Storie di giornalisti

Ben poca è l’attenzione critica dedicata di solito alla scrittura giornalistica. E per questo ancora più meritevoli di segnalazioni risultano Quando si ha ragione. Cronache italiane e L’innocenza del male. Il volto dello sterminio. Il primo è un antologia, allestita con intelligenza da Goffredo Fofi, degli articoli di Camilla Cederna, pagine eleganti, veloci, «sostanziose» e cariche di criticismo eticocivile. Il secondo, di Guido Kampoldi, è un riuscito mix tra cronaca e saggio dedicato a personaggi tristemente celebri e a sconosciuti carnefici, in cui al di là della drammaticità dei fatti narrati non viene mai proposta una visione unilateralmente pessimistica del mondo contemporaneo.
 
In una tradizione critica selettiva e schizzinosa come la nostra, non stupisce la grave carenza di studi sui grandi giornalisti del secolo passato e sulle loro opere, una lacuna messa in evidenza dal gran numero di storie del giornalismo oggi disponibili. Tutte storie istituzionali e di testate, non di reporter e di reportage. Come sempre, lo spazio culturale lasciato libero dagli studiosi è occupato da altri: a coltivare la memoria dei colleghi e a celebrarne l’eccellenza professionale sono soprattutto i «vecchi», in qualità di autorevoli testimoni – fra i più titolati e assidui all’impresa, Gaetano Afeltra sul «Corriere della Sera». I generi di interventi prediletti sono due, la rievocazione nostalgicamente commossa e la recensione positiva, ma in entrambi i casi questi articoli finiscono con il disegnare un piatto panorama di eccellenze, dove occorrerebbe invece distinguere non solo fra autori ma anche fra singoli libri del medesimo giornalista.
Si presta bene ad avviare una ragionata valutazione critica dell’opera di una delle maggiori firme del giornalismo italiano l’antologia degli scritti di Camilla Cederna Quando si ha ragione. Cronache italiane curata da Goffredo Fofi. Si tratta infatti di una raccolta emblematica dell’intera produzione della Cederna: i volumi da cui Fofi sceglie sono ben dodici, usciti lungo l’arco di venticinque anni, dal 1962 al 1987. Scelta rappresentativa, allestita con intelligenza: alternando i diversi generi giornalistici che la Cederna mescola con abilità (l’articolo di costume, la cronaca rosa, l’inchiesta, lo scritto di memoria, il ritratto-intervista, il reportage, la pagina militante, l’articolo-racconto), l’indice garantisce al libro un andamento molto vivace, ma la sua calcolata progressione tematica per sezioni disegna anche un’ipotesi forte: dopo l’autoritratto d’apertura ecco i capitoli intitolati Bel paese, la parte Palazzo e la sezione conclusiva Bombe, a suggerire un’inquietante linearità.
L’arma vincente della Cederna è senz’altro la scrittura: elegante e veloce, tanto «sostanziosa» quanto antiretorica. A darle spessore è anzitutto una grande professionalità: ogni pezzo presuppone un lungo e accurato lavoro di preparazione e di studio fatto di incontri e interviste preliminari, di letture tecniche e letterarie, di caparbie verifiche sul campo (magistrale la lapidaria «controinchiesta» sulla Seveso deturpata dalla diossina). Il suo acutissimo spirito di osservazione unito a una particolare sensibilità sociologica seleziona dettagli eloquenti di singoli individui e comportamenti pubblici destinati a diventare caratteristici (ecco il frutto dell’originario interesse per la moda come specchio della persona e di tendenze collettive). I vari materiali preparatori di ogni pezzo si fanno articolo sulla spinta di quella che Fofi chiama «crudeltà», manifesta in tanti memorabili ritratti: la faccia che «somiglia a un bignè» del ministro del Bilancio Pella, Giovanni Leone con la patta dei pantaloni spalancata su «una quantità di mutandoni, canottiere, panciere».
Crudeltà impietosa, ma non cattiveria. Il punto è che pur essendo molto connotate soggettivamente, le pagine della Cederna non hanno nulla di personale: le pochissime volte che allude a se stessa la giornalista richiama in realtà un comune sentire, un sistema di valori condiviso dalla migliore società civile. «Questi funerali sono stati tra gli spettacoli più sconvolgenti della mia vita», scrive dopo piazza Fontana, parlando a nome nostro. E una carica di criticismo etico-civile implicita che emerge in un aggettivo, nel taglio di un’osservazione, nell’intonazione sempre ferma di una prosa che giudica senza mai darlo a vedere. Il peso delle sue parole, la sostanza mai esibita ma ben percepibile dei suoi discorsi, risiede soprattutto qui.
Se i giornalisti novecenteschi e le loro opere vengono poco studiati, ancora meno lo sono i grandi generi della carta stampata, a partire dal reportage di guerra. Come la letteratura di viaggio, il reportage di guerra affianca una componente cronachistica e testimoniale, d’azione, a ingredienti di commento. Il dosaggio può variare: L’innocenza del male. Il volto dello sterminio di Guido Rampoldi è un mix riuscito fra cronaca e saggio, dove le idee e le proposte interpretative prevalgono rispetto al racconto dell’esperienza, efficacemente funzionale al ragionamento. Intervistati, raccontati, descritti in presa diretta, nel libro sfilano personaggi tristemente celebri – Poi Pot, Suharto, Pinochet, Bin Laden – e sconosciuti carnefici: l’afgano strangolatore di novecento prigionieri inermi, il khmer che uccideva i bambini con una scheggia di bambù, la bambina cambogiana responsabile di un lager. Sulle tracce di testimoni e protagonisti di guerre di sterminio si viaggia in Europa, Oriente, Estremo Oriente, e sempre l’autore si muove a suo agio grazie a una militanza e a una professionalità d’eccezione. La dura concretezza dell’esperienza vissuta si riflette in una prosa diretta e chiara, asciutta e agevole anche quando utilizza concetti e categorie astratte per smontare la «macchina dello sterminio», che si basa su una tecnica politica e militare molto sofisticata e complessa, sempre pianificata con largo anticipo sullo scatenarsi terribile degli eventi.
Per cercare di spiegare l’orrore di cui è stato testimone, Rampoldi individua alcune dinamiche ricorrenti (la deriva di deresponsabilizzazione collettiva di chi ha vissuto uno sterminio riassunta nell’efficace formula convivenza-convenienza-connivenza, il processo di ribaltamento etico che consiste nella colpevolizzazione preventiva delle vittime, la reiterazione del crimine di sterminio da parte delle generazioni successive a quelle che l’hanno subito), riprende concetti molto interessanti (guerra etica e guerriero umanitario, pensiero magico di massa), ricorre alla psicologia collettiva, come quando individua nell’ebbrezza della viltà il probabile stato emotivo delle folle sterminatrici. Finito i libro, non solo le tremende storie raccontate assumono un senso, ma alcuni luoghi comuni sono spazzati via (lungi dall’opporsi radicalmente, in molti casi la mentalità mediorientale e quella occidentale concordano), certi fatti storici (e valori capitali, come il pacifismo) assumono un diverso colore, visto che «le riconciliazioni successive a uno sterminio hanno per prezzo, sempre, l’assoluzione della massa sterminatrice, cioè il colpo di grazia alla verità storica e a quel minimo senso di giustizia che fonda una società».
Ma L’innocenza del male ha anche un altro merito. Nonostante l’argomento, Rampoldi non propone una visione pessimistica del mondo contemporaneo: alla valutazione del Novecento come secolo delle catastrofi affianca infatti una concezione della modernità critica sì, ma non negativa. Diritti umani, emancipazione femminile, laicità dello Stato, «l’umana aspirazione alla libertà dischiusa da un ciclo mondiale straordinariamente propizio» rimangono valori irrinunciabili.