Il sonnambulismo wuminghiano

Con l’ultimo libro i Wu Ming proseguono nel solco della sperimentazione di genere: L’armata dei sonnambuli è un romanzo storico a più livelli di lettura in cui l’accurata ricostruzione del contesto parigino negli anni del Terrore rivoluzionario si intreccia a vicende dai connotati fantastici. Il confronto, all’interno della storia, tra realtà e percezione degli eventi offre lo spunto per riflettere su due tematiche centrali nel dibattito sull’attualità: la contaminazione tra politica e spettacolo e le tecniche di persuasione collettiva.
 
Come altri romanzi di Wu Ming, più di altri romanzi di Wu Ming, L’armata dei sonnambuli si presta a letture diverse per motivazione e orientamento. Romanzo storico, secondo la cifra del collettivo già dai tempi di Luther Blissett, offre una ricostruzione quanto mai accurata dell’ambiente parigino all’epoca del Terrore (più precisamente, fra l’esecuzione di Luigi XVI e il Termidoro), con dovizia di riferimenti e dettagli che possono incuriosire e deliziare sia gli esperti sia i dilettanti di Storia. Romanzo d’intreccio, impostato su quattro linee d’azione corrispondenti a quattro personaggi principali, procede con sapiente ritmo narrativo, accelerando con il complicarsi e l’intersecarsi delle vicende, fino a precipitare in una stretta finale che è bensì ovvio attendersi, ma che anche i lettori più sagaci stentano a indovinare. Opera sorretta da un’avvertita consapevolezza teorica, seppure non sperimentale in senso stretto, esibisce un impianto narrativo decisamente plurale. La voce di un narratore esterno, informato ma non ingombrante, si alterna infatti con due tipi diversi di discorso: le testimonianze di un anonimo cittadino del «foborgo Sant’Antonio» (quasi una cronaca popolare intercalata agli eventi) e variegati prelievi da documenti d’epoca, che fungono volta a volta da interludi, glosse, anticipazioni, didascalie (articoli di giornale, estratti da leggi e decreti, brani di discorsi alla Convenzione o al club dei giacobini, pagine di libri di viaggio, stralci da studi sugli alienati, e così via: il che consente di dar la parola direttamente a Marat, Robespierre, Hébert, Mesmer, Puységur, Goldoni, Franklin). Romanzo-fiume gremito di personaggi, scandito da cambi di scena e colpi di teatro attentamente studiati e disposti, si lascia leggere come un feuilleton d’altri tempi, sia di per sé, sia all’interno della ormai cospicua sequenza di narrazioni epico-storiche, familiare agli appassionati (Q, 1999; 54, 2002; Manituana, 2007; Altai, 2009); ma visto all’interno della piccola galassia multimediale che comincia a orbitare attorno al sito della Wu Ming Foundation, il nuovo romanzo appare suscettibile di generare elaborazioni, continuazioni, trasposizioni, come il nucleo di una ulteriormente collettiva impresa di espansione e ramificazione epitestuale.
Detto in altri termini, la forza del libro di Wu Ming consiste nella sua capacità di funzionare a più livelli e secondo diverse prospettive, catturando segmenti di pubblico fortemente differenziati tra loro: non escluso chi identifica il valore letterario con una riconoscibile cifra stilistica. Oltre al già menzionato moltiplicarsi delle istanze narrative – che esclude la possibilità di un punto di vista privilegiato sulle vicende – il tratto formale più vistoso è senza dubbio la mimesi del gergo parigino all’epoca della Rivoluzione. Come i Wu Ming hanno spiegato in più occasioni, la scelta è stata di combinare calchi dalle espressioni storicamente documentate (si veda il censimento di Michel Biard, Parlez-vous sans culotte? Dictionnaire du Pere Duchesne, 1790-1794) e prelievi dialettali bolognesi e ferraresi: «Insomma», si legge nell’intervista apparsa sul sito di Doppiozero, «abbiamo sciacquato i panni nel Reno e nel Po di Volano». La valutazione del risultato non può che essere soggettiva: dipende dal gusto, dalla cultura, dall’età. Al mio stagionato orecchio milanese questa soluzione suona molto espressiva: un’efficace miscela di trasparenza e opacità semantica, corposa e duttile quanto basta, in un regime fonetico di media familiarità (forse perché, da Bologna a Parigi, Milano è giusto sulla strada). E lo stesso vale per la scelta, sottilmente e abilmente straniarne, di tradurre in italiano i più noti toponimi parigini: Pontenuovo, piazza della Greva, via Sant’Onorio, Ponte del Cambio, Tegolerie. Fa eccezione l’ospizio-prigione di Bicétre, luogo chiave nella Storia della follia di Michel Foucault, donde infatti è cavata una delle due epigrafi del volume (l’altra è un prelievo da Gracco Babeuf, sfortunato oppositore del Direttorio).
I quattro protagonisti dell’Armata dei sonnambuli sono il medico Orphée d’Ambiane, sostenitore della Rivoluzione, studioso di magnetismo animale e sonnambulismo indotto; il sedicente cavalier d’Yvers, aristocratico legittimista, tessitore di una diabolica trama restauratrice avviata durante una reclusione volontaria a Bicétre; la sarta Marie Nozière, popolana audace e generosa, risoluta a trovare riscatto da un doloroso passato; l’attore e avventuriero bolognese Léo Modonnet, alias Leonida Modonesi, segnato fin dall’infanzia da un incontro con Carlo Goldoni e destinato a divenire una sorta di eroe popolare nei panni di Scaramouche (la cui torva maschera campeggia sulla copertina del libro). Sullo sfondo di vicende e di discorsi – come si diceva – scrupolosamente storici (anche i nomi dei personaggi d’estrazione popolare hanno riscontri documentari) si svolge una vicenda che presenta forti connotati fantastici. Le pratiche mesmeriste sono promosse a strumento pressoché infallibile di annullamento della volontà personale, con intensità che varia dal semplice freno degli istinti altrui al plagio vero e proprio, dalla forzata imposizione a un singolo di una doppia identità fino al controllo a distanza di un esercito di individui resi passivi come automi (di qui il titolo del romanzo). La rivisitazione del genere misto di Storia e d’invenzione in chiave fantastica può essere interpretata sia come il prevalere della dimensione avventurosa su quella realistica, sia come riflesso di un dato caratteristico del mondo in cui viviamo, ossia la difficoltà di definire che cosa abbia davvero valore di Storia in un contesto dove ogni evento è suscettibile di essere sommerso dalla caterva delle mediazioni informative. Quale Storia può darsi se la percezione del reale è filtrata da un guazzabuglio di notizie frammentarie, approssimazioni inattendibili, interpretazioni opinabili, resoconti volenterosi ma parziali, falsificazioni tendenziose, forzature, panzane? Ma forse si andrà più vicino al vero soffermandosi sulle due grandi tematiche inscenate dal romanzo di Wu Ming, entrambe connesse a fenomeni insieme cruciali e attualissimi: il sonnambulismo e il teatro.
Fuor di metafora, la prima, grande questione consiste nel controllo delle coscienze. Al di là delle pratiche mesmeriste, dell’ipnosi, dei fenomeni patologici o paranormali come la licantropia o la satinasi, il dato importante è che la società appare più che mai esposta all’induzione di convinzioni e comportamenti irrazionali e coatti, che possono tramutare i cittadini in docile strumento nelle mani di chi detiene il giusto know-how. Ciascuno può trovare alle teorie di Franz Anton Mesmer e alle invenzioni dei suoi seguaci l’appropriato corrispondente odierno: il potere mediatico, il fanatismo religioso, pregiudizi più o meno occulti, ideologie. Di sicuro un incendio alle Tuileries il 21 gennaio 1795 non sarà dovuto alla causa che ci racconta questo romanzo, ma non si può certo dire che manchino nella realtà storica attuale azioni terroristiche o attentatori suicidi: né, su un piano più generale, che ci sia penuria di meccanismi comunicativi omologanti e generatori di conformismo. E sarà pure una coincidenza, ma un recente, illuminante libro dello storico Christopher Clark sulla Prima guerra mondiale – che in questo centenario appare più che mai come l’atto fondativo della coscienza moderna – si chiama proprio 1 sonnambuli. La seconda questione è la contaminazione tra politica e spettacolo. Nel romanzo è Léo a intuire che la Rivoluzione ha trasformato la politica in un dramma pubblico ininterrotto e senza intervalli: il teatro non si fa più nelle sale chiuse, ora l’intera Parigi è divenuta un palcoscenico. Ma idee non meno chiare ha il losco cavalier d’Yvers, che vede nel 1789 l’inizio di una Grande Farsa e aspira a farsi burattinaio di uomini. Quanto a noi, cittadini di un Paese che per anni ha scelto di affidarsi a Silvio Berlusconi e che nel 2013 ha dato più del 25% dei voti a Beppe Grillo, non duriamo fatica ad accettare l’idea che la politica si nutre di simulazione scenica. Piuttosto, gioverà un’avvertenza: la spettacolarizzazione della vita pubblica, con tutte le sue perversioni e degenerazioni e magagne, costituisce un fenomeno tipico della società di massa, ed è quindi una componente inevitabile (anche se non esclusiva) della democrazia.
Non faremo peraltro ai Wu Ming il torto di supporre che abbiano inteso escogitare allegorie. Il compito della letteratura non è di travestire la realtà di panni fantasiosi, ma di dar vita a metafore aperte: cosa che tarmata dei sonnambuli fa con perizia che ha pochi eguali nella letteratura italiana di oggi. Vale la pena di sottolineare che il finale del romanzo conclude soltanto la trama: lo scenario storico, all’inizio del 1795, rimaneva più instabile che mai. Certo, con la sconfitta dei giacobini la Rivoluzione appare in pieno riflusso, ma nessuno dei personaggi è in grado di presagire quanto avverrà di lì a poco. E se sarà pronto ad affrontarlo, lo saprà solo vivendo. Da questo punto di vista, è quanto mai significativo l’epilogo, che passa in rassegna tutti i personaggi raccontando cosa sarà di loro, per quel che è dato presumere, s’intende. Un florilegio di congetture, alcune delle quali mirabilmente capziose.
Sui personaggi, un’ultima considerazione. Ben definito il ruolo del villain, sul versante degli eroi positivi la figura di maggior spessore psicologico è senza dubbio Marie. Ma nell’insieme forse ruolo-chiave spetta a una terna di ragazzini più o meno coetanei, diversissimi per provenienza, storia, condizioni, carattere. Si tratta di Bastien, il figlio che Marie ha avuto a sedici anni, costretto dalle circostanze a crescere molto in fretta; di Jean del Bosco, orfanello del contado che ha ricevuto un’educazione signorile ma che Orphée conosce in Alvernia nei panni di ragazzo-lupo; e del Delfino di Francia, Luigi Carlo Capeto, principino ereditario e infelice prigioniero. Uno dei tre muore; gli altri due sopravvivono, forse (e chissà quanto a lungo). Variamente implicati dalla trama, tra loro non s’incontrano mai: paiono quasi incarnare tre versioni possibili del destino della vittima, cui la possibilità del riscatto non è preclusa in linea di principio, ma che deve misurarsi con un intrico vertiginoso di forze prevaricatrici. E ci vuole tutta la bravura di un romanziere di vaglia per rendere plausibile un sia pur parziale, congetturale, condizionato lieto fine.