I «cattivi» in versi di Valerio Magrelli e Umberto Fiori

Nei loro ultimi, diversissimi libri di poesia, Valerio Magrelli e Umberto Fiori si proiettano in due strani doppi o alter ego, che ingaggiano una strenua lotta in versi contro l’oscena minaccia dei «cattivi» che li assediano. Ce la faranno a salvarsi? A salvare – per sé, per noi – un’ipotesi di bene cui affidare il senso del nostro essere una comunità interumana, una società?
 
Anche se a prima vista sono diversissimi, fra i due ultimi libri di poesia di Valerio Magrelli, Il commissario Magrelli (Einaudi, 2018) e Umberto Fiori, Il Conoscente (Marcos y Marcos, 2019) intercorrono alcune singolari analogie d’impianto, che li legano in un rapporto di contrastata, discorde somiglianza.
L’affinità meno sorprendente, per chi conosce già un po’ i loro autori, è che sono leggibilissimi: stilisticamente nitidi, senza stranezze o oscurità sul piano della lingua. Una coincidenza meno scontata è che non si tratta di libri di poesia lirica. È vero che in entrambi il protagonista si chiama proprio come l’autore. Ma anche se gli somiglia molto in realtà non è lui – è piuttosto una sua controfigura, un doppio. Nel libro di Fiori, questo doppio-che-si-chiama-come-l’autore coincide con l’io voce, è il soggetto «falsissimamente autobiografico» che conduce il racconto. L’alter ego di Magrelli è invece una terza persona, le cui gesta e opinioni (e parole, a volte) ci vengono riportate dalla partecipe e informatissima voce dell’autore/testimone, nelle vesti di un obliquo dottor Watson di sé stesso.
Simile è anche la funzione, nei due casi, di questo gioco di specchi proiettivo/distanziante. In bilico tra frontalità e travestimento, serietà argomentante e deformazione ironico/grottesca, il «Fiori» e il «Magrelli» finti ci si mostrano assediati da figure inquietanti, rappresentanti di un male determinatissimo e metamorfico che avvelena il mondo di relazioni e condotte, discorsi e valori in cui vivono. Contro questi «cattivi», contro la nostra permeabilità al loro contagio, si gioca la strenua lotta all’ultimo respiro che i due personaggi ingaggiano: per provare a salvarsi, a difendere e salvare un’ipotesi di bene in cui ritrovare un plausibile senso di appartenenza a una comunità interumana, una società.
La trovata chiave di Magrelli è messa in opera con arguzia brillante fin dalle quinte esterne del libro. Uscito a pochi giorni da Le cavie. Poesie 1980-2018 (Einaudi), la sua sgargiante copertina gialla sembra subito voler fare il verso alla gloriosa collana “bianca”, sede abituale delle sillogi magrelliane. Come prevede l’iconico layout di quella, anch’essa presenta, sotto al nome d’autore e al titolo-freddura (Il commissario Magrelli, un Magrelli-Maigret!), i versi di una delle poesie del libro – la prima, programmatica: «Visto che tutti i libri / hanno ormai un commissario, / mi faccio commissario / della poesia / e parto sulle tracce dei misfatti / che restano impuniti a questo mondo». Fra titolo e testo campeggia poi la nera sagoma stilizzata di un paio d’occhiali, emblema quant’altri mai adatto a simboleggiare il nesso fra l’autore e il suo doppio commissariesco.
Innescato così, l’ironico gioco di travestimento è poi messo a frutto secondo due direttrici invero assai differenti. La prima, più lieve e divertita, consiste nella protratta presa in giro della koiné giallistica che pervade la letteratura d’intrattenimento dei nostri tempi. Ecco allora le un po’ nonsensical microsinossi in versi dei “casi” che il commissario via via affronta e risolve: costruite in serie, con modalità quasi-combinatorie, le ritmate poesie-tiritera scandiscono il libro con regolarità martellante, una ogni dieci testi a partire dalla V (che recita così: «La vedova del sindaco, / amante del notaio, / avvelena il postino, suo cognato, / per diventare erede / di grandi proprietà. / Lo scaltro commissario, tuttavia, / trova tracce d’arsenico / sui guanti della vittima / risolvendo la trama»; ed ecco la XV: «La zia dell’avvocato, / amante del top manager, / massacra l’impiegata, sua bisnonna, / per diventare erede / di tre conti correnti. / L’astuto commissario, tuttavia, / trova tracce di sperma / sul foulard della vittima / risolvendo la trama»; e via iterando e variando, fino alla LXV e ultima).
Nel resto del libro, tuttavia, il divertissement parodistico/metaletterario viene meno, il pedale si fa ben più grave e serio, e la maschera del personaggio-poliziotto cambia funzione, fornendo all’autore lo schermo (tenue) per un’attività non tanto di detection quanto di accorato e sentenzioso commento. La sequela di «microstorie e invettive» (ma sono soprattutto invettive) procede attraverso una «piccola ma nutrita enciclopedia del reato», tra frodi finanziarie, omicidi, violenze più e meno efferate, senza tralasciare i delitti che coinvolgono Stato e forze dell’ordine; anche se la riprovazione più alta spetta a femminicidi, pedofili e incendiari: «Donne, paesaggio e infanzia, / tutto ciò che è indifeso, vulnerabile, / deve restare intatto, / tabù, / SACRO // E le pene? Democratiche, è logico, / e tuttavia liturgiche, corali: / “Qualcuno tocchi Caino”».
Questo è in effetti il vero fil rouge del suo arringare: «la riflessione su una legge che spesso, troppo spesso, tende a dimenticare i poveri diritti delle prede», per un equivoco eccesso di tutela del colpevole («Lo Stato, infatti, sta con il colpevole: / non riesce a trattenersi / o a trattenerlo»; «Non c’è niente da fare: il buon cristiano / si commuove soltanto per chi pecca»). A non dar pace al commissario è la mancanza di «simmetria» fra la cedevole condonabilità degli anni di pena e l’irrevocabilità dei «fendenti» inferti («Così i 30 anni diventano 10. / Le coltellate, invece, non sono negoziabili»), fra la «spiccata fotogenia» del «serial killer» e la noiosa fissità dei «serial killed». Così, mentre si chiede «perché gli altri non sentono / quello che sente lui» («Perché vi commuovete per il lupo, / e non per l’agnello sbranato?»), il commissario si proclama sì «pecora, / ma una pecora da combattimento». «In disaccordo pure con la Bibbia», perché «anche dente per dente non va bene» («Possibile che chi compie un reato / paghi quanto la vittima?»), non è da credere però che «sia un forcaiolo»: il suo è semmai «un programma scontato, / vetero-illuminista» e «democratico», riassunto nel reiterato appello a «educare “con furore”» e punire con fermezza, a «terrorizzare ed istruire». Perché come sintetizza il conclusivo Coro sulla legalità: «Legalità è legittima se lega il forte / se tutela il debole. // È il nodo che scioglie l’Umano / legandone i legami. // Non c’è legalità fuori da quel legame / dove si stringe per meglio liberare».
Ben più che i modi un po’ tranchant di cui questo Magrelli uno e bino a tratti si compiace, con piena intenzione, ciò che alla lunga un poco infastidisce, nel suo acuminato e originale pamphlet in versi, è tuttavia proprio il registro di assertività sentenziosa, un po’ predicatoria, che ne è la nota dominante: nonostante il contravveleno e le scintille della sapiente tecnica versificatoria di Magrelli (quello vero, il poeta), con il suo scaltrito mélange di understatement e arguzia intellettuale, pointe ironica e “staccato” serio/tragico.
Anche Il Conoscente è il primo libro di Fiori che segue (ma a distanza di cinque anni) la pubblicazione, negli Oscar Mondadori, della raccolta-summa Poesie (1986-2014). Il nuovo titolo rialza però subito la posta, presentandosi come l’opera forse più impegnativa, per struttura e ambizioni, che Fiori abbia mai scritto. Composta da 118 testi-tassello, aggregati in capitoli e distribuiti in sei Parti, ha la forma di un ampio poema o racconto in versi (una novità, anche se già i precedenti La bella vista e Voi – rispettivamente Marcos y Marcos, 2002, e Mondadori, 2009 – in modi diversi puntavano lì). L’andamento, nonostante la consistenza “realistica” di molti aspetti del mondo rappresentato – coi riferimenti sia pur trasfigurati a situazioni e vicende dell’Italia fra anni settanta e ottanta (e la presenza, altra novità, di qualche nome proprio di luogo o persona, a cominciare dal suo) –, ricalca semmai quello di «un sogno – e per certi aspetti un incubo, un’allucinazione» (così l’aletta di copertina). Ma meglio ancora, forse, quella a cui Fiori ci fa assistere è una enigmatica “visione” onirico/allegorica, un’abbacinata quête eziologica tesa ad accertare le origini dell’imbronciato scacco, dell’intimo groppo di perplessità e dispetto che, nel testo d’apertura, tormenta e blocca il suo doppio testuale.
Il Prologo si apre infatti con una doppia analessi. Dapprima l’io voce rievoca la sconcertante «scena» cui ha assistito «tanti anni fa» e di cui ancora ha, a tratti, «la testa piena». Una sera d’estate, in una lussuosa villa sul mare in cui si tiene «la Convenzione» («Incontri, scambi, battere di ciglia, / docce, equivoci, gare, eventi vari, / pause, sbadigli, digrignare di denti»), all’improvviso qualcuno lo prende da parte e lo conduce sul retro, poi giù per una scala, fino a una buia cripta maleodorante, dove gli mostra «La Collezione»: «casse e scatole» col nome del «padrone di casa» e ricolme di unghie e capelli («Suoi?» «A milioni. / Li conserva, li tiene chiusi qui / da una vita»). Qui il ricordo si interrompe per tornare, con un più fondo tuffo analettico, alle circostanze del primo incontro con il losco figuro che l’ha condotto lì: «Non un amico, no: uno così / è già tanto se è amico di sé stesso. // Diciamo un conoscente, nel senso / che lui mi conosceva (io / solo più tardi l’ho riconosciuto)».
Vecchio compagno ai tempi delle lotte studentesche, ma già allora in sospetto di essere «un confidente», «una spia», il Conoscente appare a «Fiori» su un filobus, in una nebbiosa sera d’inverno degli «anni Ottanta del Novecento». Fra i due si inaugura subito un rapporto assiduo e intimo, molesto e ambiguamente coinvolgente. Senza che sia mai chiaro per conto di chi operi, il Conoscente lo blandisce e provoca, gli addita gli «scrupoli» e le «paure» di cui è «prigioniero»: «Sei pesante, pesante, Umberto Fiori. / Fatti leggero! Mica devi rispondere / del mondo intero». Con perversa abilità, nei loro furibondi corpo a corpo verbali gli rinfaccia i suoi veri o presunti fallimenti, lo istiga a riconoscere, sotto il velo delle ragioni che professa, un rovescio di malcelata insoddisfazione e rabbia, egoismo e rancore. Ai duelli verbali si alternano gli strani incontri-urto cui il Conoscente lo sottopone: lo conduce all’«Ente», un istituto religioso dove il suo antico desiderio di «essere coro» si scontra col fastidio per il colloso abbraccio degli altri, per il modo in cui «gnàulano» e «storpiano» il suo stesso nome («“Scolta, Alberto” / ruggisce uno “vuoi essere mio amico?”»). Quindi gli mostra il dossier conservato su di lui nell’«archivio», irridendo l’ingenuità cieca con cui quelli come lui hanno creduto nell’«Avvento / del Mondo Giusto, della Verità, / di un più autentico Noi». Ed ecco allora il viaggio fino al paesotto brianzolo dove il Conoscente promette di presentarlo, finalmente, al «grande Mandante, quello / che regge l’intero gioco», da «dietro, sotto» le apparenze della storia. Lì «Fiori» incontra «il signor Olindo»: ometto insignificante e rozzo, fascistoide e qualunquista, emblema della «razza maledetta / che da secoli infesta questo paese»: così inveisce «Fiori», ormai fuori di sé, e salterebbe alla gola dell’Olindo se il Conoscente non lo fermasse.
Il culmine del grottesco percorso di rieducazione si consuma nel fascinoso setting della «Convenzione» (un’isola con vulcano, che ricorda Stromboli). Qui il Conoscente si tramuta in «sdottore», «Cappio dell’impersonale» e «Scoordinatore delle Rincorse Oltreumane»: improbabile terapeuta-deformatore (di coscienze come del linguaggio), ai suoi adepti/pazienti propina sedute di «ampiocoscianza» e «tornei di Wah», «gare di insulti» e intricate «danze della piovra». Imbronciato e recalcitrante, «Fiori» ogni tanto evade dal folle consesso pagaiando in canoa verso la solitaria valletta dove un giorno ha scoperto, fra i cespugli, delle rovine di marmo scolpite, di fronte alle quali – senza spiegarsi bene perché – si commuove; o amoreggiando con la sensuale Selva (la donna che rimpicciolisce). Poi, la visita alla Collezione: alle sue proteste («Che cosa dovrei capire?») il Conoscente risponde con la solita lezione: «Macché carpire… macché candire… andiamo, / abbandonati un po’, smetti di farti / tante domande inutili. Lascia che l’Opera / ti attraversi…». Ma quando poco dopo, durante una delle rituali danze-orge in villa, il Conoscente invoca «forbici» e «rasoi» per sottoporre anche i nudi corpi dei convenuti alla «tonsura», «Fiori» si ribella definitivamente: sfida lo «sdottore», lo lascia a terra rantolante di rabbia. E scappa.
Nella sesta e ultima Parte, composta di un unico intenso capitolo, «Fiori», ormai solo, si inerpica sulla scoscesa parete del vulcano. Mentre il sole volge al tramonto, nello sforzo del confronto – fisico, mentale – con il selvaggio paesaggio che lo circonda, sente montare in sé uno slancio riappropriante per gli elementi del mondo, per le parole che possono (sì, possono) dirlo. Poi d’un tratto si fa buio, il cielo si copre, si scatena un temporale: a un passo dalla vetta, un fiume d’acqua e fango lo travolge e trascina a valle. La mattina dopo, quando si risveglia, riprende l’ascesa. E raggiunta la cima ci trova loro: «Alberto! / Cos’è che ci fai, qua?». L’incontro con l’espansiva e appiccicosa combriccola dell’Ente segna il crollo desublimante anche dell’illusoria palingenesi appena vissuta. Poi il più tontolone gli offre dell’acqua, lui la rifiuta ma quello insiste, in un niente tutti gli sono addosso e – fatti «mucchio» «mischia» – rotolano giù per il monte. Per un po’ «Fiori» cerca di divincolarsi. Poi, «una buona volta», si arrende: «Mi sono sciolto, mi sono / lasciato andare, sì. La grande discesa / mi governava. Dopo tre capriole / l’abbraccio si è disfatto. Ero solo. / Più grave, più leggero». E proprio allora, alzando gli occhi, «in mezzo al mare, laggiù / ho visto avvicinarsi la mia nave».
Non c’è dubbio che il senso complessivo del racconto consista nella messa in figura dell’angoscioso, inestricabile groppo storico-esistenziale in cui si è strozzato il destino di tanti «Umberto Fiori»: di tanti intellettuali passati attraverso il rovesciamento della intensa e tragica stagione dei settanta nella oscena vertigine edonistico-deresponsabilizzante degli ottanta (con la minaccia – di cui la Collezione è emblema – di una resa totale alla coscienza dello spaventoso destino di nullificazione che è «il Risultato» del nostro esistere, individuale e collettivo). Così come è evidente che, nella messa in figura di quello scacco, c’è poi qualcosa che riguarda più da vicino quello speciale «Fiori» che è il Fiori poeta: qualcosa che ci dice quanto a fondo – quanto dolorosamente e reattivamente – la sua voce, la sua pronuncia «senza bravure», affondi le radici nella desolazione di quel trauma. Ma tutto questo non risolve o spiega totalmente l’enigmatica carica di suggestione del libro, il suo fascino ambiguo e perturbante. Di cui non resta che rassegnarsi ad avere «la testa piena», almeno per un po’.