Lisario, il piacere della sbrigliatezza

Lisario o il piacere infinito delle donne è la storia di una “bella addormentata”, nella Napoli del Seicento: in mezzo a una folla di straccioni e in compagnia di medici e artisti, una ragazza muta si chiede, scrivendo alla Madonna, «come farò a fare la Femmina?». Il libro della Cilento sfugge a ogni etichetta – neoromanzo storico, favola barocca, new epic postmoderno – e punta a coinvolgere i lettori in una ghiribizzosa avventura di penna.
 
Avrebbe dovuto intitolarsi Notizie urgenti della notte, a riecheggiare, forse, una delle prime opere di Antonella Cilento (Una lunga notte); poi, per scelta editoriale, è uscito Lisario o il piacere infinito delle donne. Un titolo decisamente più azzeccato: e non tanto per il richiamo al “piacere infinito delle donne”, tema suggestivo ma nel testo evanescente, quanto per la luce subito concentrata sulla protagonista, fulcro vero della narrazione.
Diminutivo di Belisario, «il nome intero era riservato alla donna sposata», Lisario è una fanciulla bellissima, resa muta da un’operazione chirurgica sbagliata, che possiede due virtù non comuni: l’attitudine a combattere le avversità rifugiandosi in una sorta di prolungata catalessi; una eccezionale capacità di scrittura. A sette anni, un rovinoso crollo di libri sulla testa l’ha trasformata in “Spetta di Letteratura”. E il primo evento, di scarsa o nulla verisimiglianza, di cui il lettore viene messo a conoscenza: a rievocarlo, in incipit, è la stessa Lisario che, ormai undicenne, scrive la sua prima lettera, indirizzandola alla «Signora Santissima della Corona delle Sette Spine Immacolata Assunta e Semprevergine Maria Madonna». Con un’altra missiva, indirizzata sempre alla «Suavissima» Maria, si chiude il libro. Dall’inizio, 16 marzo 1640, sono passate alcune decine di anni e Belisario, ormai cinquantenne, è prossima a morte, ma il “Tutto è finito” coincide con uno strepitoso happy end: «una felicità che non credevo esistesse al mondo e di questo, lo sai, Clementissima, Ti sono infinitamente grata».
Incorniciata e inframmezzata da questa sorta di segreta “posta del cuore”, la narrazione, in terza persona, ripercorre le varie tappe della vita di Lisario: dal primo sonno, in cui sprofonda adolescente per non maritarsi con un «vecchio bavoso», al matrimonio con un «ganzo vigliacco» che l’ha risvegliata, il medico Avicente dominato dall’ossessione morbosa per il «mistero sciocco delle donne», per approdare alfine all’unione amorosa con un bel pittore fiammingo, che la rende madre di una bimba.
Sullo sfondo della Napoli secentesca, fastosa e miserevole, capitale di arte e cultura, e insieme ricettacolo di malattie, superstizioni, feste e follie, si muove la schiera variopinta dei personaggi, comprimari e comparse. Al centro la famiglia di Lisario: madre e padre – una coppia degna del più grottesco familienroman, lei nana, matriarca imperiosa, lui hidalgo spagnolo che odia tutti, «il popolaccio rozzo e la nobiltà meschina» – e le tre simpatiche servette che accudiscono il giovane corpo dormiente, Immarella Annella e Maruzzella. A corolla, due gruppi di intellettuali, entrambi di reputazione malfida e dubbia sessualità: sono medici e artisti. Intorno, per le vie caotiche e puzzolenti, lo spettacolo di una folla cittadina che non conosce scampo dalla fame e dall’ignoranza: la grande rivolta di Masaniello si consuma e si perde fra fattacci di donne e di ciarlatanerie truffaldine.
La trama del racconto principale, narrato con onniscienza sfrontata, procede con un andamento sussultorio, che privilegia salti e ribaltamenti ai nessi progressivi d’intreccio: sulla Bildung “sentimentale” di Lisario, amante riamata del fascinoso Colmar, si innestano blocchi narrativi discordanti: la miniatura della vita popolare, in cui il sacro delle processioni si mescola al profano spettacolare, il disegno degli intrighi di corte e delle botteghe d’arte; il racconto di epidemie letali, esperimenti pseudomedici, viaggi tempestosi, prove di stupri e d’omicidi: insomma un guazzabuglio di motivi e figure che il narratore governa con abilità pirotecnica, un poco sgangherata. In realtà, Cilento pare divertirsi ad assecondare il ritmo alterno delle diverse strutture di genere, raccordate con rimandi più o meno vincolanti: di volta in volta sale in dominanza il quadro variopinto del neoromanzo storico, il bozzettismo del color locale partenopeo, la scansione picaresca delle peripezie di pittori girovaghi, lungo tragitti di terra e mare, dentro nobili sale e sordidi bassifondi. Nella trama discreta e discontinua aggalla persino un tema ambizioso del pensiero “femminista” («un vecchio tabù: la masturbazione femminile», parola d’autrice). Il tutto sorretto da una dinamica accelerata di eventi inverosimili: morti che resuscitano; coincidenze sorprendenti, agnizioni rivelatrici; infine, l’ultima, attesa vendetta, per via matrilineare, contro il bieco Avicente.
A rendere ancor meno coesa l’orditura romanzesca è il solito gusto della scrittrice napoletana di allineare, in una prosa leggibilissima ma ricca di eleganti sprezzature, inserti dialettali e chiaroscuri caravaggeschi, i richiami ai classici di un epos ormai lontano: dalle novelle del Don Chisciotte e del Pentamerone alle avventure cavalleresche dell’Orlando Furioso, senza scordare gli amanti celebri di Dante e Shakespeare o la fantasmagoria animalesca dell’Ortese. Qui, tuttavia, a differenza dei libri precedenti, non prevale un’ostentazione manierista di letterarietà, sì piuttosto un effetto di sbrigliata fantasia che scombina la rete di intertestualità più o meno colta. Persino l’artificio cardine del libro, il doppio livello di narrazione, non è destinato a piacere agli odierni “Sperti di Letteratura”: la frattura fra il racconto in terza persona e il commento epistolare a penna di Lisario, reso palese dalla diversità tipografica – il primo in tondo, il secondo in corsivo –, non punta ad aprire polifonie discorsive o scarti espressivi, ma vale a concentrare il focus sul «segreto quaderno di lettere», indirizzate alla Madonna. È questo il vero e più interessante romanzo di Lisario: l’assillo iniziale «Come farò a fare la Femmina!» (p. 12) si scioglie nell’andamento, questo sì progressivo, di un racconto di formazione, scandito in varie prove: se il sonno è la prima reazione alla scoperta adolescenziale: «crescere è una pignatta! Io sono una pignatta e tutti mi vogliono rompere!», l’orgasmo catalettico è la risposta sana alle “cure” malsane dell’ottuso Avicente; seguono, poi, la passione e la fuga con il pittore fiammingo, il viaggio sulla nave dei pirati che la sottrae a doppia morte – epidemia pestilenziale e uccisione per leso onore maritale –, l’approdo infine a Favignana, dove si ricongiunge all’amante “resuscitato” e, nella villa ospitale di un tal Conte Pallavicino, cresce la figlia Teodora. Lo sberleffo affidato a una lettera scritta, come sempre, alla Suavissima Maria, dopo aver scoperto di essere incinta: «A che servono i libri se non a imparare cosa non fare?» (p. 159) trova rifrangenza nell’ultimo dialogo fra Candela, questo il nome d’arte di Teodora, e il dottor Avicente, ormai mummia incancrenita: «ho scelto una via nascosta: alle donne non è permesso cantare e quando ne ho voglia mi fingo un uomo. Il Candela è un soprannome, in onore del mestiere di scena di mio padre. […] So tutto di voi. Mia madre ha scritto molte pagine che vi riguardano» (p. 293).
E, finalmente, un colpo apoplettico atterra chi era riuscito a scampare all’ignominia professionale, al contagio di tifo e peste, alla rivolta di Masaniello e al tracollo del Viceré.