Dio non comanda e anche i padri latitano

In una stagione in cui i premi letterari implodono e le polemiche nascono confezionate ad arte per riempire le pagine Cultura di quotidiani o magatine, Come Dio Comanda di Ammaniti ha il merito di ricondurre la discussione alla questione cruciale: è un libro interessante, vale la pena di leggerlo? Sì: non solo per lo spaccato di civiltà che offre, ma per le scelte di montaggio, fecalizzazione e progressione d’intreccio che rilanciano il gusto per l’ampia narrazione romanzesca, vincendo il confronto con i linguaggi mediatici.
 
«Perché così Dio comanda.»
Siamo ormai prossimi alla conclusione (p. 454) e il ritornello che riecheggia nella mente bacata di uno dei personaggi, a pseudoalibi per la balorda uccisione di una ragazzina, chiarisce il titolo, illuminandolo di luce paradossale. Non solo il motto proverbiale ha perso ogni significato in una società dissestata, in preda agli egoismi aggressivi, ma soprattutto non c’è alcun padre, né celeste né umano, che possa indirizzare i comportamenti del singolo, in un sistema condiviso di relazioni pubbliche.
Dopo Io non ho paura, Ammaniti recupera l’orditura a campata larga del romanzo per saggiarne, sullo sfondo livido della contemporaneità, la configurazione più canonica: in un «mondo abbandonato dagli dèi», tra i detriti e le macerie accumulate da un’umanità orfana e cieca, un protagonista ragazzo va alla «ricerca di senso». In questo inizio di millennio, il giovane eroe è un adolescente, abitante in una anonima periferia metropolitana, senza madre, affidato a un genitore sciupafemmine, ubriacone, muscoloso e nazista alla Mei Gibson, che si accompagna ad altri due adulti sfigati e impotenti. L’adozione postavanguardistica delle ampie strutture narrative è sorretta dall’abilità talentuosa di chi, attraversata la stagione della gioventù cannibale, sa maneggiare e mescolare, con disinvoltura spregiudicata, gli strumenti compositivi più adatti per interloquire con il pubblico vasto dei lettori.
Come Dio Comanda è un’opera molto costruita: è vero, lo hanno sottolineato tutti i critici; ma questo riconoscimento, lungi dall’essere un demerito, è l’indizio più sicuro della serietà di uno scrittore mosso dal desiderio di dar conto della civiltà confusa e caotica in cui viviamo, senza sudditanza né verso i confezionatori di bestseller, specie d’oltreoceano, né verso gli affabulatori dell’immaginario televisivo e digitale.
L’impegno costruttivo acquista limpida evidenza grazie alle epigrafi apposte alle tre macrosequenze entro cui si dipana la narrazione: alla prima, che evoca assilli biblici, «Perché le cose degli empi prosperano? Perché tutti i traditori sono tranquilli?» (Geremia, 12,1-2), seguono due citazioni, una tratta da un capolavoro della narrativa per ragazzi (Attraverso lo specchio di Lewis Carroll), l’altra da una canzonetta di Bennato, Quando sarai grande. Il singolare accostamento non solo testimonia la commistione fra codici e registri dissonanti ma suggerisce la tipologia di genere entro cui il protagonista, in cammino verso l’inospitale universo degli adulti, compie la sua ricerca di senso.
Dopo un Prologo, vera e propria prova iniziatica contro il freddo e la paura, il racconto copre l’arco temporale di poco meno di una settimana, da venerdì a mercoledì: al centro, la notte di tregenda in cui si scatenano le forze della natura e si decidono i destini dei personaggi. All’alba di lunedì, una zoomata sul ragazzo: «Il mondo cambiò e la sua esistenza divenne importante, degna di essere raccontata, quando vide la testa del pelato scomparire dentro l’autoambulanza» (p. 354). La vita degna di essere raccontata è appunto quella dell’adolescente Cristiano Zena, il pelato entrato in coma è suo padre, Rino Zena.
Come nel precedente libro, il rapporto fra genitore e figlio è il motore dell’intreccio: la brutalità paterna, visceralmente possessiva, compensa la latitanza della figura materna. Cristiano ha tredici anni, è ruvidamente sensibile, scontroso con tutti, massime con le compagne di scuola; educato con i precetti feroci della pedagogia sadica, s’attrezza a schivare le insidie e gli inganni che l’attendono fuori della sudicia baracca in cui la famiglia Zena vive, o forse meglio sopravvive: senza conforto alcuno, sempre all’erta, si fida solo dei due amici del padre, adulti malcresciuti disastrosi e disastrati. Quattro Formaggi, ovvero l’Uomo delle Carogne, l’esecutore paranoico del comando divino, è un povero mentecatto, collezionista di pellicole porno e costruttore in gran segreto di un immenso Presepe; l’altro, Danilo Aprea, devastato dai sensi di colpa per la morte accidentale della figlioletta, architetta rapine spettacolari, destinate a fallire in modo tragico e farsesco.
La femminilità quanto più è figura d’assenza, tanto più diventa il Leitmotiv narrativo: le mogli e madri, incapaci di reggere il peso oppressivo di una virilità minacciosa e velleitaria, se ne sono andate lasciando un vuoto immedicabile; le ragazze appaiono da lontano splendenti oggetti del desiderio che la violenza incontrollata e stupida del maschio atterra senza pietà. E davanti al cadavere della giovinetta uccisa da Quattro Formaggi, obnubilato dalle visioni delle sue cassette hard, che Cristiano misura la forza del suo attaccamento al padre e nel contempo matura il senso di responsabilità verso il mondo adulto.
Il romanzo ha il suo elemento di forza in un montaggio serrato che tiene sempre il lettore in costante inquieta tensione.
Il sistema dei personaggi chiuso, quasi claustrofobico, pur nell’ampia architettura romanzesca, esalta l’essenzialità compatta del racconto: al centro la coppia di padre e figlio, affiancata dai due amici; le altre figure sono appena schizzate, ma quando entrano nel vortice della vicenda, confortano la quete di Cristiano: dall’assistente sociale Beppe Tresca, fragile e in ansia spasmodica d’amore (e anche in questo caso, Dio non comanda nulla, anzi), ai genitori altoborghesi della vittima Fabiana Ponticelli, che non sanno né possono proteggerla, fino ai bulletti del quartiere, griffati dalla testa ai piedi, frequentatori assidui del Centro commerciale. Anche l’apparizione di comparse fuggevoli è funzionale ai nodi della trama e avvalora l’orizzonte ideologico: siamo in macchina, in coda, i coniugi Baldi stanno litigando sulla mania compulsiva di lui per l’acquisto d’auto; lei incinta scende per sfogare l’ira e respirare aria fresca; le si para sotto gli occhi increduli il cadavere della ragazza.
La lunghezza variamente orchestrata dei capitoli (alcuni composti da una unica frase) asseconda la dinamica narrativa fra pause e accelerazioni improvvise, cadenzando i ritmi di lettura. La progressione d’intreccio è abilmente giocata sull’intersezione di scene d’interni, fittamente dialogate, e veloci sequenze esterne che paiono seguire, anzi tallonare i personaggi, prefigurando i loro possibili incontri e scontri. Esemplare la parte centrale, La notte. Sullo sfondo di un diluvio torrenziale, il racconto intreccia, con effetto di sincronia stereoscopica, le numerose vicende parallele: i preparativi della rapina al bancomat ideata da Danilo, l’attesa scocciata fra fiumi di birra in casa Zena, l’eccitazione di Beppe Tresca per un incontro clandestino in camper, l’inseguimento da parte di Quattro Formaggi della giovane Ponticelli. Grazie al cambio repentino dei tempi narrativi (dal presente attualizzante all’iterazione degli imperfetti fino al perfetto di primo piano) e alla commistione dei registri stilistici (dal comico fantozziano dei propositi delinquenziali o seduttivi-erotici al pathos angoscioso del ritrovamento del cadavere di Fabiana) la trama si aggroviglia, si contrae e si distende senza mai perdere fluidità e leggibilità.
Le scelte linguistiche rafforzano la compattezza strutturale dell’opera. L’andamento prosastico, alieno sia dai manierismi liricheggianti, sia dalle pause digressive di tono sapienziale, privilegia una sintassi paratattica, franta e sincopata, a cui l’ordine tipografico della pagina dà evidenza icastica. Quando il dettato si fa più complesso, il flusso di frasi è orientato dalle catene anaforiche che, nella insistenza ostinata di immagini e parole chiave, sottolineano i nuclei semantici, corroborando l’effetto di realtà. La mescolanza dei codici espressivi punta a simulare, senza intenti mimetici, la varietà discorde della comunicazione quotidiana: mentre in lontananza rimbomba la colonna sonora del consumo culturale di massa, le cadenze medie e neutre del parlato incorporano gerghi, idioletti, voci convenzionali, stereotipi mediatici: dalle sceneggiature filmiche agli spot pubblicitari e televisivi, dai linguaggi fumettistici fino alle sigle scorciate degli sms. Estranea alla moda citazionista del postmoderno, la scrittura di Ammaniti si sforza di delineare lo sfondo credibile di una società metropolitana, colma di merci e di rifiuti, suoni e rumori, dove convivono la servitù del lavoro nero e lo stordimento del tempo libero, la prepotenza del benessere ottuso e l’oppressione della miseria avvilente. In questo orizzonte tardocapitalistico si muove un’umanità priva di fedi e ideali, ma soprattutto estranea a comuni valori condivisi. E un deficit di socialità coesa quello che Come Dio Comanda pone al centro della rappresentazione romanzesca.
Lo suggerisce, indirettamente, la tecnica di nominazione dei personaggi, protagonisti inclusi: ogni volta che appaiono in scena sono sempre appellati con nome e cognome, come a scuola o nelle cronache giudiziarie: segno d’appartenenza a una comunità chiusa e insieme indizio d’estraneità sociale e d’anomia burocratica. Adottato con pervicacia martellante, il procedimento sollecita soprattutto il lettore a seguire le vicende con coinvolgimento straniato: chi legge oscilla sgradevolmente fra moti di partecipazione sgradevole e riluttanza a ogni impossibile empatia complice.
E questa duplice inclinazione fruitiva a caratterizzare l’ultima prova di Ammaniti; forse il suo merito maggiore. Il narratore non cede all’indugio morboso sugli effettacci del pulp o dell’horror gratuito e neppure inclina ai facili sociologismi descrittivi del degrado metropolitano, a giustificazione probatoria di comportamenti deviati e aggressivi. Seppur dotato di un’onniscienza sovrana, capace di penetrare nei labirintici meandri psichici e nei viluppi del delirio ossessivo, non ostenta alcuna superiorità giudicante, in nome della quale condannare o assolvere.
Regge l’intera macchina romanzesca e il suo stringente patto narrativo una strategia espressiva facile ed efficace: rifiutate sia le tecniche tradizionali dell’introspezione analitica sia i moduli novecenteschi del discorso indiretto libero e del flusso di coscienza, l’autore si affida alla resa immediata ed evidente della scrittura, alternando caratteri tipografici diversi: tondo per la voce narrante, corsivo per i pensieri dei personaggi. L’io narrante quanto più raffigura la dialettica scambievole fra vittima e carnefice, sadismo e masochismo, fragilità e sopraffazione, tanto meno ne commenta l’implacabile legge di reversibilità: la scrittura, con gli scarti improvvisi e altrettanto rapidi cambi prospettici, frammischia voci e punti di vista, lasciando a chi legge il compito di decifrare la trama degli eventi e delle loro sotterranee implicazioni.
Nella sequenza centrale che descrive l’inseguimento di Fabiana da parte di Quattro Formaggi, il racconto, condotto con rigorosa focalizzazione ristretta, esalta la personalità forte della ragazza, annebbiata sì dai troppi spinelli, eppur lucida e coraggiosa; e nel contempo registra, senza accanimento né compatimento, l’ansia di possesso incontenibile del persecutore mentecatto.
Non dissimile la tecnica combinatoria di piani narrativi che orchestra la conclusione, a sanzione definitiva che nessuna prospettiva metafisica può confortare l’umanità, sola nel lutto e nella ricerca di senso. La scena della cerimonia funebre nella chiesa affollata, in cui i diversi attori convergono, alterna le parole ispirate del sacerdote, i ripensamenti erotici di Beppe Tresca, le apprensioni e le certezze di Cristiano, intrecciandole con i vaneggiamenti dell’Uomo delle Carogne, che, davanti al suo immenso Presepe, si autopunisce impiccandosi.
Solo il lettore può sciogliere, forse, la ragione oscura del perché «così Dio comanda».