Storie di precariato

Sono tanti, giovani, e parecchio arrabbiati: l’urgente ansia testimoniale che anima gli autori della nuova letteratura precaria si esprime attraverso autobiografie, reportages, ma anche romanzi veri e propri. Ci sono il candidato a colloquio con il settore Risorse umane, la venditrice telefonica di aspirapolveri, il giovane umanista operaio. Tutti offrono un ritratto intenso, allarmato, del nuovo mondo dei lavoratori flessibili, che quasi sempre riesce a impressionare e commuovere il lettore. Anche se non sempre lo convince.
 
«Esiste una nuova, potente letteratura del lavoro, ma non ha alle spalle la promozione del critico che ama gli scrittori americani e i comici giallisti tanto rilassanti, tanto consumabili». A sostenerlo è Aldo Nove nel vibrante reportage Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese… , sua penultima fatica letteraria. Formulata in questi termini, la tesi è forse un po’ enfatica. D’altra parte l’autore di Woobinda è qui impegnato in un delicato upgrade (direbbe lui) della propria immagine di autore: esaurita la stagione della cattiveria cannibalesca («Quello di Orwell è un ciclo concluso. […] Lo stesso credo possa dirsi, in scala ovviamente molto minore, per il pulp, come suo riflesso letterario critico»), la nuovissima tradizione della «letteratura flessibile» identifica l’orizzonte ideale entro cui rimodulare il suo graffiante moralismo engagé.
Certo è che all’agguerrita pattuglia dei pionieri del genere da Giorgio Falco a Francesco Dezio, da Andrea Bajani a Giuseppe Caruso –, negli ultimi mesi si sono aggiunte parecchie voci nuove. Sempre Bajani ha pubblicato, per Einaudi, la «Guida di viaggio per lavoratori flessibili» Mi spezzo ma non m’impiego, a poche settimane di distanza sono usciti il romanzo di Mario Desiati Vita precaria e amore eterno, da Mondadori, e il reportage di Angelo Ferracuti Le risorse umane per Feltrinelli; ma si possono ricordare anche Il mondo deve sapere di Michela Murgia, proposto da Isbn, o il Curriculum atipico di un trentenne tipico di Fabrizio Buratto, edito da Marsilio.
A scorrere l’elenco, colpisce anzitutto la costante generazionale: gli autori di questi libri hanno tutti fra i trenta e i quaranta anni (Ferracuti pochi di più), sono spesso esordienti (Falco, Buratto, Murgia) o quasi (Dezio, Bajani, Desiati, Caruso), e volentieri le note biografiche ne segnalano la personale esperienza nel mondo del lavoro atipico. Ciò corrobora l’impressione di un fenomeno nato «dal basso», sull’onda di una rabbiosa spinta testimoniale. A muovere questi autori è il proposito di denunciare lo «scandalo normale» (Nove) di un sistema che relega l’individuo a una condizione umiliante, di protratta instabilità non solo lavorativa, ma sociale, affettiva, esistenziale. La nuova letteratura flessibile sembra insomma attribuirsi una bruciante necessità di ordine etico, civile, finanche politico, prima ancora che letterario.
Naturalmente, anche la letteratura del lavoro di trenta-quarant’anni fa si nutriva di intensi umori etici civili politici: ma ciò accadeva nel contesto di una battaglia politico-culturale totalizzante, che permeava ogni livello della vita sociale. Per la nuova leva di scrittori, pur nella varietà delle soluzioni adottate, la letteratura sembra invece assumere una funzione addirittura compensatoria, sostitutiva, rispetto al flagrante vuoto di rappresentatività e iniziativa imputato proprio alla politica. Sindacati e partiti della sinistra sono tra i bersagli più aspri, e insieme tra i destinatari più diretti del comune j’accuse. il lavoratore precario o è un soggetto apolitico o tende a diventarlo per esasperazione. Iperboliche immagini di smarrimento condensano questo grave senso di abbandono: da un lato, la grottesca deriva terroristica verso cui precipita il protagonista del Chi ha ucciso Silvio Berlusconi di Caruso; dall’altro, la parossistica abulia del Martino Bux di Desiati, che con il medesimo senso di estraneità si fa trascinare in un corteo neofascista o sul treno speciale per una manifestazione sindacale. Anche più in generale, la convinzione di dover scalfire il guscio di indifferenza della società civile favorisce l’opzione per assetti prospettici rigidamente orientati: la nuova letteratura flessibile è una letteratura apertamente di parte. Esplicita, del resto, è l’aspirazione a farsi carico anche di una cruciale funzione socializzante. Raccontare è una forma primaria di condivisione dell’esperienza, è il tramite per una presa di coscienza collettiva. Nove lo teorizza a chiare lettere nel finale del suo libro: ciò che lo scrittore deve fare, è assumersi la responsabilità di raccogliere e divulgare le infinite «tragedie normali» del popolo della precarietà («Parlano di noi. // Storie. / Urgenti. / Sono dappertutto. // Vanno raccolte. / Dobbiame dircele», p. 168).
Sul piano delle scelte formali, l’intensità delle motivazioni extraletterarie sembra riflettersi nella diffusa tendenza a preferire, ai generi più tipici della letteratura di finzione (romanzo in primis), forme comunicative più semplici e dirette. Si potrebbe parlare di un impellente bisogno di autenticità, che per un verso promuove forme di immediatezza testimoniale al limite del preletterario; per altro verso si esprime attraverso un uso per così dire postletterario del reportage d’autore, giacché l’opzione per la «non fiction» assume qui il senso di una deliberata alternativa alla narrazione romanzesca, evidentemente avvertita come medium meno adeguato allo scopo, meno rigoroso, meno potente.
Certo, nel verboso diario pamphlet di Michela Murgia l’autenticità dell’esperienza vissuta (un mese in un cali center come venditrice telefonica di aspirapolvere) è la sola vera risorsa messa a frutto. Ma nell’originale libro di Fabrizio Buratto il modulo autobiografico passa, con felice senso dell’ironia, attraverso il sorprendente riuso letterario della forma del curriculum vitae, dilatata a oltranza e infine travolta dalla piena autodiegetica cui l’autore si abbandona. Alla fine la «loquace signorina addetta alla selezione delle risorse umane» non assumerà il candidato Buratto: ma almeno avrà subito il contrappasso di saggiare l’irriducibile atipicità del suo profilo.
La forma reportage è intesa per lo più come funzionale a una raccolta di esperienze e testimonianze forti, emblematiche. E così per Angelo Ferracuti, che nel suo Le risorse umane allinea, con un compromesso abbastanza tradizionale fra narrazione e inchiesta, gli ispirati resoconti dei suoi sondaggi nel mondo del lavoro contemporaneo (non solo precario). La figura dell’io autore è sempre molto presente e riconoscibile, sia come istanza giudicante, sia come detentrice di uno sguardo e di una sensibilità culturale da scrittore. Il libro, invero, funziona meglio quando Ferracuti riesce a tenere un basso profilo, affidandosi alla forza delle sue storie senza preoccuparsi troppo di segnalare al lettore il «corretto» punto di vista da assumere. In Mi chiamo Roberta Aldo Nove opta invece per una studiata forma di contrappunto fra testimonianza e commento: ogni capitolo è composto da un’intervista, in cui a parlare è soprattutto l’interlocutore, e da un cappello introduttivo, in cui lo scrittore espone il suo punto di vista. L’amalgama di pathos e logos risulta molto efficace nelle interviste, dove la carica emotiva delle testimonianze affiora senza sforzo dal linguaggio lucido e piano. Meno risolti appaiono i cappelli, dove le frequenti accensioni retoriche e tonali del dettato, lungi dal rendere più perspicua l’argomentazione (quasi sempre molto radicale), rivelano la contraddizione di fondo del libro: che colpisce il lettore più alla pancia che alla testa, riuscendo bensì a commuoverlo e indignarlo ma non a convincerlo. Ciò non toglie che le doti di scrittura di Nove siano in grado di riservare al lettore invenzioni di indubbia suggestione (come l’immagine iniziale della città di bambini, o il sagace concetto di «integrazione apocalittica»).
L’unico a sperimentare una forma diversa di reportage è Andrea Bajani. Il giovane scrittore (che nel romanzo Cordiali saluti aveva già narrato la favola delicata e crudele di un virtuosistico compilatore aziendale di lettere di licenziamento) rinuncia infatti per principio al pedale del patetico, al racconto «per casi umani», proprio perché, secondo lui, la condizione del lavoratore «atipico» non è affatto atipica, ma normale, e come tale va rappresentata. Le armi prescelte, allora, sono quelle della chiarezza e dello humour. L’agile format espositivo della «guida di viaggio», per esempio, è introdotto grazie alla felice trovata dell’analogia straniante tra i «pacchetti» offerti dall’agenzia turistica («Due settimane a New York») e dall’agenzia interinale («Tre settimane più proroga presso rinomato studio commercialista»). Senza perdere in leggerezza, nel breve capitolo La precarietà dei dati Bajani riesce persino a occuparsi di numeri. Esercizio che gli altri letterati reporter praticano poco: e che pure è salutare, anche sul piano retorico.
L’urgenza delle motivazioni extraletterarie è ben percepibile anche negli autori che, per raccontare il mondo della precarietà, scelgono di affidarsi ai più consueti mezzi della fiction narrativa. Due, in particolare, sembrano essere gli orientamenti strategici prediletti. Da un lato c’è chi, come Desiati e Caruso, punta alla costruzione di personaggi e vicende paradossali, metafore iperboliche degli effetti devastanti che la vita precaria produce sull’individuo. Lo stile narrativo di Caruso è di forte ascendenza cinematografica: svelto, essenziale, anche se a tratti un po’ andante. In Chi ha ucciso Silvio Berlusconi il ritmo è tutto: il lettore deve esserne trasportato a seguire, senza badare troppo ai requisiti di plausibilità, la catena di banali cedimenti che induce il ragionevole protagonista Ettore a trasformarsi, da giovane precario innamorato, in improvvisato terrorista. Solo nel finale l’imbarazzo per la stramberia via via più smaccata dell’intreccio prende il sopravvento. Letterariamente più ambizioso, ma forse ancor meno risolto, il romanzo di Desiati Vita precaria e amore eterno. Qui allo stile sovraccarico e pretenzioso fa da contraltare un disegno narrativo debole, sfocato. Il tema della precarietà vi si innesta in modo estrinseco, volontaristico: non è certo il lavoro nel cali center a destabilizzare il protagonista Martino, logorato semmai da una funesta storia familiare e più ancora dalla devastante perdita della fidanzata Toni. Peraltro, è incongruo che Desiati affidi a Martino le proprie veementi istanze di critica sociale, se il colpo di scena finale deve rivelarcelo come narratore folle e inattendibile. L’effetto è paradossalmente opposto a quello che Volponi otteneva dal suo Saluggia in Memoriale.
Su un fronte diverso, Francesco Dezio e Giorgio Falco si propongono di smascherare la violenza e inautenticità quotidiana dei rapporti umani nell’era del lavoro flessibile attraverso la ripresa di tecniche di mimesi e straniamento linguistico di ascendenza neoavanguardistica (modello esplicito è il Vogliamo tutto di Balestrine. Nei 71 frammenti di monologo raccolti in Pausa caffè, l’esercizio di stilizzazione (ora più ora meno virtuosistico) procede per moltiplicazione, attraverso un accumulo seriale e caotico di voci e reperti discorsivi: secondo il collaudato principio della cordiale banalità dell’orrore. In Nicola Rubino è entrato in fabbrica Dezio racconta, in modo rapsodico ed esuberante e nondimeno romanzesco, le disavventure di un riottoso operaio barese «a formazione», condannato all’emarginazione (e infine al licenziamento) da una naturale insofferenza alla sottomissione acuita dall’insolita cultura umanistica. Il libro, tutt’altro che risolto sul piano stilistico-strutturale, ha però un’indubbia vivacità narrativa e mimetica, cui non è estranea la matrice autobiografica, dichiarata dall’autore con ribalderia bianciardiana: «Da dove nasce un libro come questo? E inutile girarci intorno, a scriverlo mi ha spinto una grande incazzatura, un’incazzatura enorme e incontenibile».
Sul piano dell’intensità emotiva, del resto, la «potenza» della nuova letteratura flessibile è evidente. Difficile, per il lettore, non sentirsene toccato e coinvolto. Difficile restare indifferenti all’autenticità del disagio cantato da questi autori. Spesso, però, questa programmatica intensità e immediatezza comunicativa è ottenuta al prezzo di una brusca semplificazione delle coordinate strutturali della rappresentazione. Ma sacrificare la complessità (tanto argomentativa quanto romanzesca) sull’altare della immediatezza emotiva, non è mai un buon affare. Almeno per chi crede che le emozioni si «consumino» assai più velocemente delle convinzioni.