Canzonifichiamoci!

La necessità della canzone d’autore di essere “al passo coi tempi” ha spinto a ricercare combinazioni lessicali sempre più insolite e d’effetto. La conseguenza è un generalizzato svuotamento di contenuti e di significati nella produzione musicale italiana di largo consumo. Il tentativo di “fare poesia” si appoggia sempre più a una struttura standard e banalizzata, finendo per ottenere l’effetto opposto: tra ripetizioni di rime, abuso di metafore e vaghi rimandi all’attualità, il rischio oggi è quello di dichiarare di ispirarsi a Blake e risultare invece emuli di Petrolini.
 
Nel silenzio di un pomeriggio d’estate sento arrivare, dalla terrazza sottostante, un’intro avvolgente di basso e arpeggi di chitarra. Quando entrano gli archi e la batteria parte il cantato, su una garbata melodia: «Si prevede un rialzo / delle temperature. / Aumento della nuvolosità / nelle ore centrali della giornata. / Possibili rovesci / sulle zone prealpine…». Breve strumentale. Poi, sullo stesso giro di accordi: «Mari: mosso il Tirreno / poco mossi gli altri mari…».
Tendo l’orecchio. Il pezzo si spegne piano; dopo un po’ ne comincia un altro. Una voce diversa, ma altrettanto filtrata, s’intenerisce: «Sulla spiaggia è vietato / il gioco del pallone. I cani / vanno tenuti al guinzaglio. / Le relative deiezioni…».
Canzoni, certo: i soliti cliché, le melodie che tutti ci aspettiamo. Ma i testi? Mi fanno pensare a un vecchio libro di “poesie” di Frutterò e Lucentini, L’idraulico non verrà. Mi affaccio, chiedo agli amici là sotto: «Ma che roba è?». Loro ridacchiano: «Vieni a sentire…». Scendo. Le canzoni escono da un cellulare. E un’applicazione per smartphone, si chiama Songify. Tu ci parli dentro, e la app trasforma qualsiasi chiacchiera, qualsiasi farfugliamento, in una canzonetta perfettamente confezionata. Bello! Parte il giochino. Facciamo a gara ad abbassare il livello del testo da musicare, a banalizzarlo fino alla nausea. Inutile: anche la blaterazione più insipida, trita, zoppicante, viene risucchiata nel frullatore pop, lisciata, patinata; la voce più sorda s’inzucchera e si lacca di emozione. Si battiatizza, si jovanottizza, si degregorizza. La songification non conosce limiti. Sorridente e implacabile, l’etereo canzonificio ingoia la misera prosa delle nostre vite nel suo possente, poeticissimo sbadiglio.
Autunno 2013. I giornali annunciano che il candidato italiano al Nobel per la Letteratura è Roberto Vecchioni. Intervistato, il cantautore milanese minimizza e gongola. Che in Svezia abbiano ascoltato Samarcanda o Luci a San Siro, fino a prendere finalmente atto della portata dell’opus vecchioniano, sembra improbabile a molti connazionali. Tranne all’interessato: lui è convinto che lassù, nell’ultima Thule, in questi anni abbiano letto e studiato scrupolosamente anche i suoi libri; forse pregusta già, come il poeta satireggiato in una sua canzone, «Il giorno del Nobel / farò l’antidivo».
Di lì a poco, comunque, lo scoop si sgonfia e si chiarisce. A candidare il cantaprof non sono stati i leggendari accademici scandinavi: è stato un altro prof, tale Tiozzo Enrico, docente di Letteratura italiana a Goteborg «con facoltà» ci informa Aldo Grasso sul «Corriere» del 27 ottobre 2013 «di proporre candidati agli sbiaditi giurati svedesi». Grasso ironizza sul fatto che Vecchioni è appena stato multato per guida in stato di ebbrezza. Ironia maramalda. Quello su cui nessuno ironizza mai – ahimè – è l’altra ubriachezza – più fonda, tutta italiana – che consegue da smisurate bevute di sé. Per verificarla non c’è nemmeno bisogno di “prove del palloncino”: ogni giorno, spontaneamente, i nostri palloncini nazionali danno prova del proprio tasso egometrico.
Il Nobel per la Letteratura, alla fine, Vecchioni non l’ha ottenuto. L’anno prossimo, propongo di candidarlo a quello per l’economia.
[Nota di servizio: accetterà la g del calembour (economia / egonomia) il correttore automatico che ostinatamente preferisce De Gregari a De Gregori? Vedremo.]
Sento alla radio che una località sciistica è la più “gettonata” dell’anno, leggo su un giornale che l’economia è andata “in tilt”, e mi si stringe il cuore. Ecco il Nuovo, il Moderno, che continua a zampettare arzillo nelle sue babbucce da ottuagenario. Il flipper, il juke-box, i gettoni: la lingua ne serba la traccia come un resto di cibo incastrato tra due molari. Ma dove sono, chi li conosce più, questi ex angeli di un ex futuro apocalittico? A qualcuno, sessant’anni fa, le diavolerie americane, minacciosi annunci di un mondo fatto di rock’n’roll e teddy boys, mettevano i brividi; ma non erano già allora, quei trombettieri escatologici, i bambocceschi matusa che insistono ad ammiccare nei nostri tweet e nelle nostre breaking news! E le ruggenti novità di oggi – iPad, Internet, e-book – non le sentite miagolare nei futuri bla-bla dei bisnipoti?
So you wanna be a rock’n’roll star, recita il titolo di un vecchio pezzo dei Byrds. L’aspirante divo viene iniziato all’arte: comprati una chitarra elettrica, impara un po’ a suonarla, e quando avrai la giusta pettinatura e i pantaloni aderenti come si deve, sarai a posto. Facile. Ma a diventare cantautore, invece, come si fa? Oltre ai capelli, ai calzoni, alla chitarra, ci vuole la poesia. Il tuo talento letterario è scarso? A scuola avevi quattro in italiano? Leggi un libro all’anno, se va bene? Non c’è problema. Accendi la tele, la radio, vai su Internet, sfoglia a caso qualche rivista, un tabloid, un’enciclopedia, un atlante. Non ci vuole molto. Ecco qua, vedi? La fossa delle Marianne. Perfetto. La canzone c’è già tutta. Lo so, è un’idea fra mille altre possibili, non si sa perché bisognerebbe scegliere proprio questa. E poi: cosa vuol dire? Un po’ di tutto e un po’ di niente. Ma – lo senti? – funziona. Potevano capitarti – che ne so?
Kilimangiaro, Arresti domiciliari o Il muro del suono, ma tu non pensarci troppo: mettiti al lavoro, ora hai il tuo titolo. Uno vale l’altro. L’importante è tirar fuori il pezzo. La title-line – lo vedi? – è piena di echi e di suggestioni: la fossa delle Marianne – preparati a raccontarlo nelle interviste – è il punto più profondo degli oceani (ben 11 km sotto la superficie, nel Pacifico); la metafora è garantita (ti ricordi Dalla: Com’è profondo il mare). Il resto viene da sé. Mi raccomando le rime. Le rime ci vogliono. Marianne: canne (vedremo dopo come gestirla). Marianne: spanne, capanne, zanne, condanne, in panne, tranne, Arianne (e Tesei, eventualmente… forse è troppo ricercato… si vedrà).
«Ma… in sostanza… cosa devo dire?», chiedi tu. Perché, devi per forza dire qualcosa? Rilassati… Sei un cantautore. Tu scrivi, e cos’hai detto te lo diranno i tuoi fan, te lo dirà Fabio Fazio.
Allora: la title-line la ripetiamo alla fine di ogni strofa. Tecnicamente si chiama epìfora, ma a dispetto del nome astruso è il procedimento più facile e più sicuro: tu sai che c’è questo appuntamento, e la strofa – invece di doverla inventare dal niente – la costruisci puntando lì. Comodo, no? La frase-ritornello funziona, da sola fa tutta la canzone – l’abbiamo detto – ma certo non si può ripetere solo quella; si tratta di predisporle un po’ di contorno, darla e toglierla, darla e toglierla. Ci vuole, la strofa. Diciamo tre, quattro strofe di sei, otto versi. Cominciamo dal penultimo. Sarebbe bene che facesse rima con l’ultimo, per segnalare all’ascoltatore che lo zuccherino sta arrivando di nuovo. Proviamo con qualche rima tra quelle che hai messo da parte. Per esempio: in panne. Potrebbe essere: “Cantano i pesci palla, il tempo è in panne / nella fossa delle Marianne”. Cosa vuol dire che “il tempo è in panne”? Boh? Un po’ di tutto e un po’ di niente: non funziona così, la poesia? Vediamo un’altra rima della nostra riserva: tranne. “Ballano il tango cielo e terra, tranne / nella fossa delle Marianne”. Mica male, no? Raccomanderei, per dare un tocco di attualità, di usare anche condanne. Vedi tu come. Per il resto, mai spiattellare le cose: restare sempre sul vago; le ovvietà che vengono in mente ribaltarle, vetrioleggiarle, renderle strane… Ripeto: nessuno ti chiederà mai conto del senso di quello che scrivi…
 
15 marzo 2014. Esce il nuovo singolo di Vasco, Dannate nuvole.
Nel sunto virgolettato dell’intervista, sulla «Repubblica», leggo:
«Altro che rock, adesso per cantare m’ispiro a Nietzsche e William Blake». Il pensautore di Zocca dichiara di essere stato influenzato «dalla lettura di Nietzsche e dalla consapevolezza che viviamo nel nichilismo. I vecchi dèi se ne sono andati e non sono ancora arrivati quelli nuovi… Nonostante questo noi continuiamo a vivere senza arrenderci. In questo ci vedo già un po’ l’apparire dell’oltre-uomo».
L’Oltre-uomo ragazzi, mica lo scolastico superuomo del Rapagnetta Gabriele, in arte d’Annunzio. Che Vasco abbia letto Vattimo? Stimolatissimo, corro ad ascoltare il nihil-rock*.
 
«Quando cammino su queste dannate nuvole vedo le cose che sfuggono dalla mia mente.
Niente dura niente dura e questo lo sai,
però non ti ci abitui mai.
Quando cammino in questa valle di lacrime vedo che tutto si deve abbandonare.
Niente dura niente dura e questo lo sai
però non ti ci abitui mai.
 
Chissà perché…? Chissà perché… ?»
 
«Chissà perché?» Già. Mah. Intanto, facciamoci su una bella svisa di chitarra che piace ai giovani. Dopo la grave meditazione nichilistica, la dionisiaca levità del danzante interrogativo investe a sorpresa l’ascoltatore.
Chissà perché. Dove ho già sperimentato un tuffo simile? Mi viene in mente qualcosa. Ci penso, lo trovo; non sono i Joy Division, non è Kurt Cobain. Sono gli immortali Salamini («Ho comprato i salamini e me ne vanto…»):
 
«Mi chiamo Ambrogio e ho un orologio
che segna sempre le ventitré,
chissà perché. E quando piove riparo dove
l’acqua non cade sopra di me, chissà perché…»
 
Così va, nell’Italia cantautorevole: si parte da Zarathustra e – gira gira gira – si finisce con Petrolini.