Il «Ferrante novel»

Libri di donne, su donne, per lo più letti da donne: un mix di stile, contenuti, strategia promozionale che data agli anni settanta. Un format che nei nostri anni ha un nome (de piume). Scrittura in prima persona, voce di donna che scandaglia un privato che diventa pubblico, nei suoi recessi melmosi, con pena, ma senza scandalo. Da L’amore molesto a I giorni dell’abbandono e La figlia oscura, la scrittura corre sapiente a disegnare i tratti più foschi del regno delle Madri. Con Elena Ferrante, con la sua misteriosa identità che alimenta il mito eppure permette a ciascuna lettrice di rispecchiarsi, è come se «il femminile» troneggiasse in uno spazio – non più separato – dell’industria editoriale italiana.
 
«Le “Rose”? Un disastro durato quasi venticinque anni: un gran lavoro, ma non si vendevano. Ci sono servite a scoprire alcune narratrici. Ma con le Rose del Belgio uscite nel 2006, abbiamo chiuso». Capita di rado che un editore si esprima – su una propria impresa – con tanta franchezza. Lo fa Sandra Ozzola, la faccia femminile di e/o, archiviando così la collana che, per cinque lustri, ha portato in libreria le antologie di racconti di narratrici di paesi esotici o a margine, come Arabia e Cina. Ma anche – paradosso editoriale – del supereuropeo Belgio, «esotico» perché considerato in linea di massima poco appetibile dalla nostra industria del libro.
Il de profundis per le «Rose» di e/o ci serve a tratteggiare lo scenario in cui si staglia un fenomeno che con quella stessa cultura maturata dalla fine degli anni settanta – libri «di» donne, «su» donne, per lo più letti «da» donne – ha a che fare: il fenomeno, concretizzatosi negli ultimi anni, del «Ferrante novel». Ovvero quel mix di stile, contenuti, strategia promozionale, che caratterizza la produzione della misteriosa Elena Ferrante, e che – a nostro parere – è venuto fondando un vero e proprio, femminilissimo, genere. Guarda caso, nato proprio nella stessa e/o.
Ma, prima di addentrarci dentro questo frutto estremo di una stagione – il «Ferrante novel» – osserviamo ancora lo scenario nel suo complesso. Chiediamoci cioè se, oltre le «Rose», sia sfiorita nel suo complesso la produzione a esse analoga. Se il «marchio donna», così come impiegato tradizionalmente dagli anni settanta, venga ancora utilizzato dagli editori o se esso sia ormai fuori uso.
Con intelligente eleganza, ma senza più intenzioni battagliere, lo utilizza la storica Tartaruga di Laura Lepetit, diventata costola di Baldini Castoldi Dalai. Risulta, poi, una risorsa usata ormai per automatismo in alcuni consessi: alla Fiera del Libro 2007 almeno un paio di appuntamenti portavano questa insegna. All’etichetta facile ricorrono, poi, editori che vogliono fabbricare un’antologia di racconti, come la Robin che nel 2007 inzeppa Machado e Triolet in Autori che parlano di donne. O che, magari in linea con le «Rose» di e/o, ideano un’antologia «geonarrativa», come – sempre nel 2007 – Le Lettere con le «voci femminili dal Canada» di Donne in viaggio.
Il «marchio donna» (come l’8 marzo…) ha perso in motivazione e acquistato in genericità, insomma.
Siccome, però, nel pianeta convivono tutti gli stadi della civiltà, è nello stesso 2007 che è arrivata nelle nostre librerie, dal Sudafrica, una raccolta dal sapore, per noi, di altri tempi: la Guguletu blues curata da Sindiwe Magona (Gorée) e composta di storie brevi scritte da donne nere della township chiamata, appunto, Guguletu. In questo caso il marchio «donna» ha ancora una fondata ragione di esistere, perché la scrittura, come Sindiwe Magona l’insegna alle sue compagne dello slum, è stata ed è, per le autrici, uno strumento specifico di emancipazione (e di libertà) dalla doppia, tripla oppressione: già vittime dell’apartheid, proletarie o lumpen, per lo più madri sole in guerra per salvare i propri figli…
Ma, appunto, eccoci nel nostro emisfero, nel nostro paese, e nei nostri anni: noi, quanto a novità, siamo invece nell’epoca del «Ferrante novel». Che cosa indichiamo con questa etichetta? La «presenza» che questa enigmatica scrittrice è andata costruendo, nel nostro mercato, in questi anni.
Elena Ferrante, con questo nom de plume, si è materializzata in sordina nel 1992 con L’amore molesto. È diventata autrice di culto dopo che Mario Martone, nel 1995, ha tratto un bellissimo film omonimo dal suo bel romanzo. Ed è diventata autrice da bestseller con I giorni dell’abbandono, il secondo romanzo, uscito nel 2002. Il salto al bestseller era nell’aria: in questo caso, infatti, subito, a libro appena uscito, un altro regista, Roberto Faenza (abituale cacciatore di diritti), ne rilevò l’opzione e ne realizzò la versione cinematografica, uscita poi nel 2005. Fatto significativo – e non scontato – con lo stesso titolo (sfruttando, cioè, la scia del successo ottenuto dal romanzo in libreria). Nel 2007 esce La figlia oscura. Come si sa gli editori non svelano volentieri le cifre reali di vendita dei propri titoli: da e/o, a domanda, ci rispondono in modo indiretto: «La figlia oscura ha venduto quanto I giorni dell’abbandono prima che diventasse un film».
Fin qui abbiamo descritto il modo in cui Elena Ferrante si è ricavata nel nostro mercato uno spazio da autrice da grandi vendite. Ma perché parliamo di «Ferrante novel»? Perché il caso non si riduce ai singoli romanzi che l’autrice scrive. E coincide, invece, con il loro accumularsi: Elena Ferrante, ormai, è in sé un marchio. E un «brand» dal quale il lettore, o meglio la lettrice, sa cosa aspettarsi.
Scrittura in prima persona, voce di donna, che scandaglia un privato che diventa pubblico, nei suoi recessi melmosi, con pena, ma senza scandalo. Sia se, come nel primo, L’amore molesto, la figlia scopre di odiare-amare la madre, sia se, come nel secondo, I giorni dell’abbandono, la moglie tradita tracima in un sesso cupo, sia se, come nel terzo, La figlia oscura, la madre prova più trasporto per una bambola che per le proprie creature.
Questi gli stilemi che Ferrante ripete. Con una penna che corre sapiente. Perché la «misteriosa scrittrice» sa scrivere, eccome: non lesina invenzione linguistica, ricorre a metafore fosche e originali. Col tempo, però, si è fatta consapevole di ciò che è andata costruendo: non singoli romanzi, ma una mitica entità narrante.
Tant’è che nel romanzo del 2007 si autocita: la sua Feda, nella Figlia oscura, parla di «frantumaglia» e così rimanda al titolo del pastiche autobiografico dell’autrice uscito nel 2003 e, in versione aggiornata, nello stesso 2007.
Perché, naturalmente, parte costitutiva del «caso Ferrante» è la distanza che la scrittrice pone tra se stessa e il proprio pubblico e che, di copertina in copertina, la casa editrice ha ben tradotto, graficamente, in corpi di donna visti di schiena o decapitati.
«Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti»: così, in una lettera ai suoi editori pubblicata nella Frantumaglia edizione 2007, lei stessa spiega la sua scelta. Ma, qualunque sia il motivo per cui l’autrice (o, come si è ipotizzato, l’autore) di questi romanzi si celi sotto pseudonimo, è evidente il risultato: l’impossibilità di attingerne il volto spruzza sulla sua figura quel pulviscolo dorato che, un tempo, cospargeva gli inattingibili «divi e divine» del grande schermo.
Ora, fossimo in area anglosassone, il «Ferrante novel» avrebbe partorito una filiera, secondo la regola che, quando un romanzo ha successo, e l’autore si specializza, poi è l’industria che crea i sottoautori e i sottoprodotti. Se da Dan Brown è scaturito il megascaffale dei successivi romanzi «conspiracy», da Ferrante potrebbe ben nascere una piccola scansia di epigoni.
Nel nostro caso, invece, resta da chiedersi piuttosto questo: l’autrice continuerà a tessere la tela del «Ferrante novel» o cambierà registro? Dopo essere stata sulla carta figlia, moglie, madre, proseguirà nell’indagine dei legami familiari e nel prossimo romanzo ci si presenterà nei panni di sorella (o di nonna)? Oppure darà un calcio al proprio mito e scriverà di tutt’altro?
Intanto, siccome un mito, per restare tale, va alimentato, tra un romanzo e l’altro la casa editrice manda in libreria altro: a ottobre 2007 è uscita La spiaggia di notte, favola per bambini dove Ferrante narra un possibile «dopo» della Figlia oscura, immagina la vicenda cioè della bambola di cui, lì, si era invaghita la protagonista.
Laura Lepetit e Cristina Dalai, animatrici insieme, oggi, della storica Tartaruga, spiegano che, almeno in campo narrativo, la rabbia d’un tempo non ha più ragion d’essere: «Il compito non è più rivendicare spazio per la scrittura femminile, perché lo spazio si trova anche altrove, in case editrici non separatiste» osservano. Sicché, il «marchio donna» come l’abbiamo inteso per un paio di decenni è invecchiato.
Salvo incarnarsi in questo fenomeno: con Elena Ferrante, con la sua misteriosa identità che permette a ciascuna lettrice di rispecchiarvisi, e con la sua tematica narrativa, è come se «il femminile» troneggiasse, da alcune stagioni, enigmatico, in un angolo della nostra industria editoriale.