Un gran bisogno di Novecento

A molti esperti del Novecento la cosa potrà spiacere, ma le sorti letterarie del nostro secolo interessano anche e soprattutto perché agitano problemi d’attualità e costringono a schierarsi, a prendere posizione, magari a polemizzare.
 
«E così, per un verso, c’è (primavera 1997) l’editore che crea suspense per un nuovo romanzo di Susanna T a­maro, narratrice dei “buoni sentimenti” (“con i buoni sentimenti si fa cattiva letteratura”, diceva Gide …): Anima mundi (1997); dall’altro verso, c’è il prestigioso editore che per una sorta di “giovanilismo culturale” strizza l’occhio al trash, al pulp, a questi compiacimenti da mattatoio o da bidone da spazzatura, e lancia un’antologia di racconti nei quali l’ostentazione della crudeltà è pari all’insignificanza stilistica […]. Si tratta di operazioni che giustificano più di una perplessità, ma delle quali si trova sempre qualcuno disposto a sottolineare lo “sperimentalismo” e l’“azione di rottura”. È proprio inesorabile il dio Mercato … »
Una dichiarazione tanto perentoria e polemica, resa ancor più vibrante dalla tecnica della reticenza (Einaudi e il suo Stile libero vengono sferzati con obliquo sarcasmo), rinvia alle strategie, allo «stile» del dibattito militante, in senso lato giornalistico; strizza l’occhio, sollecitandone il consenso appassionato, a chi già sa, chi ha sperimentato, chi in qualche modo è già coinvolto. Tutti atteggiamenti, dunque, che poco hanno a che fare con le strategie espositive e argomentative d’un manuale scolastico, il quale infatti tipicamente presuppone un destinatario disinformato, inesperto, estraneo ai giochi del dibattito letterario vivo.
Eppure, la lunga citazione è tratta proprio da un libro per la scuola, anzi dall’opera, dedicata al Novecento letterario italiano, che negli ultimi trent’anni circa è andata incontro al più lusinghiero successo didattico. Mi riferisco a Guida al Novecento, di Salvatore Guglielmina (l’editore è Principato), giunta nel 1998 alla quinta edizione, dopo aver visto la luce nel 1971 ed esser stata rinnovata, per l’ultima volta, nell’ormai lontano 1986.
Come forse molti sanno, questa antologia ha soddisfatto il prepotente «bisogno di Novecento» che ha attraversato la scuola italiana a partire per lo meno dagli anni settanta, ma che i molti ministri della Pubblica Istruzione e i parlamenti nel frattempo succedutisi si son guardati bene dal legittimare, pur in presenza di prassi difuse e ben consolidate, di annose sperimentazioni e di collaudati progetti alternativi (si pensi solo al «Brocca»), che hanno nei fatti rivoluzionato il programma di letteratura italiana nell’ultimo anno delle scuole medie superiori. Né le cose sono oggi davvero cambiate, al di là dei proclami di facciata e delle belle intenzioni. E infatti, contrariamente a quanto afferma Guglielmina, non esiste alcuna «riforma Berlinguer» in vigore, riguardante l’insegnamento della letteratura italiana alle superiori. Al massimo, agiscono attualmente con maggiore efficacia molte delle forme di rinnovamento parziale appena ricordate, le cui origini sono appunto radicate in periodi per lo più precedenti l’insediamento del governo Prodi, e che certo – senza alcun dubbio – hanno ricevuto nuovo vigore e hanno acquisito una maggiore visibilità dopo che il ministro della Pubblica Istruzione ha dato chiari segnali di voler valorizzare la didattica del Novecento, anche letterario.
Ma perché «il Guglielmina» è stato premiato da un successo tanto notevole? In virtù di quali intrinseci pregi l’opera della Principato ha oscurato i non pochi contributi sul nostro secolo che, volta a volta, hanno tentato di contrastarla? Il mero fatto di esser stato il primo volume a praticare una strategia di autori/orma della scuola in ambito letterario non mi pare una ragione sufficiente. (E comunque, a chi voglia farsi un’idea del protagonismo democratico e «autonomo» degli insegnanti italiani negli ultimi trent’anni, consiglio la lettura del provocatorio sin dal titolo, e degno peraltro di lunga discussione, Buone notizie dalla scuola, a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino e Guido Armellini, Pratiche, 1998.) L’unica risposta a mio avviso convincente ci è suggerita, in modo davvero paradossale, proprio dai limiti appena rilevati dalla nuovissima Guida al Novecento, dalle sue caratteristiche didatticamente meno ortodosse e prevedibili: insomma, dalla sua capacità, straordinaria e forse ineguagliata, di coinvolgere il lettore in modo attivo, di appassionarlo accompagnandolo entro una trama espositiva che non è solo scolastica ma sa riprodurre le modalità discorsive della critica letteraria. Diversamente da altre opere di natura analoga, in Guida al Novecento prevale un tono argomentativo, se non addirittura appunto militante, e sono quasi del tutto trascurati molti di quegli atteggiamenti piattamente descrittivi, irenici e asettici che per lo più dominano nella manualistica letteraria o meno.
A molti esperti del Novecento la cosa potrà spiacere, ma è chiaro che le sorti letterarie del nostro secolo interessano anche e soprattutto perché agitano problemi d’attualità, vivi, in tutti i sensi «giornalistici», costringono a schierarsi e a prendere posizione intorno a qualcosa che percepiamo come irrinunciabile e su cui siamo disposti a dividerci, magari a polemizzare. Per questa ragione appunto, un paio di generazioni di insegnanti «democratici», affacciatisi alla loro professione dopo il 1968, hanno visto nel Guglielmina un utile alleato: prima e oltre l’ideologia didattica, lì si percepisce il brulichio delle questioni di cui è comunque necessario parlare, dei libri che val la pena leggere, dei temi su cui ci si scontrerà, di tutto quello insomma che con la letteratura, comunque, val la pena /are. E quali siano le posizioni ideali di Guglielmina, un po’ l’abbiamo intuito: sarà poi sufficiente leggere la frase di Scia­scia posta in esergo al libro – «Nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini se la letteratura non glielo apprende» – per comprendere che in Guida al Novecento alla letteratura è attribuito un valore e una funzione ancora molto tradizionali.
Ora, il laicissimo pathos umanistico di Guglielmina sembra tuttavia dialogare assai poco con analoghe forme di coinvolgimento appassionato intorno alla letteratura italiana del Novecento. Le polemiche e i dibattiti sull’argomento che si sono intrecciati negli ultimi tempi, in bilico per lo più tra la grezza ideologia e la cronaca di specie più effimera, non hanno ancora propiziato seri impegni di sintesi. Sconcerta per esempio rilevare che l’unico importante bilancio novecentesco, estraneo agli ambiti scolastici o universitari, sia stato un (peraltro degnissimo e prezioso) repertorio di consultazione: vale a dire il Dizionario critico della letteratura italiana del Novecento, curato da Enrico Ghidetti e Giorgio Luti (Editori Riuniti, 1997), che proprio per la sua natura mira a restituire un’immagine non schierata, il più possibile neutra del nostro secolo, e rende conto soprattutto degli aspetti istituzionali, storiograficamente consolidati. Certo, sul versante diametralmente opposto, abbiamo avuto anche il Novecento suggestivo e intenzionalmente «di parte» proposto da Cesare Segre (La letteratura italiana del Novecento, Laterza, 1998), che tuttavia riprende la voce pubblicata nel 1996 nella laterziana Cultura italiana del Novecento, curata da Corrado Stajano. E sconcerta altresì scoprire che ricapitolazioni di ampio respiro riguardano per il resto soltanto la poesia: penso in particolare alla nuova edizione del Canto strozzato, antologia critica e poetica curata da Giuseppe Langella e Enrico Elli (Interlinea, 1997), nonché al «Meridiano» realizzato nel 1996 da Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi, Poeti italiani del secondo Novecento: che è sì parziale, quanto agli anni coperti, ma assolve una notevole responsabilità periodizzante, e insieme tratteggia un impegnativo canone «di fine millennio». Il fenomeno è tanto più notevole in quanto il mercato della poesia è di per sé favorevole alla realizzazione di antologie e di altri strumenti di sintesi; e quindi non è proprio il caso di ipotizzare l’esistenza d’un impegno storiografico differenziale a carico dei critici del discorso in versi.
Appunto: sono state le specifiche esigenze della scuola, le tensioni in molti sensi riformatrici che la attraversano, ad aver favorito interessanti aperture al Novecento. La più notevole delle quali è costituita dai tre tomi dedicati al nostro secolo da La scrittura e l’interpretazione (editore Palumbo), di Romano Luperini, Pietro Cataldi e Lidia Marchiani, a compimento della loro storia­antologia della letteratura italiana (i tomi novecenteschi cui mi riferisco sono il secondo del vol. 5, Dal Naturalismo alle avanguardie (1 861-1925), e i due del vol. 6, Dall’Ermetismo al Postmoderno (dal 1925 ai giorni nostri), venuti alla luce tra il 1997 e il 1998).
Diverse sono le ragioni di metodo, di impostazione, per cui quest’opera – peraltro accolta dai docenti con grande disponibilità, tanto da esser diventata il best seller di settore del 1998 – merita di essere apprezzata; e sarebbe troppo lungo approfondirle tutte: dalle annotazioni puntualissime e mai elusive alla ricerca d’un solido rapporto tra storia e letteratura, dalla chiarezza e levigatezza d’una scrittura studiata per esser davvero capita dallo studente medio di fine millennio alle non scontate aperture verso le letterature straniere, e così via. Ma una ragione, per lo meno, deve essere messa in primo piano e discussa, perché è forse in grado di giustificare l’insieme di tutte le altre. Insomma, e molto concretamente: La scrittura e l’interpretazione è una di quelle opere che incarnano, traducono in libro, un vero e proprio progetto didattico, che traspongono in prassi di lavoro idee «forti» sull’insegnamento della letteratura nonché sulla scuola. E la sua riconoscibilità, il suo piglio non cerimoniale o unanimistico sono suscettibili di essere accolti, apprezzati e usati didatticamente anche da quei docenti che – magari – non li condividono appieno, e tuttavia li reputano un buon punto di partenza per il proprio lavoro. Non a caso, per approfondire la propria visione «dialogica» dell’insegnamento e della scuola, Luperini negli ultimi anni ha promosso una serie di ricerche sulla didattica dell’italiano, ospitate dalla rivista «Allegoria», e ha da poco raccolto in volume i saggi in cui ha illustrato i valori ideologici e metodologici che hanno informato il suo lavoro (Il professore come intellettuale, Lupetti / Piero Manni, 1998).
D’altronde, pure alcune scelte di contenuto, specificamente novecentesche, distinguono La scrittura e l’interpretazione da tutte le altre antologie. Intanto, una periodizzazione poco usuale nel dominio scolastico, quella che valorizza soprattutto la storia economica, e lascia in secondo piano i discrimini delle guerre mondiali; di modo che, poniamo, la grande crisi degli anni venti e la svolta del 1956 sono le principali boe novecentesche. E poi, e direi soprattutto, la forte sottolineatura della questione postmoderna: che, certo, entra in gioco solo alla fine dell’antologia (andando incontro a una discussione sfaccettata e dialettica, anche se fermissima nei propri principi), ma che in qualche modo innerva tutta la trattazione, in quanto costante bisogno di riaffermare la centralità d’una prospettiva storica, di rispondere al nichilismo postmodernista con un laicissimo, paziente «conflitto delle interpretazioni», attraverso il quale il significato d’un’opera è assiduamente problematizzato, relativizzato, ma non per questo dissolto.
E tuttavia, come ogni progetto davvero pensato e voluto (e non nato sotto il segno delle mediazioni a tavolino a opera della «progettistica» editoriale, spesso capace solo di produrre mostriciattoli senza capo né coda, e per di più destinati a cocentissimi insuccessi), anche La scrittura e l’interpretazione presenta contenuti non del tutto condivisibili. Colpisce in particolare il silenzio un po’ sprezzante su ogni aspetto – che non sia solo negativo o esteriore – della letteratura popolare e di consumo, e insieme dell’universo massmediologico. Di modo che, quando alla fine della storia della letteratura italiana entra in scena la giovanissima generazione degli autori pulp, dei cannibali, appare quasi come la manifestazione d’una forza oscura, irrazionale, affatto inspiegabile, prodotto d’una sorta di barbarie post-modern e d’un vuoto di cultura (segnatamente letteraria) da respingere frontalmente. Laddove, forse, quei fenomeni «giovanilistici» dovevano essere interpretati come la punta dell’iceberg pluristratificato che chiamiamo cultura di massa, e il cui corpo principale credo che ogni antologia anche per la scuola non possa esimersi dallo studiare, dall’illustrare nel modo più puntuale possibile, alla stregua di qualsivoglia altro nodo storico-artistico problematico.
Insomma, La scrittura e l’interpretazione e Guida al Novecento sono strumenti didattici che tanto meglio insegnano quanto meno rispettano i cerimoniali anodini del didattichese. La loro parzialità garantisce della loro efficacia. E, anche attraverso queste opere, attraverso il contributo di due «semplici» libri di testo, può essere evocata, per lo meno di scorcio, in prospettiva, l’esistenza d’una comunità di lettori-interpreti capaci di prendere spunto dai contenuti manualistici per poterli valorizzare e insieme sorpassare, e quindi avviarsi verso esperienze di lettura e di conoscenza auspicabilmente sempre più soggettive, indipendenti e consapevoli.