponibile a offrire bersagli vecchi e nuovi al rancore e alla rabbia dilaganti, viene invece da una pattuglia di polemisti multitasking, che non temono il confronto in campi diversi del sapere e della vita pubblica. Si tratta in parte di vecchie conoscenze, abilmente riciclatesi come opinion maker cattivisti: Mario Giordano, ex direttore del «Giornale», è un volto storico di Mediaset, mentre Gianluigi Paragone, ex «Padania» e senatore apolide, è stato per anni il dominus dei programmi meno politicamente corretti della Rai e di La7. A questi si aggiungono due nomi spuntati dal nulla, ma pieni zeppi di Zeitgeist. Pensiamo ad Alberto Forchielli, bolognese giramondo e imprenditore di successo: esiste davvero o ce lo siamo inventati? Stravaccato sul divano del salotto, Forchielli scrive sul suo blog personale e, in collegamento da casa, predica «umiltà e poche pugnette» nei talk televisivi. Ma le sue radici affondano nella mitopoiesi pop di Zelig, in quello straordinario personaggio che era l’assessore Palmiro Cangini di Roncofritto, ideologo del buon senso («Fatti, non pugnette!») e fustigatore dei fuoricorso del Dams, fermi al secondo esame di «Storia dei Siti Porni».
Poi certo è arrivato Crozza, con la sua imitazione più vera del vero, e il sofà è diventato un’ossessione, grazie a quei simpatici artigiani che a settembre ci ricordano che Natale è vicino, ed è tempo di regalare al gatto un tiragraffi gigante. La stessa cosa, o quasi, si può dire di Tomaso Montanari, professore all’Università per Stranieri di Siena: è un intellettuale poco noto al grande pubblico ma impaziente, come altri storici dell’arte, di fare il ministro o il sottosegretario, nella convinzione che dal Buon governo di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339) alla politica di oggi il passo non sia poi così lungo.
A naso, si potrebbe affermare che i primi tre siano di destra e il quarto di sinistra, ma a ben vedere la situazione è più complessa. E pure a ben sentire: la sigla di Fuori dal coro, programma populista di Giordano su Rete4, è Another Brick in the Wall dei Pink Floyd, e cioè la stessa dell’anteprima di In onda, l’approfondimento serale amatissimo dai «maratoneti» di Mentana, che d’estate seguono La7 in streaming mentre si ingozzano di pita gyros sulle isole greche. Ennesimo esempio del rimescolamento in atto a livello culturale e politico: la contrapposizione tra progressisti e conservatori lascia il posto a una più incerta distinzione tra chi si sente rappresentato e protetto dai ceti dirigenti (o legittimato nelle scelte di vita) e chi invece no. È intorno a questo discrimine che si muovono i quattro opinionisti, decisi a diffondere il loro messaggio di aggressività liberatrice in televisione, sui giornali, sui social e infine in libreria: terreno scivoloso e però ineludibile, perché è vero che si può cantare «fuori dal coro», ma all’effetto nobilitante del libro cartaceo nessuno può o vuole rinunciare, come spiega l’Almanacco delle classifiche di Tirature ’20.
Il polemista più a suo agio con la forma libro è sicuramente Giordano, che, quando si toglie la maschera da showman isterico, dimostra di saper scrivere. La sua ultima fatica, L’Italia non è più italiana. Così i nuovi predoni ci stanno rubando il nostro Paese (Mondadori, 2019), aggiunge una nuova categoria ai nemici più o meno reali della gente perbene, già assediata da profughi, pescecani, avvoltoi, sanguisughe e spudorati (cito dai titoli dei libri precedenti), ma soprattutto ci offre un’inchiesta condotta sul campo. Nel suo reportage sull’Italia sconfitta o sfigurata dalla globalizzazione, Giordano si muove di persona, tocca con mano i problemi e raccoglie le testimonianze, più o meno genuine, di chi riconosce nel forestiero un famoso giornalista. Verrebbe voglia di partire con lui: per capire se in macchina ascolta i Pink Floyd, e per scoprire luoghi sconosciuti e storie dimenticate. Si va dal gossip sul castello di Casalborgone (Torino), acquistato da una setta di americani che si occupano di transessualità e teletrasporto, al dramma di una fabbrica nel Canavese chiusa da una multinazionale, dalla scomparsa del cinema Apollo a Milano, sfrattato dal negozio Apple, al fallimento del signor Vittorio, nonagenario imprenditore della plastica che va in ufficio tutte le mattine.
Alla fine di ogni storia, e nei titoletti dei capitoli, il verdetto è sempre lo stesso: «Cucù, l’Italia non c’è più», «La Cina è (troppo) vicina», «Franza o Spagna, chiunque ci magna» e così via. Fino al rimpianto per la perdita di una tradizione posticcia: «O mia bela madunina che te brillet con l’iPhone» ammicca alla nota canzone di Giovanni D’Anzi, che risale agli anni trenta del Novecento.
Tutto già visto e già sentito? Sì e no, perché al di sotto degli appelli alle “signore mie” e ai rispettivi mariti, che sono il pubblico di Rete4 ma non necessariamente i lettori impliciti di questo libro, si cela un messaggio più articolato: meno populista, più borghese, modernamente conservatore e un tantino reazionario. Per coglierlo bisogna fare attenzione alla Premessa, dove la dedica alla figlia Alice, che «nonostante tutto vuole vivere in Italia», fornisce il pretesto per una visita alla casa dei nonni: il «rudere sepolto nel verde» a Ca’ di Fra’, dove la famiglia Giordano raccoglieva le ciliegie a giugno e l’uva a settembre, con un bel prato attorno e il ciabòt (il capanno nel vigneto) ormai sommerso dai rovi. Povero ciabòt, che a pensarci bene… basterebbe una mano di vernice per affittarlo con Airbnb.
Quest’ultimo dettaglio, lo ammetto, me lo sono inventato, ma è verosimile: Giordano s’indigna, sostiene che «abbiamo perso la strada» e vagheggia una classe borghese legittimata dal recupero un po’ turistico del proprio passato contadino, di un’epoca cioè di piccoli imprenditori agricoli. Per fare cosa? Ma è chiaro: per proporsi come cittadini del mondo e piemontesi nell’anima, o meglio per distinguersi dai parvenu che non hanno «nessun contatto con il nostro territorio, persone che arrivano dai mestieri più diversi, che spesso non sanno nulla della nostra storia». Si capisce quindi come possano coesistere due Giordano a prima vista inconciliabili: il conduttore che in televisione spacca le zucche di Halloween con una mazza da baseball, per difendere la tradizione cattolica, e il papà benestante che racconta con orgoglio il percorso di studi internazionale della figlia: quarto anno di liceo all’estero, in Kentucky, con tanto di «lancio dei cappelli al Graduation Day» e «pranzo dalla mamma americana», sei mesi alla Sorbona, soggiorni a Heidelberg, Berlino e Amburgo, dottorato in filosofia a Tolosa.
All’elenco manca giusto il proverbiale «rutto libero», ma forse non è un caso: la reazione scomposta, rozza e rovinosa è il risarcimento morale che Giordano accorda agli sconfitti, a chi non è in grado di competere nelle nuove professioni, o anche solo di comprendere i cambiamenti in corso. Giordano, insomma, incita chi resta indietro a colpire a sangue le zucche nell’orto, così magari non gli verrà in mente di spaccare le altre. E quando il senso di colpa invade anche le zucche vuote, ci pensa il sentimentalismo mélo, a far tacere la coscienza. Il libro dedicato a «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati» (Profugopoli, Mondadori, 2016) si apre infatti con una dedica furbissima alla cara mamma: «a te e a tutti quelli come te, ai tantissimi volontari per bene, gente onesta e dal cuore d’oro».
Chi invece il cuore ce l’ha d’oro non per bontà, ma perché è ricco sfondato, è Forchielli: «economista sui generis, anticonformista e schietto, uomo globalizzato dal 1980», secondo il risvolto di copertina di Muovete il culo! Lettera ai giovani perché facciano la rivoluzione in un Paese di vecchi (Baldini&Castoldi, 2018), ma io aggiungerei anche tiger mom. Nella sua letterina, il guru di Bologna getta le basi di un superomismo precoce e sovranazionale: «le scelte fondamentali per la vita futura si prendono molto prima di un tempo, al più tardi dopo la scuola media. E se scegli di non scegliere, la prendi ugualmente nel culo, perché le porte si chiudono un giorno dopo l’altro, inesorabilmente». Per ogni porta che si chiude in patria c’è un portone nel mondo global, a patto di avere le chiavi giuste, o meglio un bazooka. L’alternativa alla «pugnetta» da sfigati è infatti «l’EMBA (Executive Master of Business Administration) part-time associato a un dottorato di ricerca in biologia, informatica, ingegneria», mentre del tutto effimera è l’opzione di «imparare seriamente una professione manuale»: chi vuol fare il pizzaiolo o l’idraulico non legge il pamphlet del titolare di un fondo di private equity.
Apparentemente, siamo al solito tiro al piccione contro le lauree umanistiche: «amate con tutto il cuore la filosofia? Sempre che non abbiate i soldi di Gianluca Vacchi, […] studiatela per i fatti vostri, nel tempo libero!». Ma questa è una disciplina olimpica che ha ben altri campioni: Stefano Feltri, per esempio, da qualche anno si è imposto come autorità in materia, e lascio a voi immaginare quale possa essere una delle 7 scomode verità che nessuno vuole guardare in faccia sull’economia italiana (Utet, 2019).
Il problema, qui, è la compatibilità tra le aspettative di una generazione laureata in massa, nonché libera da vincoli territoriali (con un passaporto europeo vai dove vuoi), e le occasioni effettive di crescita professionale. Forchielli non parla a un manipolo di studenti prodigio, bensì a una moltitudine di giovani adulti che hanno più o meno gli stessi titoli di studio; giura di voler vendicare il «milite Michele», trentenne morto suicida per disperazione, ma poi indica traguardi irrealistici e francamente “sboroni”. Le sue parole, in sostanza, sono scintille in una pozza di benzina, sebbene pochi se ne siano accorti. Forse perché l’eugenetica del merito si è mangiata la coscienza di classe, radicandosi a tal punto nell’immaginario collettivo che le vittime la pensano come i carnefici, l’assalto fallito alla vetta diventa un «insulto ai sogni» e lo stesso Forchielli, figlio di un docente universitario, può vantarsi di essere un «ragazzo di strada» (intervista di Roberto Caroli per Ceramicanda, YouTube).
Un vezzo? No, un ritorno a Ca’ di Fra’ anche per lui: l’anelito di conquista di un estero sempre più lontano (Boston, Washington, Singapore, Hong Kong, Shangai, Bangkok e Santiago del Cile) stimola per reazione il sogno di un cantuccio agreste, dove ci si rotola sulle balle di fieno e si gioca a pallone tra i bricchi. E quando le balle non ci sono più, perché nel campo hai costruito una fabbrica, le racconti a te stesso e ti crei un avatar su misura, come ha fatto Enrico Grassi, l’imprenditore di Viano, provincia di Reggio Emilia, che va in giro vestito da cowboy (lo trovate tra il pubblico di Forchielli, nel video di cui sopra).
Dopo tanto Southern pride in salsa emiliana, reprimo a fatica il nervoso: «Ti abbraccio Alberto, ciao. Ci aggiorniamo». Passo allora a Gianluigi Paragone, che nel suo La vita a rate. Il grande inganno della modernità: soldi in prestito in cambio dei diritti (Piemme, 2019) discetta della «frenesia dei tempi moderni», un evergreen che ci riporta ai bei tempi e ai temi del liceo: «Oggi come oggi, alle soglie del Duemila…».
Il saggista gialloverde, va detto, è solo un pallido riflesso del Paragone che vediamo in tv o sui social, autore di una video-pernacchia all’ex compagno di movimento Luigi Di Maio, declamata col ciuccio in bocca. E non potrebbe essere diversamente: «terminato nel bel mezzo di una crisi politica», il libro tradisce l’imbarazzo, o la noia, di chi siede in Parlamento ma vorrebbe pontificare dal divano assieme a Forchielli, che invita a «ridere in faccia al politico di turno che ci racconta le solite balle». Dico o non dico, Dibba o Giggino, sogno o son desto? Sappiamo poi come è andata a finire.
Non tutto però è perduto, perché La vita a rate, pur nella sua ambiguità ideologica, dà voce a un aspetto importante del populismo 2.0: il vittimismo a volte querulo, altre invece astioso, che si accompagna alla perdita di fiducia nella democrazia rappresentativa, e che fa pendant con la reazione garibaldina auspicata da Forchielli («i cittadini devono tornare a fare i partigiani»). Prima ancora che un sopruso, all’origine della condizione di umiliato vi è dunque un sentimento di esclusione: per questo motivo, Paragone non offre soluzioni ma assoluzioni, libera cioè il lettore dal senso di colpa e dalla vergogna per la sconfitta (non importa se reale o immaginaria) suggerendogli i nemici da abbattere. Entità astratte, bersagli buoni per le frustrazioni di ogni tempo e luogo: «i nuovi padroni, il sistema, le big tech, i signori del debito». Gli unici nomi che fa sono quelli degli opinionisti di cui vorrebbe prendere il posto: Gianni Riotta, Federico Fubini e Carlo Cottarelli.
A stupire non è tanto il recupero di un antico spauracchio (la rata o la cambiale), ma l’indisponibilità a fare i conti con i veri condizionamenti sovraindividuali dei prossimi anni. Anzitutto i cambiamenti climatici, ben più pericolosi e complessi del «telefonino a rate», e a seguire le ragioni non solo economiche dei fenomeni migratori in corso: «L’avvenire non è più tempo ma spazio. […] Per realizzare l’utopia e appagare il desiderio ti metti in viaggio, non combatti», ha spiegato il politologo Ivan Krastev («L’Espresso», 20 gennaio 2020).
Per fortuna a Ca’ di Fra’, accanto al ciabòt, di posto ce n’è, e gli altri due già aspettano Paragone per una partita come da ragazzi: «Ci bastava poco. Due zaini o due felpe e facevi la tua porta, così come quelli dell’altra squadra. […] Pari o dispari per la palla e si cominciava a giocare, il pallone iniziava a rotolare» (La vita a rate). Roba che se passa di lì Max Pezzali si mettono tutti assieme a scrivere una canzone. Ma forse è meglio attendere che arrivi in squadra un quarto giocatore, pure lui ossessionato dai ricordi di gioventù: «Il piccolo libro che state per leggere è […] un invito a liberare la parte di noi che è rimasta fedele alle aspirazioni, alle convinzioni, all’etica di quando eravamo bambini». Un poeta crepuscolare e tisico? No, chi scrive è Tomaso Montanari, e il «piccolo libro inutile» si intitola Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è (Chiarelettere, 2020). Di professione, ricordiamolo, l’autore fa il docente universitario, ma il risvolto di copertina, roboante come un coccodrillo giornalistico, punta molto più in alto: «È sua la voce più radicale che in questi anni si è levata contro l’asservimento del patrimonio culturale alla logica del mercato e della disumanizzazione. La sua battaglia per la cultura e l’ambiente è una battaglia per il pieno sviluppo della persona umana».
Come si evince dai miti propositi, Montanari non aspira a diventare un interprete dei nostri tempi, bensì a scalzare un’intera classe politica, per «invertire la rotta e ritrovare le ragioni di credere e di lottare per un mondo più giusto». Il suo cuore batte a sinistra, ma palpita assieme ai colleghi di destra. È comune la pretesa, o forse l’illusione, di porsi come interlocutore degli offesi in nome di un buon senso che cancella le divisioni di classe e cultura: «Non sono un politico, né uno scienziato della politica, un sociologo o uno storico. Non sono un addetto ai lavori: tuttavia nelle prossime pagine vorrei provare a prendere la parola, in prima persona e da cittadino».
Siamo alle solite: se Montanari è un semplice cittadino, allora Forchielli è un ragazzo di strada, Giordano un fustigatore di fighetti cosmopoliti e Paragone un novellino della politica. In realtà Montanari è un accademico che ostenta un radicale disinteresse (che poi altro non è che un privilegio professionale) per le dinamiche socioeconomiche e le loro inevitabili contraddizioni. Solo così, può dire che «l’imprenditoria della paura» di una «destra violenta e a tratti esplicitamente neonazista» ha «radici profonde nel tradimento di quella che continua a chiamare sé stessa sinistra».
La forzatura è evidente, e non avrebbe nemmeno bisogno di ulteriori commenti, se non fosse che da simili premesse scaturisce una visione del sapere umanistico un po’ inquietante, che annulla le distinzioni storiche o ideologiche, e porta acqua all’egemonia culturale populista. Il libro è infatti uno zibaldone di citazioni dotte pescate a caso, affastella cioè in modo incongruo Giorgio Caproni e papa Francesco, Mario Rigoni Stern e Pier Paolo Pasolini, Christian Raimo e Corrado Augias… Aggiungo solo che è significativo l’entusiasmo di Montanari per una personalità affascinante ma contraddittoria come il Tory anarchist George Orwell, «forse il maggiore scrittore politico del Novecento». È un’etichetta, quella di conservatore anarchico, che rappresenta bene, con le dovute sfumature, tutti e quattro i polemisti. Suona allora profetica l’opera del Lorenzetti, che, nel Palazzo Pubblico di Siena, e a futura memoria anche degli storici dell’arte, accanto al Buon governo dipinse quello Cattivo.