Si fa ma non si dice

Che la faccenda sia dannatamente complicata, lo testimonia un dato di fatto editoriale: tutti i testi sull’argomento presentano un titolo bipartito, in cui allo strillo iniziale si accosta un sottotitolo esplicativo. In realtà, i volumi variamente dedicati alla «buona morte» – ampiamente corredati di prefazioni, postfazioni, sondaggi, rimandi alla giurisprudenza straniera – disegnano una situazione drammaticamente schizofrenica. Da un lato l’abbondanza parolaia di teoresi filosofica, manicheismo dogmatico, possibilismo caritatevole; dall’altro, l’abbandono arbitrario a una pratica corrente che accosta negazioni eclatanti e complicità silenziose. Nel mezzo, un vuoto legislativo che in troppi pensano di aver diritto di colmare.
 
Convinto che stessi per raggiungere i limiti d’età, il direttore mi ha assegnato il tema dell’eutanasia. Invece vorrei finire come Guglielmo il Maresciallo, conte di Pembroke, di Longueville e mezz’Irlanda, con Riccardo Cuor di leone, pari e vassalli ad ammirare la serenità del mio contegno, moglie e figli a versarmi sul petto pianti sinceri e l’alto prelato spazientito a chiedersi quanto manca all’estrema unzione. La questione è seria, lo so, ma finché sono in grado di prenderla in considerazione con distacco, non ancora drammatica. Lo è stata per molti invece, ultimo Piergiorgio Welby, spesso citato nei libri sull’eutanasia, usciti nel primo semestre del 2007.
Ne ho cinque, di cui due ristampe, dev’essere un record. D’altronde, «i due terzi dei decessi sono preceduti da una degenza» scrivono Johan Bielsen, Joachim Cohen e Lue Deliens in Fin de vie en Europe. Le point sur les pratiques médicales («Population et Sociétés», gennaio 2007) «in istituzioni in cui l’offerta terapeutica e palliativa è aumentata e, rispetto all’allungamento della vita, un numero crescente di pazienti vuole privilegiare la qualità della morte». Secondo l’ultima ricerca europea che risale al 2002, gli atti medici che abbreviano la vita dei pazienti terminali sono la somministrazione di antidolorifici (19% dei decessi in Italia, 26% in Danimarca); trattamenti interrotti o non tentati (4% in Italia, 14% in Svezia, Danimarca e Belgio, 20% nei Paesi Bassi, 28% in Svizzera); iniezione di sostanza letale (0,1% in Italia, 1,8% in Belgio e 3,4% nei Paesi Bassi). La sospensione delle cure è più spesso discussa dai medici con il paziente e i suoi familiari nei Paesi Bassi (95% dei casi), in Belgio (85%) e in Svizzera (82%) che in Italia (68%). In Svizzera, dal 1941, associazioni di volontari sono presenti negli ospedali per «accompagnare la buona morte».
Nei Paesi Bassi dove – come in Belgio – l’eutanasia è legale dal 2002, il 77,8% dei 6.860 medici che avevano registrato decessi nel 2005 hanno risposto a un questionario, anonimo, e i risultati sono stati pubblicati dal «New England Journal of Medicine». L’eutanasia per sedazione era aumentata dal 5,6 al 7,1 % dei decessi rispetto al 2001, quella con sostanza letale somministrata dal medico era diminuita (dal 2,6 all’1,7%), così come i «suicidi assistiti» in cui il paziente si autosomministra la sostanza prescritta dal medico (da 0,2 a 0,1%). E il numero delle eutanasie eseguite e documentate era passato dal 54 all’80%. Adesso che si fa e si dice, i comitati etici olandesi si preoccupano perché resta il privilegio di pazienti bianchi, educati e benestanti.
I privilegiati sono gli stessi in Liberi di morire. Le ragioni dell’eutanasia (Elèuthera, 2007). Derek Humphry, il giornalista che ha fondato l’Associazione della cicuta e già autore del manuale Eutanasia: uscita di sicurezza (1993), è sbrigativo nelle sue asserzioni, come spesso i razionalisti puri e duri. Scoraggia dal «suicidio depressivo» perché la depressione si può curare, incoraggia a prepararsi al «suicidio razionale» per porre termine alla sofferenza. Racconta come il fatto di aver a disposizione l’occorrente conforti un paziente esausto che rimanda a più tardi la morte scelta, per godersi ancora un po’ di vita scelta anch’essa e non più subita. Humphry, che ha aiutato a suicidarsi la prima moglie e il patrigno, sembra però ossessionato da Jack Kervokian, il patologo detto «Dottor Morte» che rivendicava il diritto al suicidio assistito con una campagna mediatica più da one man show che da movimento di base. Humphry lascia trapelare che a suo avviso Kervokian s’è meritato il carcere, ha diviso i volontari che hanno perso tempo in risse interne invece di portare avanti «la tattica vincente dei piccoli passi». Vincente solo in Oregon, per ora.
L’Italia, invece, «soffre di un ritardo trentennale, dal punto di vista legislativo, rispetto a paesi come l’America» scrive Ignazio R. Marino in Il dolore e la politica. Accanimento terapeutico, testamento biologico, libertà di cura (Bruno Mondadori, 2007). Dall’America, Marino esclude l’Oregon. Chirurgo, presidente della commissione sanità del Senato, è contrario all’eutanasia perché «non si può chiedere a un medico di dare la morte», però ha firmato il disegno di legge sul testamento biologico perché «è inconcepibile che si possa obbligare qualcuno a sottoporsi a un trattamento o cura contro la sua volontà». I medici devono essere liberi di interpretarlo a proprio piacimento, ma non i giudici i quali non sono «preparati ad occuparsi di una faccenda delicata come la fine della vita». Il testamento biologico non sarà vincolante, solo indicativo: «il diritto che si vuol riconoscere è quello di permettere a ogni persona di indicare oggi le cure e i trattamenti che ritiene accettabili per se stesso, nel caso in cui un giorno, nel futuro, non potesse più esprimersi autonomamente». Su quel diritto concordano e hanno «idee chiare» l’84% degli italiani. Dubito che qualcuno abbia le idee chiare sulle cure disponibili tra qualche anno. E che i medici siano preparati, dopo aver letto il sondaggio di Enzo Campelli e Enza Lucia Vaccaro fra 251 medici sui 330mila che esercitano in Italia. Questionario, risultati e interpretazioni occupano quattro quinti del volume, un’esagerazione. Il campione non rappresenta un granché, pare essere stato calibrato soltanto per zone geografiche, e certe informazioni raccolte restano inutilizzate. Per esempio pare che i sondati abbiano indicato il sesso, e sarebbe stato interessante conoscere le eventuali differenze tra le pratiche e le opinioni di uomini e donne. Tanto per sapermi regolare. Salva il libro un intervento di Stefano Rodotà, breve e chiaro al suo solito. In poche pagine, mette tutto: la divisione tra politica (ondivaga e, se messa alle strette, in maggioranza contraria) e cultura (favorevole, si ricordi quell’84% di italiani), il capriccio di medici e giudici nel decidere se sospendere o meno l’accanimento terapeutico, «la lotta per l’egemonia culturale, protagonista la Chiesa» che contrappone cultura della morte e cultura della vita. E i suoi sostenitori che accusano chi insiste sul «diritto a morire con dignità, di lanciare ai morenti un disperante messaggio d’abbandono». Qui l’ipocrisia è troppa e Rodotà resta garbato a fatica. Prega quei sostenitori di fare qualcosa di compassionevole per una volta, insistendo «sull’assistenza domiciliare, sul sostegno ai familiari, sulle cure palliative. Ma questo vuol dire impiego di risorse pubbliche, servizi in grado di garantire eguaglianza di fronte al dolore, superamento di situazioni che, in Italia, vedono da Roma in su 102 centri antidolore e solo 5 nel Mezzogiorno. L’opposto, dunque, delle derive privatistiche che ci affliggono. Qui è il legittimo campo per il legislatore, il banco di prova per una politica davvero umana».
Per tutelare medici e pazienti, al legislatore però spetta dire se e quando è lecito abbreviare la vita altrui e dunque dare all’atto un nome e una definizione. Non è facile. In Pensare l’eutanasia (Einaudi, 2006) Jean-Yves Goffi, che insegna filosofia all’Università di Grenoble, elenca nove varianti di eutanasia e personalmente adotta la definizione di Tom Beauchamp «abbreviata e semplificata». Semplifico ulteriormente: la morte è voluta dal diretto interessato e da almeno un’altra persona che vi contribuisce; la persona che muore è afflitta da tremende sofferenze o è immersa in un coma irreversibile, condizione che da sola costituisce la ragione primaria per cui la morte è voluta; le procedure scelte per provocare la morte debbono essere le meno dolorose possibili. Goffi parte da qui per contestare alcune delle argomentazioni della filosofia morale e del cristianesimo, a cominciare dalla china fatale che da una pratica decisa per mutuo consenso porterebbe, come sotto il nazismo, allo sterminio dei malati indesiderati. Non è vero, scrive, che se si ruba un uovo impunemente, si ruba un bue, perché «le tesi moderate (compassionevoli) e le tesi radicali (inumane) sono dissociabili in via di principio, non c’è un legame causale fra le prime e le seconde». Goffi mostra che conseguenzialismo, deontologismo e aretaismi – cioè le etiche delle virtù – approdano a paradossi e contraddizioni. C’è disaccordo sulla «sacralità della vita» persino tra i pensatori cristiani. Per san Paolo, nella Lettera ai Romani, non è permesso fare il male affinché ne consegua un bene. Per altri è permesso dal «principio delle azioni a doppio effetto»: l’antidolorifico somministrato per dare sollievo accelera in effetti la morte. O dalla distinzione tra mezzi «ordinari» e «straordinari». La Congregazione per la dottrina della fede autorizza per esempio la sospensione dei trattamenti «straordinari». Come se ci fosse un confine netto, e il trattamento ordinario in un caso non fosse straordinario in un altro, a seconda delle condizioni del paziente.
A proposito dell’etica deontologica, Goffi accenna al Decalogo e nota che in esso Dio proibisce e comanda atti il cui carattere immorale e morale è indipendente da ogni altra considerazione. «Per esempio, il settimo comandamento assume la forma del seguente divieto: “Non commettere adulterio”. E fondamentale osservare che esso non dice: “Non commettere adulterio, a meno che in tal modo si realizzi un valore più importante”; e neppure dice: “Non commettere adulterio, a meno che commettendolo a titolo eccezionale, tu permetta la realizzazione di un bene più importante”. Il comandamento ha un carattere ultimativo.»
Visto che lo stato di coniugalità è reversibile, la morte no, è curioso che «Non uccidere», la traduzione deontologica della sacralità della vita, dipenda dalle circostanze e abbia così tante eccezioni, legittima difesa, pena di morte, guerre… Questo fatto e la carità dovrebbero bastare alla Chiesa per tollerare ogni suicidio, assistito o meno. Al legislatore, almeno in uno Stato non confessionale, potrebbe bastare l’analogia con il matrimonio. La scelta dell’eutanasia dipende anch’essa da una somma, soggettiva e mutevole nel tempo, di credenze, giudizi, affetti, percezioni di sé, valutazione delle proprie aspettative e capacità ecc., da un’idea laica o meno, materialistica o meno della vita, e richiede l’intervento di terzi con pari convinzioni, ma non per forza l’adesione a valori che altri ritengono universali.
Quanto scrive Goffi si trovava già in Quando la vita finisce. La sostenibilità morale dell’eutanasia di James Rachels, un classico del 1986 che esce ora in edizione ampliata (Sonda, 2007). L’autore, morto di cancro nel 2003, spiega che se usano la ragione, cristiani e laici «condividono lo stesso universo morale». Demolisce gli argomenti dei filosofi, dei teologi e delle associazioni di medici che vorrebbero vietare del tutto o in parte l’eutanasia, li cita ampiamente e li illustra con esempi che ne fanno risaltare le contraddizioni. Conclude a favore della libertà e dell’autonomia del paziente di ricevere e del medico – il quale però non può obiettare, dice, avendo come primo dovere quello di alleviare la sofferenza – di dare la morte, respingendo le distinzioni tra eutanasia passiva e attiva, effetto singolo e doppio, e tra intenzioni buone e cattive le quali ci informano sul carattere di chi le intrattiene, ma non devono influire sul giudizio che diamo sull’atto in sé.
La distinzione importante per Rachels è invece tra la vita biologica (avere una vita), che può anche essere priva di percezioni e quindi di valore, e la vita «biografica» del soggetto e della sua esperienza, il suo «essere vivo». Propone quindi la legalizzazione dell’eutanasia da considerarsi «omicidio per pietà» e che gli abusi siano perseguiti penalmente come avviene per quelli di legittima difesa, senza creare un sistema complicato di autorizzazioni e ricorsi che arriverebbe a conclusione troppo tardi per dare sollievo a chi la pretende.
Armando Massarenti, filosofo e mio collega al «Sole 24 OREDomenica», ha scritto la prefazione a questa nuova edizione, e approva la posizione di Rachels. Io che filosofa non sono, farei meglio a imitarlo. Però Rachels se la prende con John Rawls dove, in Per una teoria della giustizia, sostiene che noi esseri umani condividiamo una capacità morale, simile a quella linguistica, di cui si tratta di formulare i princìpi, un po’ come i linguisti formulano le regole grammaticali. No, obietta Rachels, «la grammaticalità è determinata dalle convenzioni di un gruppo di parlanti e quindi l’uso comune non può essere scorretto. Invece una credenza comune può essere scorretta. Non abbiamo garanzie che le nostre intuizioni siano percezioni della verità». Non sono certa che la verità, così stabile e definitiva, c’entri con la morale. Mi sembra una pretesa poco laica, oltre che infondata, secondo i libri segnalati fin qui. Forse sbaglio, ma mi sembra più tollerante e rispettoso delle libertà individuali il teologo cattolico Hans Kung. Un credente può decidere di abbreviare la propria vita, è un dono di un Dio misericordioso, e non sadico, che dopo la morte gliene accorderà un’altra, migliore, scrive in La dignità della morte. Tesi sull’eutanasia (Datanews, già pubblicato da Rizzoli come La dignità del morire. In difesa della libera scelta nel 1996, insieme a uno scritto di Walter Jens).
Non so quali probabilità abbia in America la legalizzazione dell’eutanasia che Rachels augurava. La proposta di legge italiana, sebbene limitata alle «cure inaccettabili», pare averne poche e non solo per l’intransigenza del Vaticano che vuol conservare un potere simbolico e farlo rispettare da chiunque abiti qui, qualunque fede abbia. Anche filosofi e medici vogliono conservare il proprio. Si pensi al dibattito in corso da due anni in Gran Bretagna sulla proposta di legge detta «Joffe Bill». Nonostante modifiche che l’hanno resa irta di tutele, parecchi filosofi e bioeticisti la combattono, risfoderando la china fatale. E le associazioni dei medici esigono di definire univocamente le regole alle quali i pazienti devono assoggettarsi, senza ascoltarli. Tutto questo a dispetto dell’opinione pubblica (l’80% di cattolici e anglicani britannici è favorevole al «Joffe Bill») e dell’ammissione che cure interrotte, sedazioni profonde e somministrazione di antidolorifici sono pratiche correnti. Come qui, in Gran Bretagna si susseguono i casi «Welby», i processi, le sentenze clementi e la regola resta immutata: si fa e non si dice.