Canzoni all’incontrario

Sulla scena musicale italiana di quest’anno a un certo punto tutto è sembrato andare verso direzioni assolutamente impreviste: contro lo strapotere delle multinazionali del disco e della musica straniera, il successo del vecchio folk «impegnato» di Il fischio del vapore con le suggestive voci di Giovanna Marini e Francesco De Gregori, e del rock «alternativo», «svitato» e «demenziale» dell’ultimo album, Cicciput, di Elio e le Storie Tese. Non certo una svolta epocale: ma comunque il segnale dell’interesse giovanile verso testi e musiche fuori dalle solite rotte.
 
«La scena del musicale / si è impoverita e all’incontrario va», cantano Elio e le Storie Tese nel loro ultimo disco (Cicciput, di cui parlerò più avanti). Il drastico giudizio della sbarazzina band milanese sembra trovare conferma in una delle sorprese più interessanti della scorsa stagione, Il fischio del vapore, che vede per la prima volta insieme Giovanna Marini e Francesco De Gregori.
Sulla «scena del musicale», a un certo punto, tutto si è messo a girare davvero «all’incontrario»: invece delle ultimissime tendenze, il mercato premiava il vecchio folk «impegnato». Mentre le multinazionali del disco spendevano euro su euro per imporre le loro novità, una raccolta di stagionatissime canzoni popolari, prodotta in economia, volava senza fatica in vetta alle classifiche. E attenzione, quando dico canzoni popolari non sto parlando di vispo folk irlandese: sto parlando dell’Attentato a Togliatti o del Feroce monarchico Bava, roba che a molti – diciamolo – risultava indigesta anche in pieno Sessantotto. Certo, a «tirare» sul mercato Il fischio del vapore c’era il nome di uno dei più celebrati cantautori italiani; ma un nome famoso da solo serve a poco, se l’operazione non ha sostanza. Come interpretare, allora, il successo di questo disco? La tentazione è quella di pensare a una svolta storica nel gusto del pubblico, riconducendola magari a sotterranei sommovimenti ideologici. I giovani hanno riscoperto «l’altra Italia», le culture subalterne e antagoniste, l’impegno politico? Non ci scommetterei.
Ascoltando il disco, leggendo i testi e le note di copertina, cercavo di mettermi nei panni di un diciassettenne di oggi. Chi sono le «mondine», e che lavoro facevano? Che cos’è la «settimana rossa»? Com’erano fatte le copertine della «Domenica del Corriere»? Che cosa vuol dire «sabauda marmaglia»?
Chissà, forse per apprezzare queste canzoni non c’è bisogno di avere otto in storia o di essere dei militanti di Rifondazione: basta lasciarsi avvolgere dai suoni, dalle voci. Anche su questo piano, comunque, gli ostacoli mi sembrano notevolissimi. Certo, rispetto all’austerità filologica del Nuovo Canzoniere Italiano le energiche ventate di batteria, chitarra elettrica e basso che aprono Il fischio del vapore sono una trasgressione «modernista»; si tratta comunque di una modernità datata anni settanta, che non cancella l’«alterità» (si sarebbe detto una volta) di queste melodie, la loro profonda estraneità all’estetica musicale corrente, world music compresa. E cosa dire dei testi? Contenuti a parte, che effetto possono fare oggi le solenni sgrammaticature del Tragico naufragio della nave Sirio? Per non parlare delle voci, o meglio della voce di Giovanna Marini, che imprime il proprio marchio a tutto il disco. Questo modo di cantare era una sfida persino negli anni in cui il pubblico si era assuefatto agli esperimenti più arditi; mi chiedo come possa gustare gli svoli da prefica del Lamento per la morte di Pasolini chi li ascolta per la prima volta nell’era di Paola e Chiara. Perché hai voglia aggiungere bassi e batterie: anche squadrato a colpi di cassa e rullante, il ritmo di I treni per Reggio Calabria (un pezzo che ancora oggi mette i brividi) resta scomodo, spigoloso, perturbante. Eppure, Il fischio del vapore è diventato un hit. Non possiamo che rallegrarcene. Forse il suo successo non avrà tutto il seguito che molti si augurano, ma almeno l’«altra Italia» si è affacciata – sia pure per un attimo – alla scena del musicale.
A qualche mese dal successo della coppia De Gregori-Marini, nel giugno del 2003, usciva Cicciput, di Elio e le Storie Tese. Dischi e artisti molto distanti, per mille aspetti, e difficilmente comparabili; eppure, a ben vedere, entrambi espressione – ciascuno a suo modo – di quella che un tempo si chiamava «cultura alternativa». Il folk della Marini ne è il volto maturo, assennato e intransigente; il rock di Elio la smorfia ebefrenica, svitata, eternamente minorenne.
Quali siano i presupposti del lavoro di Giovanna Marini e compagni, è noto; ma quale tradizione ha alle spalle un disco come Cicciput? Da dove sono piovuti sulla «scena del musicale», nei tardi anni settanta, gli sberleffi delle «Storie Tese»? Tra le prime fonti della band milanese si è soliti indicare il rock raffinato e grottesco di Frank Zappa. In effetti, la formula di Elio è molto vicina a quella delle Mothers of Invention: anche in lui, il virtuosismo esecutivo e le audacie compositive sono al servizio della parodia, della satira o – assai più spesso – del puro ghiribizzo e dell’assurdo; come per Zappa, si può parlare qui di «musica al quadrato», di meta-musica, nata da un’accorta manipolazione dei generi e degli stili più disparati. Elio, Rocco Tanica, Cesareo e gli altri amano fare sfoggio di goliardica cialtronaggine, ma non ci vuole molto per capire che si tratta di professionisti coi fiocchi, ottimi strumentisti, maestri soprattutto nel governo di quel complesso ordigno musicale che è lo studio di registrazione. Che anche sotto questo aspetto il modello sia Zappa, non c’è dubbio; d’altra parte, Elio e compagni sono ben di più e ben di meglio del solito clone italico di fenomeni angloamericani. Se si guarda ai testi (importanti nel genere almeno quanto le musiche) ci si rende conto che le radici profonde della loro comicità affondano nella più genuina tradizione italiana. Il vero padre del nostro «rock demenziale» non è Zappa: è Petrolini. «Ballo una canzone che fa: amor mio / Canto una canzone che fa: ballo anch’io / So che è un po’ difficile ma / ballo ancora. / La pena di morte per me / non è giusta / La pena di morte per me / è ingiusta / Nonostante questo però / vige»: versi come questi potrebbe benissimo averli composti l’autore dei Salamini.
Tra le star del rock «demenziale», Elio e le Storie Tese sono forse i più vicini alla sorgente petroliniana, alle fonti del bizzarro assoluto, del puro assurdo. Dietro la «demenzialità» degli Skiantos – altra eminente band mentecatta – si avvertiva spesso l’episcopato dell’ideologia: il nonsenso alla bolognese era in sostanza il rovescio dialettico della ragione, esibito con zelo e compiacimento; la follia di Elio, invece, non nasce in polemica con le ristrettezze del raziocinio, non è il ribaltamento comico che si vendica dell’ordine e del potere: è il delirio ormonale del sedicenne che ghigna di tutto e di tutti. Nata sui banchi di scuola, la band milanese rimane essenzialmente una confraternita di compagni di classe, di «casinisti» sempre pronti al pernacchio e al gavettone. Anche in Cicciput, come in tutta l’opera del gruppo, sull’ideologia trionfa la scatologia: se c’è «un tamarro dietro un angolo» che vuole «incularmi la catenina», a castigarlo arriverà «Shpalman», il supereroe che «shpalma la merda in faccia». Scatocentrico è anche l’hardcore di Cani e padroni di cani. La follia delle donne, che dà il titolo a un altro pezzo, consiste nelle «scarpe / di merda / da donna / che costano milioni / all’uomo».
Una tanto spiccata propensione alle lordure e alla coprolalìa potrebbe far pensare a influssi punk. Ma Elio e compagni non lanciano proclami apocalittici, non sono un branco di teppisti anarcoidi usciti da un suburbio londinese. Il retroterra che emerge nelle canzoni è più o meno lo stesso di tanti bravi giovani (ormai ex giovani) cresciuti negli anni settanta a Milano, tra un’autogestione e un derby, tra i gonnelloni delle femministe e i minestroni della mamma. Che inclinino (genericamente) a sinistra, sono molti segni a dircelo; e tuttavia, il loro umorismo sfugge da ogni parte agli schemi della satira politica «d’opposizione», e spesso persino a quelli del «politically correct»: «C’è un cartello di ricchioni / che ha deciso che / l’anno scorso andava il rosso / e quest’anno il blé». Viste sulla carta, certe sparate di Elio – soprattutto in questo ultimo disco – possono sembrare pericolosamente affini a quelle di un qualsiasi avventore del Bar Sport; ma alle nostre orecchie, la differenza suona ancora forte e chiara. Miracoli della musica. Se poi qualcuno preferisce Jovanotti, si accomodi.