Tre Magris al mese

Oltre cinquecento pezzi firmati, per quindici anni di collaborazione all’insegna di una fedeltà biunivoca tra autore, testata, lettori: sono le cifre della presenza di Claudio Magris sulle pagine del «Corriere della Sera». Il consolidamento dell’immagine pubblica non sembra, nel suo caso, essersi disgiunto dalla fedeltà a un imperativo culturale sotteso alla domanda «quale ruolo può avere lo scrittore nel proprio tempo?» fino a «quale ruolo può conservare la letteratura?». Perché ancora oggi il compito assegnato all’intellettuale, nella declinazione di Magris, è quello di intervenire sul presente portando uno sguardo che nasce altrove: nello studio, nella frequentazione dei classici, nelle letture degli scrittori del Novecento.
 
Non c’è alcun dubbio sul fatto che Claudio Magris sia stato, negli ultimi anni, uno dei protagonisti della cultura italiana, ma la dimensione del suo impegno emerge con ancora più evidenza se si considerano alcune cifre, noiose, nella loro nuda enumerazione, ma significative. Interrogando l’archivio on line del «Corriere della Sera», si scopre che dal 3 gennaio 1992, data d’inizio della collaborazione al quotidiano, al 30 giugno 2007, la firma di Magris è comparsa 538 volte: una media di quasi tre articoli al mese. Nelle librerie (almeno quelle su Internet) sono offerti, alla stessa data del 30 giugno 2007,24 libri dello scrittore, anche se alcuni di questi sono edizioni diverse degli stessi titoli.
Non interessa, qui, una lettura di questi dati in chiave sociologica o di politica editoriale. E non si tratta, nemmeno, va detto subito, di esprimere un qualsiasi giudizio, letterario o meno che sia. Quello che le cifre rivelano è una doppia fedeltà: quella di Magris al «Corriere» e quella del quotidiano – il che significa di un’ampia fascia di lettori (il «Corriere» conserva il primato di quotidiano nazionale più letto) – alla figura e alla prosa dello scrittore. Non sono soltanto i quindici anni di continua collaborazione che possono stupire, infatti, quanto la coerenza di Magris, che, scrittore, critico letterario, docente universitario di letteratura tedesca (prima a Torino e quindi a Trieste), non ha accondisceso, come è spesso avvenuto in casi analoghi, al linguaggio, allo stile, alle categorie richieste dalla conversazione sull’attualità (che invadono programmi televisivi e, in forme diverse, giornali e riviste).
Il primo articolo pubblicato da Magris sul «Corriere» si interrogava sulla presenza e sul ruolo dello scrittore in una società e in un contesto politico in trasformazione, soprattutto per la crisi delle grandi ideologie e delle grandi utopie novecentesche; significativamente la domanda che veniva posta già nel titolo era così formulata: «E adesso, povero scrittore, che fare?». I cambiamenti che nel 1992 sembravano ben definiti si sono ulteriormente approfonditi e, nel corso degli anni, hanno proposto uno scenario di volta in volta diverso, ma la domanda «quale ruolo può avere lo scrittore nel proprio tempo?» – cui si aggiunge anche: «quale ruolo può conservare la letteratura?» – si è più volte riproposta, come tema ricorrente, implicito o meno, degli interventi di Magris.
Si potrebbe dire che il ruolo assegnato all’intellettuale – quel ruolo che Magris stesso svolge attraverso i suoi articoli – sia quello di intervenire sul presente portando uno sguardo che nasce altrove: nello studio, nella frequentazione dei classici, nella cultura sedimentata nei secoli, nelle letture degli scrittori del Novecento, in particolare (ma non solo) di quelli della letteratura in lingua tedesca, anticipatori di inquietudini esistenziali e sociali che si sono pienamente manifestate con il passare dei decenni, fino ad arrivare all’oggi.
Le riflessioni di Magris prendono il via da molteplici occasioni. È, spesso, la rilettura di testi dei grandi autori del passato riproposti in una nuova edizione, è la celebrazione di un anniversario (ricordando i 50 anni dalla morte di Brecht, Magris sottolineava che anche oggi sarebbe necessario uno scrittore come lui, perché «Saprebbe raccontare il nostro smarrimento»); è l’uscita di un romanzo nuovo; è una mostra o uno spettacolo teatrale; può essere anche il confronto con altre discipline, come è avvenuto nel «dialogo» con il giurista Natalino Irti, per interrogarsi, attraverso il diritto e la sua legittimazione, sui valori dell’uomo.
In questa direzione Magris ha raccolto l’eredità di alcuni maìtres-à-penser e di intellettuali, per esempio Pier Paolo Pasolini, che, fino almeno agli anni ottanta-novanta, intervenivano con autorità dalle colonne dei quotidiani: un’eredità che non sembra essere passata a molti, e che, negli ultimi anni, sembra essere quasi del tutto finita o dispersa in interventi occasionali o di breve durata.
La caratteristica della scrittura di Magris (ai cui interventi si può forse affiancare quelli, proposti ogni domenica, ma con fini diversi, da monsignor Gianfranco Ravasi sul «Sole 24 ORE») è forse quella di arricchire ogni articolo con richiami alla letteratura, alla filosofia, all’arte: non si legge, in questa scelta, un’esibizione di sapere, quanto la consapevolezza che, di fronte alla progressiva trasformazione della cultura in occasione di spettacolo e di chiacchiera diffusa – per cui docenti universitari e scrittori passano i pomeriggi a registrare talk show –, è necessario seguire un’altra via e far ricorso ad altre conoscenze.
Il consolidamento dell’immagine pubblica non sembra, dunque, avere posto Magris sul piano del commentatore politico o del giornalista: gli interventi muovono da un avvenimento dell’attualità culturale, spostando gradatamente l’attenzione sulle forme della vita sociale, sui comportamenti morali, sulla condotta politica.
Basti una citazione da uno dei più recenti articoli (19 giugno 2007), per dare un esempio. Attraverso una rilettura di Guerra e pace, in occasione della riduzione televisiva del romanzo (Guerra e pace in tv: odissea banale o vera epica?), dopo aver presentato la grandezza dell’opera e la capacità di Tolstoj di parlare della vita, Magris mette in guardia dalle facili interpretazioni: «in questi casi il rischio è quello di declassare una grande opera d’arte – pervasa sì di un senso d’armonia, ma profondamente consapevole di tutto lo scandaloso male presente nel vivere – a monumentale pastone retorico, falsamente consolatorio e positivo, in cui in fondo si vive felici e contenti e la vita continua. È questo, spesso, il gratificante polpettone di buoni sentimenti ammannito, in sapiente alternanza con altrettanto fasulle pseudoprovocazioni trasgressive, dall’industria culturale, romanzesca e televisiva. Tolstoj è il contrario di tutto questo».
Forse è questa la ragione per la quale Magris continua a intervenire da così lungo tempo: la chiacchiera logora chi parla, la riflessione culturale arricchisce chi la compie e chi la legge.