Le chiacchiere e l’attesa

Eccetera di Emilio Tadini e Cuore di madre di Roberto Alajmo: due opere molto diverse, ambientate ai poli opposti della penisola, eppure accomunate da una analoga scelta compositiva, che apre squarci conturbanti di inquietudine entro una tela romanzesca apparentemente senza spessore. Nel primo un ingenuo e spavaldo protagonista narratore si affida a un’oralità effervescente e sconclusionata, tesa a mimare la frenesia di un tempo senza sbocco; nel secondo un racconto in presa diretta registra la fissità opprimente di un mondo immobile e asfissiante.
 
I1 recupero postmoderno delle strutture forti di genere ha vivacizzato e rinnovato energicamente la produzione della narrativa istituzionale, offuscando le barriere nette che la opponevano alla letteratura d’intrattenimento: valga per tutti Romanzo criminale di De Cataldo che, sin dal titolo, propone un’interpretazione ideologico-politica della storia italiana nell’ultimo scorcio di secolo. Il gusto ritrovato per la leggibilità distesa, d’altra parte, ha reso meno rigidi anche i confini con l’area della sperimentazione più sofisticata.
Esemplare, in questo quadro, il caso di un’opera postuma: Eccetera, di Emilio Tadini, uscito da Einaudi pochi mesi dopo la morte dell’autore. Il titolo esibisce, subito, con baldanza antiumanistica il nucleo genetico del romanzo, ovvero l’inclinazione fabulatoria di un narratore «abbastanza modesto da ammettere che ce la fai solo fino a un certo punto ma anche abbastanza sveglio da capire che il mondo è un bel po’ più grande di te» (p. 60). Mosso dall’empito irrefrenabile di raccontare – «l’ultima cosa a morire non è la speranza, sai, è la voglia di chiacchierare» (p. 10) – il protagonista Mario, un ragazzotto finto spavaldo, inanella senza alcuna pretesa di verità le avventure, o meglio gli sproloqui avventurosi che punteggiano un vagabondaggio notturno «per la nostra Padania del cazzo e dintorni». Due coppie mal accoppiate si ritrovano insieme per caso su un’auto rottamanda alla ricerca dello stordimento che solo la musica assordante e le luci da urlo delle discoteche riescono a dare: di loro non sappiamo nulla, solo i soprannomi felici che Mario si inventa, durante il cammino-racconto: per il guidatore, Toro Seduto; per le due ragazze, Donna del Mare, Filo di Voce.
Affidato alle modulazioni estrose di un eccitato monologo a ruota libera, in cui l’io narrante si rivolge con il tu a un lettore amico che talvolta si intromette con brevi battute, il resoconto narrativo allinea luoghi comuni, situazioni canoniche, motivi romanzeschi, notizie di cronaca, echi televisivi e fumettistici: tutto amalgamato con un gusto parodico che, pur incline all’intarsio citazionista, mira soprattutto a rappresentare l’insulsaggine caotica che governa la modernità quotidiana e nel contempo a schernire ogni ipotesi di fuga velleitaria o di regressione miticheggiante. L’elemento di forza di Eccetera sta nell’intonazione equivoca a cui il narratore rimane sempre fedele, mimando le cadenze di un’oralità artificiosamente spontanea, di una colloquialità ultrasofisticata, prossima al chiacchiericcio arbasiniano, ma priva di rovelli intellettualistici, anzi intrisa di mediocrità candida e sprovveduta. Dalle acrobazie e giravolte conversevoli, in cui l’ordine della sintassi si frange e frantuma senza mai perdere in leggibilità, emergono, illuminati di scorcio o schizzati con sottili sprezzature ironiche, gli orrori squallidi degli scenari urbani e suburbani: le case tristi della periferia, i campi intisichiti e deprimenti, le villette con i nanetti di un parente prossimo del calzolaio di Vigevano, la schiera degli sbarbati che tirano mattina alla ricerca d’incontri «piccanti» ma poco impegnativi, le silhouettes di fanciulle scialbe e appiccicose. A evitare il rischio di cadute nel moralismo predicatorio e melenso, Tadini adibisce le risorse inventive di una scrittura coinvolgente – «quella specie di musichetta» – nel cui ritmo sussultorio si mescolano i toni freddi dell’iperrealismo alla Hopper, le note crepuscolari dell’ansia abbandonica, le inarcature divertite delle descrizioni erotico-sessuali, il registro grottesco che avvolge, quasi maschera, una morte ridicola, le stupefazioni attonite, quando «persino la famosa natura riesci a sopportarla – per un momento non ti fa paura» (p. 174). Spetta all’amico lettore, chiamato non a «credere» ma solo a «dare retta per un po’» (p. 7), il compito di decifrare i confini fra buon senso e senso comune, follia e stupidità, stranezza e normalità (ma strani sono tutti e quindi l’eccentricità di massa è norma), di calibrare il dosaggio ambiguo di tragico e patetico, perché «se il Tragico abdica e il Patetico sale lui sul trono, non è la fine del mondo» (p. 306).
Cuore di madre di Roberto Alajmo è un libro molto distante dalle scorribande notturne rievocate da Tadini: opposto non solo per la fisionomia d’autore, ma per ambientazione geografica, prevalenza di ritmi lenti, staticità di immagini, persino per la secca essenzialità del paratesto a fronte della titolazione caleidoscopica dei capitoli di Eccetera. Allo sfondo della modernità artificiale della «Lombardia-Padania», il romanzo, accolto nella collana mondadoriana di «Scrittori italiani e stranieri», sostituisce il silenzio complice di un assolato borgo siciliano, avvolgente come la cura asfissiante di una genitrice oblativa. Eppure qualcosa li accomuna.
Il fulcro del romanzo di Alajmo è impregnato di pece nera: capovolgendo il motivo diffuso dei «bambini cattivi», qui il ragazzetto, preso in ostaggio e lasciato in custodia al protagonista Cosimo, è solo l’oggetto indifeso di una disputa accanita fra madre e figlio. Ma ciò che conta non è la denuncia, pur implacabile nell’urgenza di uno stile algido, senza sbavature, del matriarcato isolano; no, a colpire con energia insolita è il groviglio di legami sadomasochistici che avvolge il terzetto dei personaggi, rifrangendosi sulla relazione fra costoro e il narratore e, indirettamente ma non troppo, sui rapporti fra la coppia madre-figlio e l’io leggente. La tensione che inchioda alla pagina non scaturisce né dai materiali narrativi né tanto meno dalla dinamica dell’intreccio; quanto piuttosto dalla sospensione dilatata del tempo del racconto; o per meglio dire, dalla fissità opaca di un «indicativo presente» che registra, bloccandoli in climax, i non-gesti, le non-scelte del protagonista. In Cuore di madre non succede nulla: la consegna del bambino è già avvenuta, delle ragioni del riscatto e delle trattative del rilascio non ci è dato sapere; a scandire le giornate è unicamente l’ordine ridondante dei comportamenti insulsi di Cosimo; ma la scelta di narrare tutto al presente, evitando l’alternanza mobile di tempi di sfondo e di primo piano, imprime alla scrittura la violenza dell’orrore quotidiano e familiare. Alajmo non punta né alla drammatizzazione scenica, né a effetti di gusto teatrale o di montaggio cinematografico: solo puro e rigoroso racconto in presa diretta. In Cuore di madre, il lettore si trova accanto al figlio e alla madre e, in prossimità correa, senza scarti prospettici o affondi analitici, non può che accompagnarli verso la soluzione più banalmente scontata: uccidere e seppellire sotto il carrubo il bimbetto di cui continuiamo a ignorare ogni cosa. Tutto tornerà come prima, a quella «specie di vuoto pieno», dove uniche fatiche sono l’ascolto della radio e la lettura della «Settimana enigmistica». Anzi meglio: la riconquistata convivenza di madre e figlio sottrae definitivamente Cosimo a ogni spazio di inetta autonomia, a ogni inutile assunzione di responsabilità.
Ad accomunare due opere così diverse, quasi opposte, è un’analoga scelta compositiva che apre squarci di inquietudine conturbante entro una tela narrativa apparentemente senza spessore: Tadini in Eccetera modula il resoconto sul presente di un’oralità tanto più effervescente e colloquiale quanto più affidata alla linearità orizzontale della sintassi che, nella tumultuosa onda di paragrafi senza punteggiatura, mima la frenesia di un tempo senza sbocco; Alajmo incide con il nitore stilistico di un presente fisso e assoluto l’immobilità tragica di un universo che non conosce mutamenti, massime nella costituzione biopsichica dell’io.