L’altra faccia del reality

Il documentario Italy in a day, il format Sconosciuti, la web television YouReporter: prodotti audiovisivi difficilmente riconducibili a una tradizionale classificazione di genere, accomunati dal nuovo ruolo, attivo e testimoniale, dello spettatore. In essi, chiunque, servendosi di una telecamera o di un telefonino, ha l’opportunità di condividere frammenti del proprio quotidiano e di diventare a tutti gli effetti coautore della narrazione. A emergere, però, non è il protagonismo del singolo o l’unicità delle sue esperienze, quanto i legami tra le persone e l’interconnessione generale.
 
Nello scorso numero di tirature è stato affrontato il tema della non fiction, il genere a metà tra il documentario e la finzione, in cui il regista rinuncia a esprimere un commento esplicito su quanto mostrato nelle inquadrature, spronando lo spettatore a farsi interprete attivo. Ora invece ci focalizzeremo su prodotti audiovisivi ancora più marginali rispetto alla consolidata classificazione dei generi, caratterizzati dalla scelta della persona ordinaria quale interprete protagonista o coautore stesso della narrazione.
«Questo non è come la tv, è un po’ meglio. Questa è vita reale. Un pezzo di vita reale di qualcuno pura e integrale, dritta nella corteccia cerebrale. Insomma, è lì. La stai facendo, la stai vedendo, la stai sentendo, la stai provando.» Con queste parole, nel film di fantascienza Strange Days di Kathryn Bigelow (1995), Lenny Nero vendeva a un cliente lo SQUID (letteralmente Superconducting Quantum Interface Device), un caschetto di elettrodi da indossare per provare in prima persona un pezzo di vita di un altro essere umano. Un tizio qualsiasi si infila il dispositivo con gli elettrodi, impugna una pistola e va a fare una rapina in banca. Poi prende il dischetto che ha registrato e lo vende. L’acquirente mette il dischetto nel suo registratore per riprodurlo, infila a sua volta un caschetto di elettrodi e prova la stessa adrenalina e le stesse emozioni che ha vissuto il rapinatore nel momento della rapina, ma senza rischi o effetti collaterali. Nell’apocalittico futuro di Strange Days, spezzoni di vita reale sono venduti di contrabbando e a prezzi da capogiro, costituendo la merce più contesa da spettatori intorpiditi dalla sovrabbondanza di schermi e di immagini pubblicitarie.
Quasi vent’anni dopo il film di Kathryn Bigelow, la vita delle persone comuni declinata narrativamente si è trasformata in intrattenimento, e occupa una porzione di palinsesto della televisione generalista che solo poco tempo fa sarebbe stata impensabile. Ci stiamo riferendo a Italy in a Day di Gabriele Salvatores, ma anche al format Sconosciuti in onda su Rai3, e persino a YouReporter, la web television con più di sette milioni di contatti giornalieri realizzata con i filmati degli utenti della Rete e di recente acquisizione di Rcs. Fil rouge dei prodotti audiovisivi in oggetto è senz’altro il ruolo testimoniale della persona comune, dal punto di vista sia tematico che formale, si pensi per esempio al cittadino che dal balcone di casa riprende l’alluvione in diretta e la posta sul web, rendendo il filmato disponibile anche per i notiziari televisivi. Così, ciò che è visto dal telespettatore acquista allo stesso tempo la peculiarità dell’esperienza vissuta. A una prima impressione, questo fenomeno farebbe pensare a una commistione tra i generi del romanzo popolare e della cronaca, con ammiccamenti a certo neorealismo cinematografico minore. In realtà, la differenza sostanziale consiste nel rapporto con lo spettatore che, da una fruizione passiva, acquista un ruolo attivo, arrivando persino a diventare artefice del prodotto audiovisivo.
«Sabato 26 ottobre prendi una telecamera, un cellulare e filma la tua vita. Sei libero. Racconta chi sei, cosa ami, di cosa hai paura o qualsiasi cosa sia per te importante, e carica il tuo video su questo sito.» Con questo slogan, un apposito sito Internet nato per l’occasione reclutava partecipanti per il film prodotto da Rai Cinema e firmato dal regista Gabriele Salvatores. Stiamo parlando di Italy in a Day, la versione italiana di Life in a Day, il progetto originale nato nel 2010 con l’idea di filmare un giorno sulla Terra per creare il più grande lungometraggio generato dagli utenti, con la partnership di YouTube, la produzione esecutiva di Ridley Scott e la regia di Kevin MacDonald (premio Oscar per il documentario Un giorno a settembre nel 2000). Etichettato come il primo “social movie” della storia, Life in a Day è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival nel gennaio del 2011, e in seguito trasmesso dalle reti televisive di ogni nazione partecipante. Dalla fine di ottobre dello stesso anno, e ancora nel momento in cui scriviamo, è liberamente visionabile su YouTube, con sottotitoli in venticinque lingue.
Nel 2013 Rai Cinema decide di riproporre l’esperimento rivolgendosi al pubblico italiano e lo promuove attraverso Internet e i canali televisivi della Rai. Reggiamo dal sito: «Per partecipare basta prendere un telefonino o una telecamera il 26 ottobre 2013 e filmare ciò che ti sta a cuore. Hai 24 ore per riprenderti e 3 settimane per registrarti e caricare tutto su questo sito. Tutti gli autori dei video selezionati per il montaggio finale di Italy in a Day saranno citati come autori del film accanto al nome di Gabriele Salvatores. Entrerai anche tu nella storia del cinema italiano». All’appello risponde un piccolo esercito realizzando 44.197 video, per un totale di 2.200 ore di immagini, da cui verranno selezionati e montati 632 spezzoni. A riprova che, nel momento in cui i computer e i telefonini hanno cominciato a convertire l’intimità in spettacolo grazie ai social network, a YouTube e alla nuova tendenza degli autoscatti (ribattezzati modernamente “selfie”), tutti hanno scoperto di avere qualcosa da raccontare e condividere. In Italy in a Day il pubblico è diventato parte integrante della narrazione – mettendo in scena se stesso, la propria famiglia, le situazioni che lo circondano – ma anche coautore. Con i mezzi a sua disposizione il partecipante realizza un breve filmato che può avere il privilegio di essere scelto dai selezionatori e, in una fase successiva, tagliato, riassemblato, accostato a un sottofondo musicale e infine riproposto in un mélange collettivo. In realtà, paradossalmente si verifica quasi il contrario dell’intuizione warholiana che affermava il diritto di ciascuno al suo quarto d’ora di celebrità. In Italy in a Day gli utenti-autori sono sotto i riflettori non singolarmente ma tutti insieme, animati dalla speranza di essere prescelti per entrare nella storia del cinema italiano, come una foto di classe potrebbe entrare nella storia della scuola italiana. Perché, a dirla tutta, non è tanto la chance di entrare nella storia del cinema a smuovere i partecipanti, ma piuttosto l’idea generale diffusa dalla Rete del sentimento di interconnessione e di partecipazione globale. Come ha teorizzato l’antropologo Marc Auge, i social network sono la quintessenza del suo noto concetto di nonluoghi, spazi neutri e indistinti, nei quali molte persone pensano di trovare una forma di relazione con il mondo, sostituendo l’immagine di una relazione a una relazione concreta.
Ecco allora che in Italy in a Day il racconto delle esperienze di vita dei partecipanti-spettatori, più alcuni interventi programmaticamente commissionati dalla produzione (come le riprese fatte dall’astronauta Luca Parmitano nello spazio), sono organizzati nella fase del montaggio intorno a un messaggio positivo ed euforicamente ottimista, che ritrae un’Italia di buoni sentimenti e di belle speranze. La fase progettuale ha riscosso un consistente numero di adesioni e, grazie anche all’intensiva promozione pubblicitaria, il risultato finale non ha deluso le aspettative dell’impegno produttivo. Porse per curiosità, forse per ritrovare i propri contributi video, i telespettatori si sintonizzano su Rai3 per guardare il film, e la rete ottiene uno share dell’8,84% con 1.896.000 spettatori, su una media che generalmente si aggira tra il 6 e il 7 %.
Un risultato più che apprezzabile, come è anche per gli ascolti di Sconosciuti, il format che, nell’ambita fascia preserale precedente il prime time, si difende egregiamente dalla concorrenza agguerrita degli access e dei telegiornali delle altre reti. Sconosciuti racconta vite ordinarie allo scopo di far luce sulla gente comune ed estrarla dall’oscurità dell’anonimato. Pilo conduttore di ogni episodio è la storia di due persone (coniugi, fratelli e sorelle, amici, colleghi ecc.), unite da un legame di lunga data e dalle molte esperienze vissute insieme. Il progetto ha la firma di Simona Ercolani (autrice anche del felice format Sfide), la cui cifra distintiva consiste «nel dare epicità al racconto quotidiano», come chiosava Aldo Grasso in un articolo sul «Corriere della Sera» (24 ottobre 2013). La voce fuori campo che racconta le persone comuni trasfigura vite ordinarie in qualcosa di unico e di riccamente personale, in modo che lo spettatore percepisca la normalità come eccezionalità. Grasso sottolineava che a rendere prezioso l’ordinario non è tanto la storia in sé, perché tutti amano, soffrono, cascano, si rialzano e ritornano a sorridere, ma la scrittura e il confezionamento del prodotto. A differenza del registro cinico e d’assalto dei talk show e dei reality, a cui partecipano persone comuni affannosamente in cerca di notorietà e disposte a tutto per raggiungerla, Sconosciuti tratteggia ritratti delicati e dolci, dove gli eroi del quotidiano lottano per restare uniti nelle difficoltà della vita, consolidando un sentimento di umana e vicendevole solidarietà. E l’arte del raccontare la vera chiave di questo programma televisivo, che piace perché sa imprimere piccole svolte anche nella normalità più noiosa, con repentini imprevisti e cambi di scena. Come le tessere di un mosaico, tutto infine si ricompone nell’ordine quotidiano, e le due persone che si raccontano sedute vicine intorno a un tavolo evocano le antiche narrazioni orali intorno al fuoco.
Sconosciuti è un format geniale e audace per la televisione generalista che, con le dovute differenze, ci ricorda le intense e malinconiche opere dell’artista Christian Boltanski, basate sul salvataggio della “piccola memoria”, cioè sulla raccolta di dati sulle vite delle persone. Nella sua mostra del 2005 al Pac di Milano Les abonnés du téléphone, c’erano quasi tremila elenchi del telefono provenienti da tutto il mondo, pronti per essere sfogliati. Tra le pagine ingiallite dei vecchi volumi, idealmente prendevano vita decine di milioni di esseri umani, sottratti per un istante all’oblio. Riflettere sul tempo e sulla memoria significa anche percepire la dicotomia, sempre presente, fra dimensione privata e pubblica, fra personale e universale. Anche Sconosciuti è principalmente incentrato sul contrasto tra l’unicità di ognuno di noi e la sua fragilità, la precarietà dell’esistenza, che rende palese la forza dei legami nella specie umana, ma soprattutto restituisce a tutti la dignità del ricordo.