Barlumi di racconto

Le conversazioni meditative, gli epigrammi, i microracconti, le storie intime e le riflessioni sul presente e sui rapporti sociali di Raboni, Cucchi, Alleva e Lamarque: quattro raccolte di qualità, all’insegna della conferma più che della sorpresa, improntate a una discorsività ibrida e intermittente in cui da una parte prevale il mondo dell’amore e dell’affetto (Alleva e Lamarque) e dall’altra il tentativo di conciliare pubblico e privato (Raboni e Cucchi). Due autori e due autrici, due opere nuove e due sillogi ricapitolative accomunate dall’adozione di forme aperte, in cui la narrazione e il ragionamento sono condensati e rappresi, percorsi da vuoti e silenzi.
 
I poeti che in questi anni praticano le vie della comunicatività, che si affidano ai modi dello sviluppo narrativo e/o ragionativo, lo fanno di preferenza, come inclinazione dominante, non esclusiva, in forme aperte, perplesse, discontinue nelle quali la narrazione e il ragionamento sono condensati e rappresi, percorsi da vuoti e silenzi. La meditazione così diviene epigramma, il racconto flash, la continuità di architettura è di frequente soltanto allusa o schizzata. Per questi territori di discorsività distesa o ibrida è stata una stagione positiva, di libri convincenti, di qualità, seppure, per la notorietà degli autori e le soluzioni costruttive ed espressive adottate, all’insegna della conferma, non della sorpresa. Segnalo quattro libri – barlumi di storia di Giovanni Raboni, Per un secondo o un secolo di Maurizio Cucchi, Istinto e spettri di Annelisa Alleva e Poesie 1972-2002 di Vivian Lamarque. O meglio una coppia di dittici, affini per dati esterni – due autori e due autrici, due opere nuove e due sillogi ricapitolative -, ma non solo: sul piano dei temi, in Alleva e Lamarque è quasi esclusivo il dominio del privato, dell’amore e degli affetti, mentre in Cucchi e Raboni è marcato il tentativo di tenere legati pubblico e personale, di seguirne intersezioni e divorzi.
Ad attrarre il lettore e a dare unità a Barlumi di storia è innanzi tutto la voce poetante. Quella di Raboni è una conversazione meditativa, dove racconto, ricordo e riflessione si avvicendano, dove il soliloquio si mescola e alterna al dialogo, una spinta introspettiva a un bisogno di contatto e confronto con altri. Le movenze colloquiali e patetiche (esclamazioni, sospensioni, incisi, correzioni) sono sempre però sobriamente controllate, a escursione frenata, garanti di una partecipazione senza retorica. L’abbandono del sonetto segnala subito, rispetto alle raccolte precedenti, un incremento d’informalità. L’articolazione in cinque sezioni soltanto numerate, il succedersi di componimenti di varia lunghezza senza scansioni strofiche in cui si alternano versi di differenti misure (con massiccia presenza di endecasillabi, spesso anche sdruccioli, settenari, novenari), lo scarso impiego della rima, l’inserzione di due brevi «racconti», danno al testo l’aspetto di un flusso elastico e pausato di pensiero e storie, pronunciato a bassa voce, di una riflessione non perentoria. Tornano i temi abituali. I legami familiari in primo luogo: proprio i genitori nel componimento d’apertura lamentano la «fissazione» nel metterli in pagina, spia del bisogno di rassicurazione dell’io che scrive, ma anche di qualche compiacimento letterario. E le relazioni affettive, amicali, la morte, la sofferenza dell’esistere e l’attaccamento alla vita, la tensione civile. Alla denuncia di un presente depauperato, percorso da orde che vanno «blaterando in microfoni invisibili», dove si rischia di morire «all’ombra di un potere ripugnante», si affianca una pietas sociale, misurata, senza effusioni: un’attenzione per sconosciuti compagni di viaggio in treno o in tram, studiati o intravisti, che si sfiorano «con brevi occhiate da cui sbucano / malinconia e stanchezza / e un’ombra, solo un’ombra di pietà / simili a quelle che si scambiano / chi entra al Pini o in via Pace e chi ne esce / per pratiche attinenti / alla propria o all’altrui sopravvivenza». Nell’ultima sezione, la più narrativa, Raboni mette a confronto Storia grande e storia personale. Nei due ricordi-racconti (dedicati l’uno all’abbandono di Milano da parte della famiglia Raboni dopo il primo bombardamento nel 1942, l’altro alla sera dell’uccisione di Kennedy vissuta durante una riunione della rivista «Questo e altro») descrive l’eco, il contraccolpo, che la prima può esercitare sulla seconda in forme anche poco prevedibili, trasfigurate dal vissuto soggettivo («Come si fa a distinguere l’inizio del finimondo dall’inizio della grande vacanza, l’angoscia dello sradicamento dall’euforia di un’inaspettata, totale libertà?»). Sono pagine sul funzionamento della memoria, sui modi del dar senso alle cose pubbliche, di legarle a noi. Percorre il libro un sentimento pessimistico, l’idea di un disfacimento incombente, in atto, che in parte pare legge dell’esistenza, in parte riflesso della stagione conclusiva della vita da cui parla chi scrive. Un libro «in bianco e nero», come si legge nell’ultima poesia, perché – lo diceva un personaggio di Wenders – la vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico.
Per un secondo o un secolo segue una strategia all’insegna della dissonanza. Le otto piccole sezioni raccolgono testi brevi e brevissimi, più distesi, monoblocco o scanditi in più strofe, fra i quali trovano posto anche due passi prosastici, ed esibiscono una titolazione rilevata: ironica (I meravigliosi viaggi del protagonista, inaugurati da una visita a Villapizzone) o risentita (.Un’opulenza spettacolare e oscena), nella quale sono in primo piano il personaggio-io o il mondo in cui agisce. Si tratta, come d’abitudine in Cucchi, di un io fortemente articolato, aperto, dall’identità problematica, indebolita («Mi infilo nel portafogli del mio letto / come una carta d’identità scaduta»), cangiante. Proiettata da uno specchio deformante prende così posto sulla pagina una famiglia discorde di controfigure letterarie, immagini autobiografiche, individualità reificate («La mia mistica è l’oggetto, l’acquisto, / il mio specchio di Narciso è la vetrina, / il mio cuore un immenso magazzino»). La struttura complessiva dell’opera è appena tracciata, il filo che collega i frammenti lirici, narrativi, descrittivi, saggistici è quello di un’esplorazione per sondaggi del mondo esterno e interno. Ecco allora ai ritratti di città e ai panorami antisublimi aggiungersi le immagini, le considerazioni sulle merci, sul corpo, sulla materia, che suonano come un richiamo alle coordinate concrete – economiche e biologiche – sulle quali si modellano le nostre esistenze. Sono denuncia dell’appiattimento morale indotto dall’idolatria del mercato, ma anche antidoto contro illusioni spiritualizzanti e intellettualismi, invito a mantenere vivido il rapporto con l’esperienza sensibile, indice del residuo opaco che resiste agli sforzi conoscitivi. La scrittura è nitida e nervosa, antipatetica, alle accensioni liriche si accompagnano gli abbassamenti «comici», le mosse ironiche; su un tono di lingua media, comunicativa, si innesta un ricorso a tratti cospicuo ai sottocodici (economia, tecnica, soprattutto medicina).
Istinto e spettri è la prima opera corposa di Annelisa Alleva, quasi una raccolta di raccolte, le cui sette sezioni comprendono versi composti dal 1991 al 2002. Cinque sequenze sono piccoli diari di storie d’amore e d’affetto familiare, due appunti di viaggio (non persuadono le Poesie irlandesi). In vita e Dopo, la prima e l’ultima, ritraggono una relazione sentimentale difficile, sono il dialogo con un tu intensamente evocato ma sfuggente. Istinto e spettri e Io ti pettino restituiscono una doppia esperienza di maternità. Alleva racconta l’intensità dei sentimenti, i grovigli delle emozioni, con voce limpida e stile leggero: nei suoi versi si congiungono una propensione comunicativa e un gusto fine e controllato per la figuralità, di volta in volta diversamente dosati. Un lessico medio che usa anche termini colti ma senza ricercatezze, una predilezione spiccata per costrutti paratattici, brevi, a volte nominali, con rispetto marcato o sfasatura insistita fra sintassi e verso, una felice vena metaforica sono le caratteristiche principali della sua penna. In vari componimenti di Istinto e spettri, storia dell’arrivo del primo figlio, la scrittura è più densa e sincopata, come se la forza di un vissuto che coinvolge gli strati più profondi dell’io, fatichi a essere chiusa in un assetto discorsivo disteso, spinga verso il caleidoscopio di impressioni e sensazioni.
Autunno 2002: l’utilissima collana economica «Oscar di poesia del Novecento» propone Poesie 1972-2002 di Vivian Lamarque. Un altro passo nell’istituzionalità di una «poetina media / normale / da due righe e mezzo / sulla garzantina universale», che si è progressivamente imposta certo per alcuni importanti consensi critici (a partire da Sereni e Raboni), ma di più per una inusuale capacità di dialogo diretto con il pubblico. E subito i lettori hanno premiato il libro, che ha esaurito in pochi mesi la prima edizione (7 000 copie), seguita da una seconda di 5 000. Hanno premiato una scrittura nella quale «si capisce tutto», la personale cifra stilistica in minore che la Lamarque ha elaborato, rimodulandola con intelligenza, in questi trent’anni, lavorando su coppie complementari. Semplicità del lessico, della sintassi e delle strutture, con amore per il corto, il breve, ma filo conduttore autobiografico e abile ricorso alla serialità, all’andamento modulare (come nelle poesie per l’analista junghiano «Dottor B.M.»), oppure al poemetto realizzato come collana di frammenti (Questa quieta polvere); alternanza e interferenze di realismo e fantasia; abbandono al sentimento, ma per poco, nel piccolo, e sempre bilanciato con contrappesi ironici, riflessi cupi, maneggiato con un pennino «d’acciaio affilato». Sono le scelte principali che le hanno consentito di narrare senza pompe e senza monotonia una vita in versi, che si avverte reinventata con fedeltà. Il suo canzoniere è un diario-zibaldone costruito con tessere di natura diversa: riflessioni, emozioni, confessioni, fantasie, spesso in forma di microracconti visionari o verosimili, in cui il lettore trova un posto dove stare confortevole e sottilmente inquietante.