La porta di Bruno Vespa

Grandi eventi e grandi protagonisti: è la ricetta usata da Vespa sia in Porta a porta, uno dei più seguiti talk show televisivi, sia nei suoi innumerevoli libri dati puntualmente alle stampe ogni autunno-inverno. Una saggistica tutt’altro che neutrale, se pur lontana dagli eccessi della partigianeria faziosa, caratterizzata da una scrittura analitico-documentaria con squarci surrealistici da romanzo popolare e arricchita da argomentazioni di tipo investigativo, in cui emerge una concezione evoluzionistica della storia fondata su uri idea di sviluppo a tappe obbligate, senza salti né rotture.
 
Grandi eventi e grandi protagonisti: in modo sintetico, si direbbe questa la ricetta della popolarità televisiva e libraria di un cronista di lungo corso come Bruno Vespa, alla guida dal 1996 del talk show più seguito della televisione italiana. D’altro canto, il successo impone sempre una contropartita: mentre attribuisce autorevolezza a chi lo ottiene, nello stesso tempo lo espone più facilmente alle critiche di giudici severi. E difficile in effetti ignorare che agli occhi di una parte cospicua dell’opinione pubblica, di sinistra così come di destra, il conduttore di Porta a porta incarna un esempio di giornalismo tutt’altro che positivo, piegato alla logica della spartizione partitica tradizionalmente dominante in Rai.
Tuttavia sarebbe sbagliato non vedere i meriti di questo cronista che, pur affrontando i temi più vari (dal caso di Cogne alla Sars, alla famiglia, alle vacanze), ha saputo trasformare il proprio salotto anzitutto in un’occasione privilegiata di dibattito politico. Al punto che, più d’una volta, parlamentari e ministri lo hanno scelto per dare notizia di decisioni strategiche di rilievo, come avvenne nell’inverno 2000 quando Giuliano Amato annunciò la sua intenzione di rinunciare alla candidatura a premier per l’Ulivo nelle elezioni della primavera successiva a vantaggio di Francesco Rutelli che, ignaro, se ne stava volando verso Sydney. Si guarda insomma Porta a porta non solo per i suoi contenuti informativi, ma anche per la sua natura performativa, e cioè per il fatto di essere essa stessa evento fra gli eventi.
Queste osservazioni aiutano a capire anche le ragioni della fortuna editoriale che Vespa è andato incontrando soprattutto con la serie di resoconti annuali che, dall’inizio della cosiddetta Seconda repubblica, dà puntualmente alle stampe ogni autunno-inverno e che lo hanno proiettato nella sparuta cerchia dei frequentatori abituali delle classifiche dei bestseller.
La formula registica adottata è semplice quanto felice: gli avvenimenti dell’annata appena trascorsa sono raggruppati in nuclei tematici mettendo a confronto le divergenti testimonianze di coloro che li hanno vissute in prima persona e che il giornalista ha interpellato per l’occasione. Sulla pagina come negli studi televisivi, il ruolo che egli riserva per sé è quello del moderatore partecipe, che sollecita i propri «ospiti» dialogando con loro nei panni d’un princeps intra principes. Insomma, il più potente dei giornalisti Rai incontra i potenti della politica in Italia. Sul piano della strutturazione saggistica, ne deriva una discussione a più voci, una sorta di talk show letterario nel quale le parti dialogate si avvicendano agli inserti discorsivi gestiti dal saggista con funzione di cornice.
Proprio il gran numero di memorie, confidenze, documenti di prima mano costituisce il principale motivo di interesse di questi annales. A una funzione di richiamo risponde poi l’enfasi con cui la drammatizzazione della vita civile nel paese è rispecchiata fin dai titoli, peraltro curiosamente simili dal punto di vista semantico e grammaticale: Il cambio (1994), Il duello (1995), La svolta (1996), La sfida (1997), La corsa (1998), Scontro finale (2000), La scossa (2001), La Grande Muraglia (2002). La stessa enfasi del resto ritorna anche nei volumi che abbracciano un più vasto arco di tempo: Telecamera con vista (1993), venticinque anni di vita italiana rivissuta attraverso i retroscena del telegiornale; 1989-2000. Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia (2000), sintesi dei rivolgimenti di un decennio, dalla caduta del muro di Berlino alla «prima volta» di un ex comunista a Palazzo Chigi, e Rai, la grande guerra (2002), vasto affresco delle battaglie che hanno segnato la vita della grande azienda pubblica italiana dalla seconda metà degli anni cinquanta alle nomine della primavera 2002.
Ma l’euforia agonistica è contraria allo spirito moderato dell’autore: se il cronista trova negli scontri frontali pane per i propri denti, il Vespa «politico» se ne preoccupa, convinto che in un clima di conflittualità eccezionalmente surriscaldato il bene collettivo rischia di essere messo in secondo piano rispetto all’urgenza di serrare i ranghi per far fronte alle minacce, vere o presunte, del comune nemico.
A scanso di equivoci, d’altronde, è bene precisare che ci troviamo di fronte a una saggistica tutt’altro che neutrale: Vespa espone gli avvenimenti con onestà, attinge le informazioni a una pluralità di fonti in contrasto fra loro, si mantiene lontano dagli eccessi di partigianeria faziosa; nondimeno, non esita a proclamare il proprio punto di vista soprattutto quando in gioco ci sono questioni cruciali per il funzionamento della democrazia: la giustizia, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la guerra preventiva contro il terrorismo.
I commenti da parte dell’autore si fanno particolarmente fitti in La Grande Muraglia (ultima fatica editoriale, nel momento in cui scriviamo). E la ragione è comprensibile: pubblicato nel novembre 2002 e riproposto nei «SuperMiti» nel maggio 2003 in un’edizione aggiornata al conflitto in Iraq e alle nuove battaglie tra il presidente del Consiglio e la magistratura, il libro intende mettere in luce le principali questioni che sono all’origine della spaccatura prodottasi fra «l’Italia di Berlusconi» e quella dei «girotondi», «l’Italia che vuole essere governata da lui e quella che non lo sopporta e non si rassegna all’idea che il Cavaliere resti a palazzo Chigi fino alla primavera del 2006».
Posto il conflitto in questi termini, il conduttore di Porta a porta si sente giustificato a prendere posizione a sostegno del presidente del Consiglio per difenderne la legittimità a governare, messa in discussione da quei settori della intellighenzia italiana che condividono l’opinione dell’«Economist» secondo cui, a priori, «Berlusconi non è adatto a guidare l’Italia». L’ironia colpisce gli oppositori oltranzisti che in cuor loro confidano sul fatto che il presidente del Consiglio, messo in continue difficoltà, sia costretto a dimettersi prima del tempo: «Ancora quattro anni, quattro autunni e quattro primavere, come si fa? Non si potrebbe trovare una soluzione? Una piccola condanna per corruzione, ad esempio». Ma Patteggiamento di Vespa nei confronti del Cavaliere è più complesso e problematico di quanto potrebbe apparire a una lettura frettolosa.
Ed è significativo che, in contrasto con l’immagine del gaffeur e del piccolo Cesare che la stampa e la satira di sinistra hanno divulgato di Berlusconi, egli si sforzi di metterne in evidenza le doti di paziente mediatore e di accorto diplomatico. Siamo al punto decisivo: Vespa non è, ovviamente, Emilio Fede, ma non è neppure Giuliano Ferrara. Quest’ultimo vede in Berlusconi l’homo novus, arrivato provvidenzialmente come una forza della natura a portare una ventata di aria fresca nel clima soffocante dell’Europa: quasi un rivoluzionario, che con la sua foga inarrestabile manda all’aria gli ipocriti galatei della partitocrazia e delle diplomazie; e si capisce che per il direttore del «Foglio» gli effetti positivi di questa azione liberatoria siano superiori alle collaterali conseguenze negative. Vespa, al contrario, vede in lui il pragmatico disponibile ai compromessi, che ha imparato in fretta a usare gli strumenti della politica e che, dal punto di vista del programma, si colloca nell’ampia famiglia dei riformisti, con un orientamento di ispirazione liberale ma non discorde con il patrimonio di valori del mondo cattolico.
Ma Ferrara interpreta i sentimenti di un’élite radicale, sia pure di destra, insofferente come tutta l’intellettualità radicale agli impicci burocratici; Vespa si fa portavoce invece dei desideri di stabilità di una massa ben più cospicua di elettori: quegli orfani del centro democristiano che, costretti dall’uninominale a scegliere tra due poli, danno la preferenza a quello che giudicano meno lontano da loro.
Ciò non significa tuttavia che Vespa condivida le velleità napoleoniche del Cavaliere: è anzi un fatto rivelatore che egli tenda a rimuoverle, evidentemente perché estranee al proprio DNA ideologico. D’altra parte, va osservato che nel pantheon di La Grande Muraglia non solo il Cavaliere non è affatto solo ma nemmeno gli è riservata la collocazione più onorevole: al suo fianco vi è una folla alquanto eterogenea la cui compagnia, si può supporre, non gli dovrebbe essere del tutto gradita. La simpatia bipartisan di Vespa va ai gradualisti in genere, appartengano all’uno o all’altro degli schieramenti parlamentari: Fini, D’Alema, Piero Fassino, Francesco Rutelli e, a più forte ragione, Pierferdinando Casini e Marco Follini. Sono tutti, chi più chi meno, «uomini in grigio», negoziatori per costituzione, refrattari ai gesti spettacolari dei professionisti della provocazione.
Fra gli attori della vita parlamentare, Casini è certamente colui che corrisponde meglio al suo identikit del politico ideale: «fa la parte dell’ultimo arrivato», non è che l’esponente di punta di un partito esangue cui Berlusconi, nelle trattative, riserva la porta di servizio; eppure il «Russell Crowe della politica italiana» (così l’ha battezzato Vespa), ha saputo grazie all’astuzia ritagliarsi «una sostanziosa fetta di potere» e, divenuto presidente della Camera, ha esercitato la sua autorità con spirito di indipendenza scontentando, se necessario, i suoi partner e finendo con l’essere «blandito da quella sinistra che in precedenza lo aveva considerato un salvainquisiti».
L’altro eroe di Vespa è Marco Biagi, il docente bolognese che elaborò la riforma del mercato del lavoro, divenuto tristemente noto in virtù della morte violenta e degli strascichi polemici legati alla scorta negata. A lui l’autore si sente affine per la medesima propensione a tenere distinte l’«anima cattolica» e il «cervello laico»: un modo di pensare, questo, che lo differenzia nettamente da un cattolico conservatore e accigliato quale Antonio Socci, paladino della corrente anti-illuministica dell’universo ecclesiastico protesa a mettere in discussione le conquiste della modernità.
D’altra parte, sul piano della strutturazione del discorso va precisato che gli interventi diretti dell’autore mirano a riportare la discussione sulla retta carreggiata, non a proporre un’interpretazione ermeticamente chiusa degli eventi narrati. La prova più significativa dell’atteggiamento di fondo che impronta questi volumi la offre l’ultimo lungo capitolo di La sfida, dedicato a uno degli eventi politico-giudiziari più controversi dell’Italia repubblicana: l’omicidio Calabresi.
L’autore rinuncia a commentare la terza sentenza della Corte di Cassazione che nel gennaio 1997 portò nel carcere di Pisa i tre principali imputati di una snervante catena processuale destinata a concludersi oltre tre anni dopo in modo tutt’altro che trasparente. Ma riporta le confidenze di prima mano accordategli dai protagonisti: i due ex leader di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri, il pentito Leonardo Marino e Gemma Calabresi, vedova del commissario assassinato nel maggio 1972.
D’altra parte, se gli annali dell’antichità romana e le cronache medievali hanno ispirato i criteri di organizzazione strutturale di questi racconti, il precedente più prossimo è costituito dalle Storie di Indro Montanelli, soprattutto per la tendenza ad accordare alla componente umana il ruolo di variabile dominante del divenire storico. L’utilità di altre chiavi di lettura, che assegnino ad esempio una priorità causale alla sfera economica o sociale, non è negata a priori ma nemmeno contemplata.
Tuttavia le differenze sono più marcate delle analogie: il fondatore del «Giornale» è incline alla sintesi icastica, che riassume il senso di un destino in un ritratto a effetto, con pochi dettagli rivelatori; il conduttore di Porta a porta propende viceversa per una scrittura analitico-documentaria, che non disdegna di spalancarsi su squarci surrealistici da romanzo popolare (emblematici in tal senso l’allarmata conversazione fra «scheletri eccellenti» – Togliatti, Di Vittorio, Lama, Berlinguer, Longo e De Gasperi – e il dialogo «fra il cervello di Berlusconi e la sua pancia», entrambi in La Grande Muraglia), ma che sostanzialmente privilegia i registri dell’argomentazione investigativa, funzionali a una saggistica che si ripromette anzitutto di raccogliere il maggior numero di dati possibili attingendo a fonti disparate.
La disparità della mole di pagine delle rispettive opere è un indice non trascurabile della differente personalità dei due giornalisti: agli agili libretti del primo si contrappongono i voluminosi tomi del secondo. Ma soprattutto Montanelli aveva una visione pessimistica e catastrofica della storia, che gli permetteva di mettere in guardia dalle promesse a buon mercato del determinismo progressista ma che lo rendeva pure non del tutto immune dai richiami allettanti dei teorici dell’anti-democrazia; Vespa, al contrario, ha della storia una concezione evoluzionistica, fondata su un’idea di sviluppo a tappe obbligate, senza salti né rotture, simile a quella di un organismo che dal suo embrione cresca secondo un ordine prestabilito.