La necessità di un buon cattivo

Nei film, il ruolo del cattivo ha una funzione fondante quanto quella dell’eroe, e un’importanza «cardinale». Sono i cattivi i personaggi che più restano impressi nell’immaginario del pubblico: da Hannibal Lecter a Michael Myers, da Darth Vader all’implacabile T-800, fino ad arrivare al recentissimo Joker interpretato da Joaquin Phoenix, simbolo di ribellione alle sopraffazioni quotidiane. Ma forse il cattivo più terribile è quello che alberga dentro di noi, e che solo film come Sorry We Missed You, di Ken Loach, sanno raccontare in tutta la sua terrificante e quotidiana malvagità.
 
Negli ultimi mesi lo straordinario successo planetario del film Joker, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia e monopolizzatore di candidature agli Oscar 2020, ha focalizzato di nuovo l’attenzione di pubblico e critica sulla figura del cattivo. La sua è una funzione fondante quanto quella dell’eroe e talvolta i due ruoli si scambiano e si confondono. Il maestro del brivido cinematografico Alfred Hitchcock, durante la straordinaria conversazione con François Truffaut che ha dato vita all’indimenticabile volume Il cinema secondo Hitchcock (Pratiche editrice, 1987), a proposito dell’insuccesso del suo film Paura in palcoscenico (Stage Fright, 1950) e dell’importanza del “cattivo” disse: «Perché raccontiamo una storia nella quale sono i cattivi che hanno paura. È il lato veramente debole del film, perché questo infrange la grande regola: più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film. Ecco la grande regola cardinale».
Grande regola cardinale la definisce senza mezzi termini il regista e a ben vedere, almeno per quanto riguarda il cinema, spesso sono proprio i cattivi a restare più impressi nella memoria degli spettatori. Pensiamo ad esempio a un film come Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, 1991), quanti ricordano caratteristiche della coprotagonista, l’agente Clarice Starling, pur interpretata da un’eccezionale Jodie Foster, rispetto all’agghiacciante sibilo rettiliano emesso dallo psicopatico cannibale Hannibal Lecter? Tra l’altro in quel film, tratto dal libro omonimo di Thomas Harris (1988), sono proprio le deduzioni prodotte dal dottor Lecter che consentono a Clarice di risolvere il caso affidatole.
I cattivi non sono tutti uguali e possiamo delinearne alcune tipologie significative. Un primo gruppo è quello che si ricollega direttamente al mondo infero. Spesso il cattivo è il tramite con cui il “male” entra in relazione con l’umano. A volte il cattivo è solo un mezzo, a volte è il demonio stesso che attraverso di lui agisce in prima persona. In questo ambito è esemplare il film L’avvocato del diavolo (The Devil’s Advocate, 1997) tratto dall’omonimo romanzo di Andrew Neiderman (1990), in cui un istrionico e luciferino Al Pacino interpreta l’avvocato John Milton, che già dal nome ci riporta al “paradiso perduto” di Milton. E non è casuale il riferimento a Milton, figura che in qualche modo conferma la precedente affermazione di Hitchcock. Northrop Frye nel suo monumentale saggio Agghiacciante simmetria (Longanesi & C., 1976) ricordava come il Satana di Milton fosse ancora più rilevante della figura di Dio: «Satana è umano e reale, è un misto di bene e di male, di immaginazione e di individualità e quindi ha un posto in un’opera d’arte». Il Milton del film è un potente e seducente avvocato che tenta il promettente Kevin Lomax offrendogli il ruolo di socio nel suo studio, ma soprattutto è l’incarnazione umana di Satana. In realtà il ragazzo è un suo figlio e attraverso di lui Milton/Satana tenta di procurarsi un erede facendolo accoppiare con una sua affascinante figlia – e sorellastra di Kevin – in una sorta di incesto satanico che porterebbe alla nascita di un potentissimo Anticristo.
Un altro personaggio davvero molto cattivo è il Michael Myers concepito nel 1978 da John Carpenter in Halloween – La notte delle streghe, un film capostipite del genere slasher che negli anni ottanta ebbe una grande fortuna, riprendendo ed espandendo il concetto dell’uomo nero, il bogeyman, delle fiabe fanciullesche. Al centro di questi film troviamo un maniaco psicopatico ma la figura di Michael è, forse, un po’ più complicata di quella dei suoi epigoni. Più che una psicopatia, la sua sembra davvero una possessione diabolica. La maschera terrificante da lui indossata, col suo nitore abbacinante cela qualsiasi emozione ed è associata a orribili massacri. In primo luogo a quello della sorella mentre amoreggia in casa col fidanzato, quando Michael è ancora un bambino. Inoltre, una sorprendente incapacità di morire rende questo personaggio quasi immortale, suggerendo che egli sia qualcosa d’altro e di più complesso.
Un’altra maschera cela un cattivo che nasce negli anni sessanta e che ha trovato nuova vita nel recente film diretto da Todd Phillips e interpretato da Joaquin Phoenix, ovvero Joker. Non c’è traccia di demoniaco in lui ma solo una psicopatologia che porta uno sconfitto dalla vita a ricercare la sua vendetta nella violenza. Il personaggio nasce negli anni quaranta come fumetto ed è tra i principali nemici del supereroe Batman. Approda in tv nel 1966 con la serie Batman, interpretato da Cesar Romero. In realtà al tempo era ancora un personaggio da fumetto, con quella maschera del joker, ovvero il jolly delle carte, un trickster, un imbroglione dalla natura inafferrabile, non necessariamente malvagia, dedita a scherzi talvolta letali. Il cinema si appropria di questo personaggio e, attraverso le interpretazioni prima di Jack Nicholson (Batman, 1989), poi di Heath Ledger (Il cavaliere oscuro, 2008), arriva a modificarlo completamente con la versione offerta da Phoenix. Attraverso queste riletture, il Joker diventa sempre più nevrotico e dolente, pronto a far esplodere una violenza incontrollata contro il mondo che lo opprime e lo deride. Niente a che vedere con la violenza onomatopeica e un poco surreale di quello interpretato da Cesar Romero. Un cattivo sofferente ed eccessivo con il quale il pubblico è incline a riconoscersi, in una sorta di simbolo di ribellione alle sopraffazioni quotidiane, tanto è vero che il volto dipinto di Phoenix viene replicato da gruppi di manifestanti in varie parti del mondo.
Poi abbiamo un gruppo di cattivi un po’ anomalo, in cui, come una sorta di organismo androgino, viene sperimentato sia il lato oscuro che quello della luce. Come direbbe Borges, alla stregua di un soggetto che si veda moltiplicato in una galleria di specchi: «perché lo specchio è implicito nell’idea scozzese del Fetch […], all’idea tedesca del Doppelgänger, il doppio che ci cammina accanto, e che diventa poi l’idea di Jekyll e Hyde e così via» (M.E. Vasquez, Borges uguale a se stesso, in J.L. Borges, Il congresso del mondo, Franco Maria Ricci, 1974). Curiosamente, i personaggi che meglio descrivono questo essere ondivago tra bene e male sono legati a un concetto più vicino alla macchina che all’umano. Penso per esempio a T-800, il cyborg interpretato da Arnold Schwarzenegger nella saga di Terminator. Nel primo film della serie egli è il cattivo inviato nel passato per eliminare Sarah Connor, futura madre di John Connor, che diventerà il leader della resistenza umana contro il mondo delle macchine. Nel secondo episodio egli sarà invece l’elemento salvifico per l’adolescente John, braccato da un cyborg ancora più sofisticato e feroce, e metterà a rischio la sua stessa esistenza pur di proteggere la vita del ragazzo.
Cammino inverso invece quello di Darth Vader, che una volta si chiamava Anakin Skywalker, uno dei protagonisti della saga di Guerre stellari. Da cavaliere Jedi schierato in difesa del Bene, a primo consigliere dell’Imperatore dopo aver aderito al Lato Oscuro della Forza, il potere che il Male utilizza per tenere oppresso il popolo delle galassie. Darth Vader è tenuto in vita solo in virtù di questo tradimento e il suo è un corpo non più completamente umano, perché di fatto è stato trasformato in un cyborg.
Ma il cattivo più crudele, forse il più insidioso, non appartiene a nessuno di questi gruppi. È quello che più ci assomiglia, che è dentro di noi o nel nostro vicino, dalla fisiognomica così normale che avrebbe ingannato persino Cesare Lombroso. Una “cosa” che da un momento all’altro potrebbe uscire feroce e senza pietà da un corpo che non ti aspetti. Penso a cattivi come quello incarnato dal personaggio di Gavin Maloney in Sorry We Missed You (2019), l’ultimo film diretto da Ken Loach. Maloney è il coordinatore dei corrieri di una compagnia di trasporti, ha un fare rassicurante e amichevole, un bel sorriso accogliente. A poco a poco, però, scopriamo che nell’espletare il suo ruolo egli non palesa il minimo senso di compassione. Cinico all’inverosimile, sfrutta ogni persona portandola a superare il limite imposto dalle proprie forze e poi la getta via come pattume, perché crea un ambiente di lavoro competitivo e feroce, in cui mette tutti gli uni contro gli altri. Egli è sempre lì, ad ascoltare le implorazioni di aiuto di questi nuovi schiavi senza tutele, con la sua faccia senza espressione che forse è anche più terrorizzante della maschera di Michael Myers o del volto dipinto del Joker.