Isabel e Dacia. Da Santiago a Bagheria

Il mutismo e la vocazione per la scrittura accomunano casualmente due figure femminili spregiudicate ed eccentriche, Clara del Valle e Marianna Ucrìa, che hanno determinato una tappa importante nella carriera letteraria di due scrittrici, Dacia Maraini e Isabel Allende, pur separate, fisicamente, da distanze oceaniche. Dal Cile alla Sicilia l’evocazione della terra d’origine delinea luoghi della memoria e spazi dell’immaginario, scenari suggestivi di saghe familiari al femminile, che integrano sapientemente autobiografia e invenzione romanzesca.
 
Clara, la protagonista di La casa degli spiriti, romanzo d’esordio di Isabel Allende, attraversa, nella prima parte del racconto, un lungo periodo di mutismo, durante il quale, tuttavia, registra scrupolosamente su quaderni appositi la storia della sua famiglia numerosa e stravagante. Tale abitudine la accompagnerà per tutto il romanzo, tanto da identificarla come la fonte privilegiata del narratore. Marianna, la protagonista del romanzo di Dacia Maraini La lunga vita di Marianna Ucrìa che ha inaugurato un decennio di grandi successi, è anche lei una «povera mutola», che comunica con gli altri solo attraverso la scrittura. In entrambi i personaggi, peraltro, il mutismo non è congenito ma conseguenza di un trauma infantile violento. La coincidenza sembra avvicinare casualmente due scrittrici separate da distanze oceaniche: ma colpisce perché in ambedue i personaggi la menomazione psicofisica è compensata da una istintiva vocazione per la scrittura, che diviene simbolicamente prerogativa femminile per eccellenza, una sorta di predisposizione spontanea, capace di coniugare scavo interiore, recupero memoriale ma anche gusto per l’affabulazione pura e sguardo lucido e penetrante sulla realtà. La scrittura assume così la funzione di efficace strumento di difesa contro l’atmosfera di tensione conflittuale che incombe sulla femminilità, cui non resta che una particolare opportunità di riscatto: la scelta di puntare sull’autorità della parola e, nella fattispecie, della narrazione. Ce n’è abbastanza perché si configurino i presupposti di un’autorevolezza tutta femminile, salda e carica di forte suggestione.
A ben guardare, il riscontro delle coincidenze tra la scrittrice cilena e la Maraini offre altri appigli nelle opere più recenti delle due autrici. In Ritratto in seppia Aurora, il personaggio narrante, evoca la saga della famiglia Del Valle, da cui discende per legami di sangue, osservando, attraverso lo sguardo esperto di fotografa di professione, alcune vecchie fotografie. In La nave per Robe di Dacia Maraini è l’autrice stessa a ripercorrere con la memoria, sulla scorta degli appunti materni e di alcune fotografie sbiadite, il viaggio e il soggiorno in Giappone della sua famiglia. In entrambi i casi, l’io narrante acquista un’autorevolezza accattivante in quanto depositario e custode delle memorie familiari. E in ambedue i libri il narratore non punta sullo scavo intimistico alla ricerca delle proprie radici ma si sforza di far emergere una storia che includa il percorso formativo personale nella parabola avvolgente di una tradizione familiare.
Del resto, il successo dell’ultimo libro di Isabel Allende II mio paese inventato, tra le opere straniere più vendute in Italia negli ultimi mesi, dimostra come l’autorevolezza della scrittrice risulti tanto più convincente per il lettore quanto più fa convergere resoconto autobiografico e gusto per l’affabulazione cordiale.
Il consenso del pubblico acquista tanto più risalto in quanto premia un’opera un po’ sbiadita, appesantita dall’ambizione di proporsi come libro di memorie, studio di costume sul popolo cileno, testimonianza umana e politica della tragica storia cilena, dall’avvento della dittatura in poi. In realtà però anche se la Allende non fa che riproporre materiale autobiografico già abbondantemente profuso nelle opere precedenti (in Paula, ad esempio), lasciando trapelare qualche segno di stanchezza, il volume sa ricondursi, tuttavia, alla radice dell’ispirazione più autentica della scrittrice cilena. Il Cile è la terra d’origine tanto più suggestiva e affascinante quanto più a rievocarla è una cilena «déracinée», ora naturalizzata cittadina statunitense; è, dunque, un paese ricercato e negato, meta di partenze e ritorni continui sino alla decisione dell’esilio definitivo all’indomani dell’imporsi della dittatura. E il punto di riferimento costante di un’esperienza umana intensa e sofferta ma anche ricca e avventurosa, e insieme uno spazio suggestivo dell’immaginario: «Gli stessi nipoti sostengono che nella mia mente esiste un paese inventato dove i personaggi dei miei romanzi vivono le loro avventure. Quando racconto storie del Cile credono mi riferisca a questo paese inventato» (Isabel Allende, Il mio paese inventato). Non è una dichiarazione inattesa ma vale a ribadire la formula con cui la scrittura della Allende fa presa su un pubblico assai ampio, che assicura da quasi un ventennio ai suoi libri il rango di bestseller planetari. I confini tra resoconto autobiografico e invenzione romanzesca sono sempre volutamente labili e permeabili: non per nulla l’intertestualità, il continuo rimando da un testo all’altro, da un romanzo a un libro di memorie e viceversa, è una caratteristica percepibile dell’opera della Allende. Ne consegue l’intento di proporre un universo narrativo affascinante e pervasivo, un vero e proprio luogo dell’immaginario, popolato e qualche volta anche sovraccarico di storie e di personaggi. Lo schema dominante della saga familiare non solo compone, attraverso una fitta rete di rimandi, una sorta di ciclo ideale ma si sostanzia di una serie di richiami più o meno espliciti alla biografia dell’autrice, che ella stessa provvede, nelle opere di taglio autobiografico, a chiarire. La scrittura segue, così, un percorso circolare, ma si adegua ora al ritmo temporale stratificato del recupero memoriale, ora alle cadenze cicliche della saga, rievocata con movenze quasi epiche. Si delineano, in tal modo, i tratti dell’autorevolezza su cui la scrittrice cilena fonda il patto con il pubblico che le è affezionato: si delinea, cioè, la prospettiva di una cilena dall’esperienza eccentrica, non integrata nella società del suo paese ma capace di evocarne il passato più o meno recente, tra tradizionalismo retrivo e primi sintomi di rivolta, per ribadirne le contraddizioni stridenti e insieme suggerirne calorosamente il fascino.
La suggestione di un vissuto ricco e avventuroso, avvalorato anche dall’impegno civile, si combina con la capacità di dar corpo a un immaginario dalle tinte cariche, dominato da passioni estreme, personaggi stravaganti, situazioni grottesche e surreali. Romanzo di costume, saga familiare e feuilleton ispirato al gusto vulgato latinoamericano convivono spesso nella narrativa della Allende.
Ne risulta, comunque, l’evocazione di un mondo tutt’altro che idilliaco, anzi segnato da tensioni e conflitti violenti in cui sono coinvolti i rapporti sociali ma, soprattutto, le relazioni coniugali e parentali. E proprio il rapporto tra i sessi e le generazioni ad essere investito da una conflittualità marcata, tant’è che a risolverla interviene spesso il salto generazionale. Alla relazione difficile e tesa tra coniugi e tra genitori e figli subentra l’alleanza complice e affettuosa tra nonni e nipoti, più disposti all’indulgenza reciproca. Non per nulla spesso alla nipote, alla giovane erede del clan familiare, spetta il ruolo di narratore testimone oculare dei fatti: è il caso di Alba ne La casa degli spiriti o di Aurora nel più recente Ritratto in seppia. Va anche detto che la Allende articola in modo complesso e, qualche volta, anche macchinoso il punto di vista della narrazione, alternando anche nello stesso romanzo il racconto in prima e in terza persona, senza esimersi neppure dal tentativo di rappresentare dall’interno il punto di vista maschile, quello del patriarca Estéban Trueba ne La casa degli spiriti, ad esempio, o del giovane Gregory in Il piano infinito. Ma è il punto di vista di un personaggio femminile, custode pur straniato della tradizione familiare, a svolgere un ruolo decisivo. Gli spetta il compito di evocare il personaggio centrale dei romanzi della Allende: la figura della matriarca estrosa ed eccentrica, che ad un tempo salvaguarda e dissacra i valori della tradizione familiare. Ne risulta valorizzata l’immagine di una femminilità spregiudicata e caparbia ma incapace di cedere al gusto della trasgressione ostentata. Una figura che ha un potere di suggestione e di rassicurazione forte, di cui la scrittrice stessa, adottando di romanzo in romanzo lo sguardo ammirato e complice delle giovani generazioni, si sente l’erede indiscussa.
Correlativo emblematico di tale condizione femminile è l’immagine dello spazio privilegiato in cui la protagonista domina e agisce: la casa signorile. La magione si propone nelle forme imponenti della dimora in stile coloniale: ma non è solo ampia e spaziosa; assume anche una configurazione disordinata e labirintica. Se il salone principale e il patio centrale ribadiscono le gerarchie rigide che informano i rapporti sociali e familiari, le camere da letto separate e spesso intenzionalmente chiuse a chiave dalle eroine suggeriscono le difficoltà nelle relazioni tra i sessi, mentre il susseguirsi di stanze secondarie, di disimpegni per la servitù, cucine e cantine consente ai personaggi parabole protette di fuga. E così nelle stanze nascoste e dimenticate della grande casa padronale si possono consumare amori illeciti o tenere pericolose riunioni politiche clandestine. La casa è dunque, per le figure femminili della Allende, uno spazio ambivalente, del tutto conforme alla loro natura: un luogo di tensioni sofferte e di evasioni possibili.
Anche nelle opere della Maraini dell’ultimo decennio l’immagine della villa signorile, la villa Valguarnera a Bagheria, svolge il ruolo di centro catalizzatore della memoria e dell’immaginario.
Ancora una volta sorprende la coincidenza, come se si evocasse un archetipo della scrittura femminile mediterranea e latina. Di nuovo poi il punto di vista è tutt’altro che scontato, giacché coincide con l’ottica di un’isolana eccentrica, siciliana mezzo sangue per discendenza materna nonché approdata in Sicilia dopo l’esperienza insieme esotica, avventurosa e drammatica del soggiorno in Giappone, conclusosi con la reclusione della famiglia Maraini in un campo di prigionia nipponico. Anche la Sicilia della Maraini è, dunque, un paese riscoperto e «inventato», secondo un percorso di scavo memoriale assai mosso, segnato da partenze, fughe e ritorni.
Emblema di tale relazione inquieta e straniata con l’isola è la figura del padre, personaggio centrale e dominante nei libri di memoria della Maraini, che riconduce all’ascendenza paterna la stessa vocazione per la scrittura. Sia in Bagheria sia in La nave per Kobe il padre Fosco appare come il partner di un rapporto privilegiato: compagno di giochi e di avventure ma anche figura sfuggente, capace di allontanamenti improvvisi e prolungati abbandoni… E giocoforza che la storia familiare evocata dalla scrittrice segua una linea spezzata di sviluppo: le rigide gerarchie verticali, tipiche della società patriarcale mediterranea e ancora dominanti nell’universo cileno della Allende, lasciano spazio a elementi significativi di discontinuità e di rottura: si pensi alla figura bizzarra e poco propensa alle tenerezze della nonna materna Sonia e al ruolo di padre-madre svolto dal nonno materno, che ha amorevolmente sostituito la moglie nella cura delle figlie.
D’altra parte la storia familiare è evocata attraverso un sovrapporsi di piani temporali che non solo segue il percorso sinuoso del recupero memoriale ma tende anche a scartare la direzione univoca dello scavo intimistico per ricostruire l’esperienza personale e collocarla entro una fitta trama di rapporti familiari, amicali e intellettuali. In La nave per Kobe, ad esempio, il racconto del viaggio e del soggiorno in Giappone dei giovani coniugi Maraini si sovrappone alla narrazione di altri viaggi più recenti, magari realizzati in compagnia di Moravia e Pasolini. La dimensione temporale mossa e poliedrica si combina con la varietà del registro espressivo, che oscilla tra l’inclinazione a una scrittura frantumata ed effusiva, capace di captare e tradurre emozioni e sensazioni, e la scelta di uno stile secco e referenziale, che lascia emergere i dati nella loro essenzialità. Di qui le aperture nella direzione della denuncia sociale e dell’impegno civile: si pensi al riferimento alla piaga del potere mafioso in Bagheria, alla testimonianza dell’impegno antifascista dei genitori in La nave per Kobe o ai romanzi recenti come Voci o Buio, incentrati sul tema della violenza sui bambini e sulle donne. La varietà di registri e di temi sottende, tuttavia, anche una spinta centripeta, ancora una volta ribadita dalla rete fitta di rimandi intertestuali da un’opera all’altra, dal gioco di richiami, riprese e simmetrie che invitano il lettore a ricostruire da un componimento all’altro, da La lunga vita di Marianna Ucrìa a Bagheria a La nave per Kobe, un universo noto e familiare.
Certo, al primo impatto, tale universo stenta a rivelarsi rassicurante: anzi vi aleggia attorno un’atmosfera di brutalità implacabile, che incombe minacciosa proprio sul mondo infantile e femminile. Ne è investita la Sicilia «inventata» di Marianna Ucrìa, vittima nella prima infanzia di una violenza carnale ad opera dello zio materno che le sarà poi assegnato come marito.
La violenza non è, però, solo un retaggio del passato, anzi dilaga anche nelle metropoli moderne dove si dipanano l’intrigo poliziesco di Voci e. le vicende toccanti dei racconti di Buio. Incombe, a ben guardare, anche sull’esperienza biografica dell’autrice che, ne La nave per Kobe, esclude per scelta dichiarata la narrazione dell’epilogo tragico: la terribile prigionia nel campo giapponese di Nagoya.
A esorcizzare l’imminenza inquietante del male non basta, nelle opere della Maraini, l’attesa fiduciosa di un allentamento della conflittualità conseguente al trascorrere del tempo e al succedersi delle generazioni. Occorre, invece, un atteggiamento più complesso, che coniughi sensibilità acuta per la dimensione affettiva e lucido disincanto razionale.
E l’atteggiamento di Adele Sofia, la commissaria protagonista di Voci e di Buio: figura femminile antieroica, goffa e grassoccia, single convinta ma non solitaria, quasi un doppio ironico dei corrispettivi protagonisti maschili della letteratura poliziesca.
Adele Sofìa indaga con lucido rigore sui fatti senza pretese di infallibilità, scruta eventi e personaggi con buon senso razionale ma sa anche condividere le sofferenze di vittime e carnefici. E lo studio della loro umanità a guidarla alla soluzione dei delitti cui ella giunge con autorevolezza discreta. Non per nulla il punto di vista della commissaria risulta saldo ma rilutta ad assumersi le responsabilità della narrazione: in Voci l’io narrante è, infatti, una giovane giornalista radiofonica, Michela, che, coinvolta casualmente in un episodio di cronaca nera, si lascia suggestionare dalle «voci» dei personaggi implicati nella vicenda; in Buio i fatti si presentano nella loro nuda oggettività su cui si proietta nel finale la luce della verità fatta emergere dall’abile poliziotta. Così la commissaria appartiene a pieno titolo alla galleria di ritratti femminili che hanno popolato la narrativa della Maraini, assicurandone un successo duraturo, avvalorato da numerosi e significativi riconoscimenti letterari. Ancora è di scena una femminilità all’insegna della spregiudicatezza istintiva, che non rifiuta ma interpreta liberamente i ruoli femminili tradizionali, dimostra indipendenza di spirito ma rifugge dal gesto isolato della trasgressione pura. Ne consegue un’autorevolezza costruita con sapienza e fatta valere con cordialità garbata. Così da Santiago a Bagheria la scrittura femminile di successo si sforza di comporre rispetto della tradizione e senso di estraneità, ricerca delle radici e fascino discreto dell’eccentricità.