Vitali, magro e saporito

Da molti anni i romanzi di Andrea Vitali seducono il pubblico italiano, che regolarmente spedisce in cima alle classifiche le sue commedie paesane, tanto movimentate quanto divertenti. Una vecchia ricetta, certo, ma aggiornata con talento e mestiere: intrecci ben lavorati, gran mazzi di zie, carabinieri, bottegai, ladruncoli, una frizzante inventiva onomastica, qualche spolverata di giallo, il lago q.b., ed ecco servita la pietanza. Come resistere?
 
Camilleri&Vitali: ovvero i due Andrea che nei primi quindici anni del secolo hanno sbancato la narrativa italiana, gettando sul tavolo una travolgente sequenza di volumi, che imperversano nelle classifiche senza soluzione di continuità. Questi due ferventi laboratori artigianali godono da tempo del più raro e ambito dei successi: un’affermazione iterativa e trasversale, che coinvolge cioè stabilmente fasce di pubblico diversificate non solo per età e genere, ma anche per competenze, dal momento che i lettori forti non mancano. Le storie assemblate nelle loro officine meriterebbero un’analisi contrastiva, che si sospetta in grado di restituire affinità sorprendenti. D’altra parte Vitali&Camilleri si situano agli antipodi tanto dal punto di vista geografico – la lacustre Bellano vs la mediterranea Vigata – quanto nella considerazione dei critici. Se infatti Camilleri ha fatto sversare cisterne d’inchiostro in ogni dove, provocando decine di monografie, tavole rotonde, convegni e pinzillacchere, per contare gli studi dedicati a Vitali basta un pollice.
Eppure lo scrittore lombardo ha dietro le spalle una carriera lunga ormai un quarto di secolo, a far conto dal 1990, quando su impulso di Raffaele Crovi uscì da Camunia Il procuratore.
Una dozzina d’anni più tardi Vitali rompeva il muro delle 100.000 copie a romanzo, presto lievitate in un crescendo che lo ha portato di recente ad attestarsi sopra quota 300.000. Nel frattempo faceva incetta di premi (vincitore al Grinzane, al Bancarella, al Chiara, al Boccaccio, finalista allo Strega e al Campiello) e vedeva moltiplicarsi le traduzioni, che hanno portato le sue storie in mezzo mondo. Oggi Vitali ha oltrepassato la boa dei cinquanta volumi, se si considerano i dodici comparsi presso un piccolo editore lucchese, Cinquesensi (al quale destina i racconti, illustrati dall’omonimo artista Giancarlo Vitali), e i quattro romanzi brevi usciti nel 2001 da Aragno sotto il titolo Varia del lago, in seguito rivisti, ampliati e ripubblicati singolarmente. L’ultimo di questi, Biglietto, signorina, è il terzo romanzo comparso nel fertilissimo 2014, dopo Premiata ditta Sorelle Ficcadenti e Quattro sberle benedette.
Con tutto ciò, Vitali sinora è riuscito a guadagnarsi soltanto una caterva di interviste e recensioni, tanto calorose quanto sommarie. A ogni nuova uscita in effetti viene rispolverata la filastrocca dell’amena commedia all’italiana, del paesello irresistibile affacciato su scenari pittoreschi. Tutto verissimo, per carità: come è vero che in Vitali precipita e si rinnova un’antica tradizione lombarda di narrativa lacuale, che rincasa su quel ramo del Lario, dopo avere conosciuto il Ceresio, grazie ad Antonio Fogazzaro, e l’Alto Verbano, palcoscenico privilegiato delle opere di Piero Chiara.
Certo guardando al Novecento si potrebbero fare molti altri nomi (Soldati, Arpino, Parise per esempio lasciano impronte), ma non c’è dubbio che Chiara abbia agito come propellente decisivo, nella scelta di concentrarsi con ostinazione su una vivace comunità rivierasca e sulle inquietudini, i traffici, le ambizioni che febbrilmente la percorrono. L’avverbio non è posto a caso, visto che alla sua Bellano Vitali per un trentennio ha misurato la pressione, lavorando come medico di base. D’altra parte non è alla contemporaneità che guarda, ma al passato prossimo, con una predilezione verso gli anni trenta. Già la Luino del Piatto piange aveva mostrato quanto il periodo fra le due guerre si presti al romanzo di costume calato in provincia: lo ius murmurandi, il coté grottesco del fascismo, il fuoco nelle sottane, botteghe rivali, diavoli in sacrestia, pomeriggi di flanella al casino, notti in fumo tra carte e biliardo nei caffè. Specie nei primi libri Vitali rimescola le carte di questo mazzo, non senza strizzate d’occhio ai lettori: a chi alludono titoli come La signorina Tecla Manzi o Premiata ditta Sorelle Ficcadenti, se non alle impagabili sorelle Tettamanzi della Spartizione.
Solo di rado lo scrittore lecchese si spinge a rovistare in tempi più lontani, senza risalire comunque oltre la Grande Guerra, fatta eccezione per La leggenda del morto contento, che si dipana al tempo degli austriaci, nel 1843, e rappresenta un unicum anche per il taglio piuttosto amaro conferito alla narrazione. Più volentieri Vitali si esercita sul periodo che va dall’ultimo dopoguerra ai primi anni settanta (La modista, Di Ilde ce n’è una sola, Un bel sogno d’amore ecc.). In questi casi corrobora la ricetta introducendo in dosi massicce una fauna umana di modesta estrazione ma intrigante vitalità: operai del cotonificio, contrabbandieri di mezza tacca, dattilografe zitelle. Alle signorine agée sono regolarmente riservati ruoli di primo piano; dalle ricette di tre adorabili zie si sviluppa anzi l’unico lavoro in qualche misura autobiografico, ovvero Le tre minestre. Più in generale, non è troppo ritenere le donne protagoniste assolute della narrativa di Vitali. Sotto specie di figliole capricciose, giovani avvenenti, mogli insoddisfatte, suore dalle maniere spicce, beghine astute, vecchiette misteriose, oltre che zie e zitelle, si accampano al centro delle vicende con la forza della loro personalità, che schiaccia i malcapitati – spesso deboli, timidi, irresoluti – che si parano sulla loro strada.
Alle donne Vitali affida volentieri la scintilla d’avvio dell’azione, per lo più ricavata da due situazioni standard: l’affioramento di un segreto gelosamente celato da un insospettabile indigeno bellanese, oppure l’arrivo in paese di un estraneo che turba equilibri consolidati, siano le sorelle Zemia e Giovenca Ficcadenti che avviano una distinta merceria, o la bellissima Marta di Biglietto, signorina, scesa senza denari da un treno. In tutti i casi, c’è qualcosa da scoprire e qualcuno che si accolla il compito di indagare. Spesso capita che siano dei medici: come il dottor Lonati, che in Dopo lunga e penosa malattia si insospettisce per uno strano odore di fritto, imitato dal dottor Fastelli, che in Zia Antonia sapeva di menta è invece turbato da un inconsueto sentore d’aglio.
Paradossalmente Vitali tende ad allontanarsi dal giallo quando a investigare sono figure istituzionali, ovvero i carabinieri, che restano confinati nel ruolo di comparse o tutt’al più comprimari, chiamati a occuparsi di bagattelle che non oltrepassano il latrocinio, le risse o gli schiamazzi. E significativo notare come proprio in quest’ambito compaia un elemento di serialità, dal momento che il terzetto di cui si compone il locale comando – ovvero il maresciallo Maccadò e i due sottoposti in costante dissidio fra loro, il brigadiere sardo Mannu e l’appuntato siciliano Misfatti – si ripresenta immutato in numerosi romanzi ambientati fra le due guerre, come La signorina Tecla Manzi, Olive comprese, La mamma del sole, Galeotto fu il collier, Quattro sberle benedette.
Intorno a questi cardini la compagnia muta vorticosamente di pagina in pagina. Vitali può così dare libero sfogo alla passione per l’onomastica, che entusiasma i suoi fan: ed ecco di scena – citando qua e là – Idolo Geppi, il maestro Fiorentino Crispini, Suor Speranza al secolo Valeriana, Cicilia Salò detta Gnagnolina, Menichelli ragionier Demetrio, il sagrestano Ulderico Frattazzi meglio noto come Bigè… Fortissima è la vocazione alla coralità. Colpisce, in quest’ottica, che il primo grande successo, Una finestra vista lago, sia anche uno dei romanzi in cui questo pedale è pigiato più a fondo, così da suscitare un incessante alternarsi di voci, dove nessuna svetta. In questi paraggi meglio si riconosce il talento di Vitali, che nei suoi intrecci gestisce con perizia un numero impressionante di fili, affidandosi pressoché sistematicamente al montaggio alternato. Fungo questa via è giunto al virtuosismo, che in Quattro sberle benedette lo induce a chiudere gran parte dei capitoli con un twist, per poi riprendere in anadiplosi il termine chiave nell’attacco del capitolo successivo, che di norma varia attori e scenari.
L’alto tasso di comicità presente in queste storie è dovuto in buona parte al tratteggio di situazioni e abitudini buffe, bizzarre, imbarazzanti, con effetti moltiplicati dal sardonico contegno del narratore, che si limita a ragguagli fulminei, evitando introspezioni, pennellate di colore, descrizioni articolate. Vitali si attiene a un incalzante stile coupé, disseminando le pagine di a capo e punti fermi. Si veda, per un esempio probante, l’attacco della Figlia del podestà: «Mercede Vitali, dell’omonima merceria sita a Bellano in via Balbiani numero 27, era una smortina tuttaossa. / Nubile. / Vergine. / Vegetariana. / Aveva quarant’anni. / Da venti non si perdeva la prima messa del mattino. / Pregava, poi andava a vendere mutande». A quest’inconfondibile sincopato alterna lunghe sequenze di tambureggianti dialogati, dove dà prova di un ottimo orecchio nella resa dell’oralità, a cui perviene senza temere il turpiloquio e senza offrire al dialetto concessioni troppo generose. E così, sebbene gli ultimi romanzi sfoggino una mole massiccia, Vitali continua a destare un’impressione di asciutta intensità. Sarà per questo che quando in libreria si incontra uno scaffale gremito dei suoi titoli subito vengono in mente le spalliere di missoltini che i pescatori del Lario lasciano essiccare al sole sul lungolago, per la gioia di chi ama il pesce povero ma sostanzioso. Magro e saporito.