Ermafroditi, supereroi, picari mancati

Le figure di autori-intellettuali che i tre romanzi qui analizzati generano pongono problemi di portata non solo letteraria. Innanzi tutto, c’è un postmoderno talmente esibito da rovesciarsi (Mari) in qualcosa come una moralità. Poi (Wu Ming) agisce l’“essere qualunque’ della Rete, che prova a riscattarsi a colpi di melodramma e di fumetto. Infine (Cilento), una provocazione al femminile che mostra i limiti del politicamente (e letterariamente) corretto.
 
L’anno è il 2014, l’ordine alfabetico: Antonella Cilento, Lisario o il piacere infinito delle donne (Mondadori); Michele Mari, Roderick Duddle (Einaudi); Wu Ming, L’armata dei sonnambuli (Einaudi). E facile cogliervi subito un’aria di famiglia. Tre mondi romanzeschi lontani dal realismo, incardinati in uno spazio-tempo alle soglie della modernità; un plotting che fa i conti con il fantastico, restandone nondimeno al di qua; una lingua e uno stile problematizzati, disposti a confrontarsi con un dialetto ora fattuale ora tutto mentale – di secondo grado –, ma anche con la sprezzatura di un italiano classicamente novecentesco, “di traduzione”. E l’elenco potrebbe continuare. Le domande che queste opere pongono sono curiosamente archetipiche. Quali le radici del moderno? Quali i confini del realismo (o, che è quasi lo stesso: Quali i confini del fantastico?)? Con che strumenti esprimere le alterità, ora sociali (l’argot della plebe parigina settecentesca), ora locali (la Napoli del Seicento), ora infine culturali (Mari scrive un romanzo che appunto si vuole traduzione dall’inglese, da una specie di Stevenson apocrifo) ?
Proviamo a dirlo con parole critiche di impianto narratologico, leggermente più precise. Siamo di fronte a tre autori impliciti che propongono storyworlds all’apparenza convergenti e che chiedono ai propri destinatari l’applicazione attiva di cornici cognitive simili fra loro. Anzi, insisterei proprio sulla controversa nozione di “autore implicito”. Dai tre romanzi in oggetto ci viene incontro un giudizio – più o meno evidente, poco importa – intorno a tante cose anche del presente, soprattutto del presente. E questa valutazione dobbiamo associarla a istanze definibili come “Cilento”, “Mari”, “Wu Ming” che solo in parte hanno a che fare con le persone dette reali le quali da qualche parte, nel mondo detto reale, storicamente corrispondono a quelle etichette. La riconduciamo, quella valutazione (diciamo) ideologica, a tre autori impliciti – ripeto.
Sarà dunque il caso di farli parlare un po’ più distesamente. E, anche, di andare alla ricerca delle eventuali differenze che li oppongono, delle sfumature che caratterizzano le singole posizioni. Passeremo in rassegna i seguenti quattro lemmi: narratore, rapporto con la Storia, rappresentazione dell’eros, costruzione dell’intreccio.
È quasi inevitabile partire dai narratori, dalle voci che parlano dall’interno delle opere (e alle quali l’autore implicito sembra affidare le proprie intenzioni). Da questo punto di vista, è chiaro che Mari sceglie la soluzione più esposta. Quel signore che si esprime in Roderick Duddle, e ci apostrofa con una varietà colorita di epiteti (sempre disposti in coppie), che non per caso culminano in un «paziente e tollerante lettore» e in un «fedele e affezionato lettore», quel narratore, dunque, recita ironicamente una parte. Fa il verso alla voce autoriale, solitamente detta onnisciente, del romanzo ottocentesco, strizzando però sempre l’occhio al lettore moderno, che blandisce con riferimenti culturali e filosofici tutt’altro che coevi ai fatti. Una sua evidente passione per de Sade lo sbilancia curiosamente – ma non troppo – verso il Secolo dei Lumi, e se del caso verso Laurence Sterne. Del resto, si tratta di un’onniscienza un po’ fanfarona, leggermente inattendibile, se è vero che almeno di un personaggio (sto pensando al Probo, discendente dell’Elephant Man di David Lynch) sappiamo poco: e insomma siamo invitati a colmare i blanks della storia con le competenze tipicamente extradiegetiche di noi lettori duemilleschi e, senza alcun dubbio, postmoderni.
Da questo punto di vista, Cilento e Wu Ming sono assai più vicini a una specie di mainstream. Due narratori poco udibili e in senso lato cinematografici, attenti a seguire da vicino, uno per volta, i personaggi che costituiscono i fulcri prospettici della storia. In astratto, la soluzione di Cilento ha qualche originalità, perché la vicenda di una giovane donna del Seicento, in cerca di “liberazione” (sessuale, ma non solo), è raccontata attraverso lo sguardo dei due uomini che l’hanno amata, pur se in modo parecchio diverso. Inevitabile, dunque, l’effetto straniarne: soprattutto nel caso in cui a percepire Lisario è il marito, Avicente Iguelmano, medico privo di passione e talento, ossessionato dal corpo della consorte e in particolare dalla di lei capacità di provare piacere. D’altronde Lisario è muta, e il narratore può registrarne i pensieri solo attraverso un limitato corpus di lettere indirizzate alla Madonna. Com’è noto, questa esibizione di documenti è tornata di moda nel romanzo anche di genere degli ultimi vent’anni e più; e non meraviglia che Wu Ming ne faccia ampio uso, proprio mentre il suo narratore segue lo spostamento e le avventure dei principali personaggi, sia positivi sia negativi.
Una delle differenze più notevoli, in questo dominio, consegue a una scelta storica-, il rapporto con gli eventi collettivi. Wu Ming ha il coraggio di raccontare una comunità. Il vero protagonista dell’Armata dei sonnambuli è la plebe parigina, i sanculotti nella loro tragica parabola fra 1793 e 1795. Da qui la necessità, quasi verghiana, di farli parlare con una voce corale, che peraltro utilizza un curioso gergo, connotato anche geograficamente (una specie di emiliano). Idioma triforme, tra Céline, Celati e appunto Verga, sui cui esiti è bene sospendere il giudizio: «Te lo si conta noi, com’è che andò. Noi che s’era in Piazza Rivoluzione. […] In piazza si stava tutti pigiati, fitti come le setole di un pennello, ché perlomeno il freddo porco lo si tiene a bada, o magari è solo un’impressione, ché spartire il male è già mezza goduria. Però a quel modo, uno finisce che non vede niente, dal gran che c’erano schiene e bertocche, per non dire dei vecchi che ti si grappavano ai panni per non cadere!»
Ma, appunto, è una buona coscienza storica (e politica) che spinge Wu Ming alla ricerca di una parabola, un’allegoria, intorno non alla Rivoluzione, direi, ma alla controrivoluzione. Chi siano, oggi, i sonnambuli e i muschiatini, gli alienati da un potere ideologico onnipervasivo, e quale fluido magnetico li possegga, è sin troppo facile dirlo.
All’opposto, Cilento spiattella una coscienza non dirò cattiva, ma un po’ ipocrita: e il suo narratore – in effetti non di rado distratto o sopra le righe – davanti alla crisi della rivolta di Masaniello si lascia scappare un’affermazione di questo genere: «Lazzari a Palazzo, cucinati a dovere dalla politica» (corsivo mio). E un lapsus, certo: attribuire a un narratore immerso nei fatti una prospettiva discretamente qualunquista, tipica del polemismo straccione dei nostri giorni. Ma ciò è sintomo dell’indifferenza alla Storia da parte di chi ha pianificato la vicenda di Lisario. Uno sfondo tanto colorato e ricco di dettagli (notevole la ricostruzione delle vicende artistiche: botteghe di pittori, scuole, stili ecc.) quanto privo di ogni vera significazione condivisa; posso dire: “idealità”?
Da parte sua, il cinico Mari con perfetta nonchalance ha virtuosisticamente fuso un paio di secoli: raccontandoci un’Inghilterra ottocentesca ma ancora rurale, in cui Stevenson è già stato letto e Musorgskij già stato ascoltato; tuttavia i cui referenti filosofici sono – dicevamo – quelli di un certo libertinismo settecentesco, peraltro proverbialmente francese. Dickens (insieme comunque con Thackeray e George Eliot) è spaesato dall’avventura “pura” dell’Isola del tesoro e da Diderot. L’esito appare felicemente atemporale: una specie di ur-Inghilterra plasmata dalle simpatie di un Mari appassionato lettore romanzesco, prima che autore. E la cosa ci piace assai.
Così come ci piace che la sfera del sesso sia qui rappresentata come pura meccanica del desiderio, scatenamento di un Es osceno che travolge ogni idea di bene e quindi di lieto fine. Suor Allison, l’ermafrodito libidinoso e perverso che tira le fila della storia, non solo ne esce vincente, ma getterà un occhio compiaciuto sui due fanciulli (i due protagonisti) a lei affidati in tutela: prolungando insomma in questo modo le sue tresche oltre la fine del racconto, in una prolessi esterna tanto indeterminata quanto assolutizzante. Le cose vanno e andranno sempre, dice.
Laddove Cilento ha in mente qualcosa come un riscatto, il trionfo di verità e giustizia che, se non nella sfera pubblica, si realizza in quella privata. La donna ha diritto a trovarsi la persona giusta con cui vivere una vita affettiva appagante: e questo avverrà in una nuova famiglia che le peripezie del romanzo porgono a Lisario in modo quasi inverosimile. E un lieto fine – con relativo trionfo del grande amore – che non può non configgere con il male delle perversioni sessuali che nel libro di Cilento pure fanno capolino. Al punto che una specie di ermafrodito anche qui c’è (la Bella ’Mbriana): ma la sua sessualità ancipite non è affatto segno di insubordinazione, bensì all’opposto di sottomissione al potere. Tutto il romanzo appunto tende al ristabilimento di un eros “giusto”, attraverso strade decisamente moralistiche.
Come sempre succede nella sua opera, per Wu Ming la sfera dell’incontro erotico svolge un ruolo tutto sommato secondario, anche se è rappresentata in modo disinibito. Non per caso, il personaggio certo più importante di questa storia, il dottor Orphée d’Amblanc, borghesemente oscilla tra la repressione dei propri istinti (in relazione a una sua paziente, la signora Girard) e l’abbandono al piacere in contesti aproblematici (tipicamente, con una padrona di casa vedova). E uno dei tratti dell’intreccio tiene molto del romanzo d’appendice, visto che la tricoteuse Marie Nozière sfigurerà alla fine della storia l’uomo che l’aveva violentata: peraltro agendo in presenza del figlio nato da quello stupro…
Il punto, come si vede, è la logica della trama, la sua ideologia: il senso finalistico degli eventi. Del politicamente scorretto Mari abbiamo detto. Resta da osservare che alcune componenti della sua tecnica narrativa assomigliano curiosamente a quelle di Wu Ming, e hanno un’aria di famiglia ancora più generale che fa molto “romanzo global al tempo del New World Epic”. Dico della divisione in capitoletti piuttosto brevi in cui i filoni della storia sono portati avanti secondo i procedimenti del montaggio alternato. Su questo modo di costruire ci sarebbe moltissimo da dire, credo: ma non è chi non veda che il riferimento più che cinematografico è, oggi, soprattutto televisivo. Una forma di entrelacement che “incolla” alla visione, oops alla lettura. Fra l’altro – come affermato esplicitamente dal narratore di Roderick Duddle –, la trama di Mari appare per definizione aperta, e almeno in teoria è disponibile a un sequel. La stessa cosa si dirà di Wu Ming: anche se i suoi “titoli di coda” (ora denominati Come va a finire), il rinvio cioè alla Storia-Storia, dovrebbero ridurre questa possibilità. Nondimeno, molti fattori spingono verso una concezione modulare e seriale di racconto: in particolare, l’idea a mio avviso geniale di introdurre un vero e proprio supereroe fuori del tempo, il vendicatore Scaramouche, e di attribuire all’armata dei sonnambuli poteri soprannaturali. Di modo che l’immaginario fumettistico ibrida sapidamente l’intreccio e ci dispone ad accettare certi colpi di scena (appunto) rocamboleschi.
Cosa che invece risulta assai più difficile concedere a Lisario. Lo scioglimento del romanzo (almeno nella sua parte sentimentale) discende da un artificio quasi del tutto inverosimile: il fatto che i due protagonisti si ritrovino casualmente sull’isola di Favignana, dove poi vivranno felici e contenti. È lo stesso paratesto ad ammonirci in tal senso (vedi la prima aletta della sovraccoperta) , quando fa riferimento alla tradizione del romanzo picaresco. Il problema è che Cilento non ha scritto un romanzo picaresco; e solo in prossimità della conclusione ne ha adottato una caratteristica. Secondo una strategia che definirei molto ideologica.
Proviamo a concludere. L’autrice implicita (dunque: l’intellettuale) proiettata da Antonella Cilento con il suo romanzo ha una fisionomia leggermente rétro: c’è in lei la nostalgia per un sistema di valori latamente moderni, che vengono perseguiti in modo sempre un po’ meccanico e volontaristico. Lo stesso titolo lo conferma e contrario-, l’eroina, in fondo, un “piacere infinito” lo sperimenta solo agli occhi del primo compagno, del marito geloso. La provocazione è più nelle intenzioni che nei fatti. Il lettore si tranquillizza presto, perché questo è un femminismo ben disciplinato.
Mari, a mio avviso, compie il gesto quasi opposto: a furia di insistere sulla finzionalità, la falsità, la gratuità, l’iperletterarietà di tutta la sua rappresentazione, ci mette a disagio. Certo, la sua è l’insicurezza “ontologica” tipica del romanzo postmoderno. Ma questa umanità narrativa così simpaticamente sema inconscio qualcosa su ciò che siamo diventati sicuramente afferma. Anche perché Mari, in questo modo, si inventa una specie – scusatemi – di grande stile ironico, di cui certo c’è bisogno.
Non molto diversamente, il romanzo storico ibridato da un fumetto e da una serie di manipolazioni controfattuali – la ricetta dell’Armata dei sonnambuli — a mio avviso dice molto di un essere qualunque collettivo: ma in prossimità di qualcosa che (a differenza dell’“alto” Mari) un tempo avremmo detto piccola borghesia. È un certo mondo di Internet che parla: quante volte, titanici nelle intenzioni e nei proclami, finiamo per inciampare, dentro la Rete, su minuzie che ci delegittimano? Quante volte il troppo pieno del blog diventa un troppo vuoto? Così, in Wu Ming la rivoluzione culmina in una mossa fumettistica. Che peraltro – di nuovo – ci serve per capire dove siamo arrivati. E qui il noi non è generico: ma dice appunto di uno smarrito utente dei nuovi media, detentore però di rabbie e desideri di riscatto sociale oggi sottoposti a troppe frustrazioni.
Di modo che, a ben vedere, l’unica domanda davvero aperta è un’altra: esiste, può esistere, una diversa figura di intellettuale-autore su cui sarebbe stato possibile lavorare? Certamente sì. Ma teorizzarne l’esistenza almeno potenziale attiene direttamente al campo della pratica sociale, dell’ideologia (della politica?). In questo immenso fuori-testo, è la collettività dei lettori (e non solo) a dettar legge, non il critico. Che a questo punto, insomma, fa meglio a tacere.