La realtà di Vincenzo Cerami

Al contrario dei vecchi testi naturalisti, in Cerami mancano totalmente elementi visionari; al contrario del pulp, la pagina non si eccita mai quando incontra il sangue, né aumenti il tasso di figuralità. Cerami è un artigiano rinomato, ma non per questo meno umile.
 
L’ultimo libro di Cerami, edito quasi in contemporanea alla sceneggiatura di La vita è bella, si intitola Fattacci e riguarda quattro vicende di cronaca nera italiana, la cui ubicazione è sempre Roma. L’uccisione di un protervo ex-pugile alla Magliana nel 1988, per mano di un pacifico tosacani, stanco di subire angherie. La morte di un nano omosessuale, nel 1990, abituato a compensare la propria deformità con i ricatti e gli abusi, sino al giorno in cui viene soppresso da un giovane con il quale intratteneva relazioni intime. L’omicidio di una giovane donna, malata di tubercolosi, portato a termine nel 1970 da un filonazista, denominato «boia di Albenga» per le sevizie infette alla popolazione civile e ai partigiani durante la guerra. Il suicidio del marchese Casati, sempre nel 1970, preceduto dall’uccisione della moglie e del suo giovane amante, per ragioni assai note.
I quattro episodi presentano annessi documentali veri e fittizi (verbali d’interrogatorio, referti psichiatrici, sentenze giudiziali) che consentono a Cerami di mutare spesso la focalizzazione narrativa. La sua authorship è volutamente flebile: la scrittura fa da scorta agli episodi di cronaca trascorrendo da elementi esterni, quali ambienti e oggetti, a moventi interiori, dalla bonaccia del milieu alle tempeste della psiche, con una sobrietà che rammenta la tradizione narrativa di secondo Ottocento. Nessun virulento anatema contro il Male; nessuna manovra retorica che mostri in Cerami l’intenzione di trasformare la cronaca nera nel perno del tragico assoluto – un tragico laico e insignificante, ma non per questo meno fatale. Se è difficile trovare in Fattacci un credo dominante, vi si dispone tuttavia dell’accesso più ampio alla sfera della realtà, esibita a bella posta in vesti cupe non tanto per farla riconoscere, ma per costringerci a vederla con un’evidenza inappellabile: spesso, come insegna la retorica dello straniamento oggi studiata da Carlo Ginzburg, per vedere le cose dobbiamo guardarle come se non avessero un senso. Ed è proprio su questa egemonia simbolica della visibilità attraverso il genere noir che risulta utile interrogarsi.
Il «fattaccio» è il fait divers dei naturalisti, quello che fungeva da centro generatore nei romanzi di Zola o Capuana: l’ aned­doto di cronaca giudiziaria, domiciliato pressappoco oltre la linea della liceità e penalmente sanzionabile, il vero inverosimile, l’evento straordinario radicato in un territorio di normalità e in grado di captare forti dosi di realtà. L’acquisizione letteraria del «fattaccio» aveva un valore strategico: da un lato consentiva di penetrare nel mondo storico per via diretta, dall’altro era uno strumento di lotta nello scontro tra culture diverse per il controllo della realtà e della sua rappresentazione. Se infatti si fossero rivelati autentici gli incommensurabili guasti di cui il testo narrativo discuteva, essa sarebbe stata prima annientata e poi trasformata. Da allora il mansionario della letteratura è stato sottoposto a plurime rivoluzioni, ma il binomio che dall’ordine fa nascere il disordine, dal grigiore della vita quotidiana la luce inferma del fait divers, continua a essere oggetto di racconto. Esso ha addirittura una valenza totemica per Cerami sin dai suoi primi testi narrativi, per esempio Un borghese piccolo piccolo (1976) o i racconti dell’Ipocrita (1991), e fa di questo scrittore la risposta italiana alla true line tracciata oltreoceano da Stephen King: a una fase preliminare di opacità e fraintendimento in cui poco o nulla accade, segue in questi romanzi il momento del «fattaccio», narrato con una lingua veloce e scheggiata, renitente alle omissioni, veritiera, umile famula della realtà.
Inutilmente nella prefazione a Fattacci Poe e Stevenson vengono ascritti tra gli antenati del testo. In luogo di una discesa romantica nei gironi dell’inconscio individuale o collettivo, ora il binomio ordine/disordine si dispone su una sola, sobria superficie, quella di un linguaggio in cui il recto e il verso dei segni si dissociano per meglio distribuire il carico semantico. I significanti innalzano il vessillo dell’ordine: parole sempre nei ranghi di uno standard medio, metafore a basso voltaggio semantico, fluida paratassi, pleonasmi caratteristici dell’oralità («“E dopo che cosa è successo, dopo che voi avete trovato questo sacco? Lo avete aperto?” “Io naturalmente”. “L’ha aperto lei?”. “L’ho aperto io”»), frequenti spaziature a segnalare, entro la gabbia tipografica della pagina, il passaggio da una scena all’altra. I significanti invece imbracciano le armi del disordine: descrizioni di cadaveri, sapidi ralentis per focalizzare immagini delittuose, frammenti di diari in cui si inneggia alla furia omicida, gesti convulsi che corrodono le volontà diurne.
Così la lettura procede sempre a partita doppia, dove il dare della normalità interseca ossessivamente l’avere del fait divers; e quello che una volta si definiva stile, cioè una selezione ricorrente entro l’insieme dei tratti opzionali del linguaggio, si costruisce in Cerami attraverso due strade che si incontrano dopo essere partite da direzioni opposte. Il significante più pacifico si colloca vis-à-vis con un sanguinoso significato, al modo stesso in cui un borghese piccolo piccolo può scontrarsi con la violenza terroristica o la vita sembrare bella anche in un lager.
Nulla di più complesso che mantenere inalterato questo divorzio, che colpisce lo statuto stesso del linguaggio. Al contrario dei vecchi testi naturalisti, mancano totalmente elementi visionari; al contrario del pulp, la pagina non garrisce mai quando incontra il sangue, né si elevano le soglie di figuralità.
La cultura narratologica di Cerami non si discute, le sue procedure di programmazione testuale nemmeno: leggere i Consigli a un giovane scrittore (1996), in particolare la sezione dedicata alla «Costruzione del racconto» e alla necessità di evitare la narrazione in prima persona perché storicamente in crisi e incapace di un’autentica «vocazione metonimica» (cioè di operare secondo una sintassi legata che dissemini il testo di indizi) significa entrare nella bottega di un artigiano rinomato, ma non per questo meno umile.
Eccoci dunque davanti a romanzi, racconti, sceneggiatore, testi teatrali in cui nessuna realtà è così intricata da vanificare la nostra indiscrezione, e dove la superfetazione di banalità, il mimetismo dei personaggi, quella luminosa inappariscenza per cui essi assumono i colori del contesto, preludono solo all’aggressione intimidatoria dell’ avversario. I personaggi romanzeschi sono adesso «ammassi di energie osservate con l’inesattezza» – le parole sono di Calvino, che si assunse il patronage editoriale di Un borghese piccolo piccolo in luogo di Pasolini – «d’una lente d’ingrandimento puntata sulla bruttezza senza riscatto che regna nel cuore del nostro consorzio civile, ma· anche sulla tenace rabbia di vivere che persiste in fondo a un desolato svuotamento di ragioni vitali». Per un felice paradosso, la cronaca nera romanticizzata da Cerami si alimenta di una permanente aspirazione all’invisibilità: così un mansueto cittadino, per esempio il Loris del Mostro (edito in collaborazione con Roberto Benigni nel 1994), può essere fatto segno di attacchi persecutori «perché nel silenzio di tanti buoni e bravi cittadini, che altro non chiedono al mondo se non di vivere tranquilli, si affastellano, giorno dopo giorno, nello stanzino piccolo e buio della coscienza, tutte le paure che si son volute dimenticare. In quell’angusto scantinato senza lampadine, odoroso di muffa e caucciù, è in perenne fermento la tentazione della vendetta per i piccoli e i grandi terrori accumulati come un veleno nella pacifica vita quotidiana». La sedimentazione e l’esplosione, la lenta contrazione e la fulminea distensione: l’eco di questa sequenza ritmica, che è la griffe dei testi di Cerami dall’esordio a oggi, risuona anche in Fattacci. Il crimine del «canaro» è stato «covato per molto tempo e con cura quasi certosina nel fondo limaccioso dell’animo», mentre all’opposto la marchesa Anna Casati regredisce da un erotismo malato alla sua antica «natura di piccola borghese», e il «boia di Albenga» riconduce il «sogno pazzo e bizzarro della donna» che poi ucciderà «nel limaccio della vita reale».
Il ricorso al «fattaccio» di cronaca e la simultanea defibril­lazione del noir non si incontrano oggi per caso. Narrare eventi è infatti divenuto sempre più complesso, innanzitutto perché si è ridotto il parco naturale dei fatti e i personaggi si sono rivelati cattivi conduttori di eventi. Oziosi e introversi, incapaci di fare alcunché, assertori di un’economia del riposo, era necessario far defungere i personaggi per scoprire nuovamente in essi una fenomenologia della realtà. «E intanto quel corpo che era roseo e bello si disfa, divorato piano piano da se stesso, si deforma, si imbeve di liquami infetti, fermenta» (Fattacci). È un cadavere, ma sembra agire per controllare il passaggio dalla vita al niente corporeo, e di qui al nulla assoluto. In effetti, se si dà credito al recente profilo storico-figurativo sui cadaveri di una studiosa inglese (Christine Quigley, The Corpse. A History, McFarland & Company, 1996), l’immagine di un corpo senza vita è divenuta il rifugio di quanti chiedono ancora alla letteratura, e più in generale al linguaggio, l’onere di rappresentare un referente. Il lento vanificarsi della forza veritativa delle parole, la convinzione reiteratamente affermata nel Novecento che la lingua sia un mondo chiuso e autoreferenziale, l’universo ludico del postmoderno in cui la promiscuità di tutte le forme, passate o attuali, ha finito per trasformare la realtà in una protratta simulazione, la scomparsa stessa del personaggio letterario in quanto amministratore di volizioni e processi decisionali hanno favorito in ultimo la comparsa di cadaveri proprio per l’integralismo antologico di cui sono simbolo. In un senso precisamente storico, i cadaveri della letteratura di fine millennio hanno tra i loro illustri antenati quelle macchine autistiche e celibi, ipo­sensibili e in perenne vuoto di emozioni che secondo le analisi memorabili di Debenedetti, tra le avanguardie primo-novecentesche e la testualità postmoderna passando attraverso Beckett, fungevano ancora da protagonisti del romanzo.
Meri operatori strutturali, apparati di registrazione deantropomorfizzati il cui luttuoso pronipote – il cadavere – non è se non un pentito della soggettività, una cosa di natura, un oggetto in sé e per sé, a proposito del quale si può dire finalmente la Verità e che si iscrive all’anagrafe della realtà.
Dietro i corpi senza vita di Fattacci – immagini concrete che ben si addicono all’indole di uno scrittore sempre a proprio agio nelle sceneggiatore cinematografiche, sin dagli esordi con il Pasolini di Teorema – si cela allora il desiderio di vincere l’agonia della realtà e del suo indispensabile correttivo, l’arte narrativa. Di qui l’opzione verso storie in cui le intenzioni siano addirittura moventi, in cui tutto avviene in flashback e quasi al rallentatore (la velocità è infatti il trionfo dell’effetto sulla causa, cioè dell’inspiegabile), dove le azioni sono antonomasticamente tali: preservazione dell’altro, o soppressione dell’altro. L’ormai copiosa produzione assestata nella cosiddetta true line (un noir attinto dalla cronaca, presente da anni nell’editoria anglo-americana) segnala che per la vecchia realtà non è ancora giunto il momento della liquidazione. Con esiti felici (come il volume di John Douglas, Mindhunter, Rizzoli, 1996, una sorta di «Lavater portatile» dell’età postmoderna) o assai dimessi (come le edizioni dei Libri neri; la collana Stranilibri della Pulp Press; la «Rivista del Giallo» edita da Il Minotauro; i ben tre volumi sul mostro di Firenze usciti presso EmmeKappa Edizioni, e i due sull’omicidio di Simonetta Cesaroni editi rispettivamente da Libri Neri nel 1994 e Datanews nel 1998; l’inutile Morire d’orrore. Cent’anni di serial killer e delitti raccontati come in un romanzo di Enzo Catania, Marsilio, 1998) tale produzione testimonia come il problema della realtà e del controllo gnoseologico che si esercita su di essa non sia una faccenda chiusa.
L’ipotesi che esista una componente necrofila nei lettori è infatti irricevibile, poiché dovunque, oggi, la morte è celata, rimossa o eufemizzata: non esiste più una cultura dell’orazione funebre, né un’iconografia del morente – per esempio le maschere di cera o gesso che ci hanno trasmesso i volti dei grandi scrittori del passato. Perché mai dovremmo trovarci dinanzi a una clamorosa eccezione? È vero piuttosto che solo lo stoccaggio accurato dei referenti (qui: cadaverici) legittima la letteratura in quanto agente di riadattamento: i suoi apparati simbolici, le sedimentazioni millenarie della sua tradizione hanno bisogno di un presente storico, un contesto ambientale, un ecosistema che condensi le ragioni della sua esistenza. Sono verosimilmente queste le ragioni del successo e della longevità testuale di Vincenzo Cerami.
A ben pensarci, anche la sceneggiatura di La vita è bella ( 1998) non ha se non concentrato le aree argomentative e le funzioni antropologiche che Cerami da sempre pratica: i corpi esanimi (in un campo di concentramento senza nome), la cieca realtà dei moventi (della violenza nazista), la lenta genesi di un’aggressione che affonda le radici nella banalità quotidiana (prebellica), il ricorso a un linguaggio della visibilità (filmica), la duplice focalizzazione, puerile e adulta, sugli eventi narrati.